La ceroplastica bolognese del ‘700

Ma che bella cera, sembra carne viva!

Bologna ripercorre la produzione settecentesca di sculture realistiche, delle quali fu un centro europeo.

 

Strana storia quella del ritratto in cera. Le origini, secondo il grande storico dell’arte Julius von Schlosser, risalgono al tempo dei Romani, con i ritratti degli antenati custoditi in casa in un sacrario. Una vicenda che ritroviamo ancora oggi nelle fotografie più gelosamente conservate e che attraversa il percorso del ritratto realistico. Un polo di questo ritratto, nel Settecento, è Bologna, dove vediamo intrecciarsi diverse funzioni: da una parte perpetuare la memoria dei defunti, dall’altra creare una riflessione nuova sul corpo umano che si collega direttamente all’insegnamento universitario dell’anatomia e in generale della medicina .

Nel 1742 Ercole Lelli viene incaricato da papa Benedetto XIV di creare, in sei anni, imponenti figure in cera che propongano un’indagine sul corpo umano, sui muscoli, i tendini e il loro nesso con la struttura ossea: figure destinate, nel 1747, alla Sala di Notomia dell’Università, che rappresentano una tappa fondamentale della ricerca scientifica a livello europeo.

Sono dunque due le tradizioni da cui muovono i ritratti in cera: la conservazione dell’immagine dei defunti che deriva da quella dei santi, tanto importante per la storia del culto e delle reliquie, dall’altra la scoperta di un nuovo modo di pensare il mondo, l’indagine scientifica sul vero che si sviluppa in parallelo all’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert (1751-1772). Queste le due strade, le due ideologie a monte delle opere in mostra a Bologna per “Verità e illusione. Figure in cera del ‘700 bolognese”, a cura di Mark Gregory D’Apuzzo e Massimo Medica.

Illuminante un confronto fra due ritratti di Anna Morandi Manzolini (1714-1774), una delle figure guida fra i ceroplasti bolognesi almeno dagli anni Quaranta del secolo. Il ritratto di Giovanni Manzolini mostra la figura a mezzo busto, nella destra il bisturi e la sinistra posata su un cuore che sta dissezionando. Il busto cela una struttura di legno e stoppa rivestita di stoffe e pizzi e lini raffinati cui si aggiungono capelli e peli veri. Colpisce nel volto e nelle mani il pallore e la fissità della figura che fanno pensare a una maschera mortuaria come punto di partenza della rappresentazione. Insomma la vedova, Anna Morandi Manzolini, intende conservare la memoria del marito e la propone quasi come un’immagine sacra da venerare. La conferma viene dall’autoritratto in cera della stessa Anna Morandi Manzolini, impressionante per la sua vivacità, per il movimento rappresentato, per le decorazioni, le stoffe, i ricami, le collane, e dove il colore del volto e delle mani sono diversi: Anna intende trasmettere ai posteri un’icona di vita certo legata alla tradizione del sacro, alla rappresentazione, al racconto, a una parlante messa in scena come nelle figure dei Sacri Monti. E proprio di questo rapporto con il teatro hanno scritto studiosi come Andrea Emiliani e Eugenio Riccomini, i cui saggi sono stati fondanti per la ricerca sulle cere, ma anche su stucchi e pitture del ‘700 non solo bolognese.

Fra le opere in mostra vi è una coppia di ritratti del tedesco Caspar Bernhard Hardy (1726-1819) che rappresentano Il matematico e Il filosofo morente. Il matematico, ma forse si potrebbe trattare di un architetto, tiene nella destra il compasso e nella sinistra un libro: sguardo intento, torsione del corpo e del viso, spazio definito anche dalle pieghe dell’abito. Diversa l’altra immagine, quella del filosofo morente. La figura è posta su una sedia imbottita, ha le mani incrociate e si appoggia al bracciolo e allo schienale, il volto è quello della fine: bocca spalancata, occhi spenti. Ma siamo davvero davanti a due ritratti o forse le due figure, che si somigliano, vogliono proporci il confronto fra la vita, come progetto e misura, e la morte? Proprio la complessa simbologia delle cere di Hardy colpiva Johann Wolfgang Goethe: il poeta, che ammirava e conosceva l’artista, allora vicario del duomo di Colonia, ne collezionava le cere e scriveva: “Hardy si dedicò a un genere molto gradevole, cioè la modellatura di mezze figure di cera, quasi a tutto tondo, scegliendo a questo scopo le stagioni e altri soggetti caratteristici, dalla giardiniera gioiosa di vita, con frutti e cesta di verdure, al vecchio contadino in preghiera davanti alla mensa frugale, al pio moribondo. Questi soggetti… meritano di essere conservati per l’avvenire in qualche museo di Colonia”. Così i due ritratti del tedesco sono simboli, come le altre sue opere: non ritratti ma rappresentazioni delle passioni, o delle classi sociali, o dei sentimenti.

Veniamo adesso all’impresa più importante, alla ricerca che si collega alla riflessione sul corpo e sul reale a Bologna. Nel 1742 Ercole Lelli (1702-1766) è nominato direttore di figura all’Accademia Clementina e si impegna a “formare, scolpire e colorire, tempo 6 anni, per 17.000 lire bolognesi, otto statue di grandezza naturale, fra cui due nudi uno di sesso maschile e uno femminile, e i scorticati che mettono in evidenza i diversi strati muscolari fino allo scheletro”. Lelli, fra 1742 e 1751, si avvarrà della collaborazione di Domenico Piò per i primi tre anni, plasticatore poi sostituito da Giovanni Manzolini; il lavoro è immane e propone un’analisi anatomica nata dallo studio dei cadaveri e della loro dissezione che non trova confronti in Europa. Ma, nelle due cere che aprono e chiudono la serie delle statue che analizzano scheletro, muscoli, tendini, scopriamo qualcosa di diverso. Qui non si può pensare a una scelta realistica ma a una ricercata sintesi di tradizione accademica e a una sottile simbologia: siamo forse davanti all’evocazione delle figure di Adamo ed Eva, rilette attraverso Guido Reni.

Tra le sculture in cera, un San Carlo Borromeo e un San Filippo Neri di Luigi Dardani (1723-1787) mostrano un dialogo evidente con la contemplazione religiosa che evoca la fragilità della carne. Nella rassegna colpisce un ovale di Giovanni Battista Bolognini in terracotta dipinta che, come suggerisce in catalogo Massimo Medica, segna come un ponte fra la scultura in cotto e le immagini in cera. Del resto il grande capitolo delle sculture in terracotta dipinta era culminata, in pieno e tardo XV secolo, proprio a Bologna e in Emilia con i Compianti sul Cristo morto di Guido Mazzoni e Niccolò dell’Arca, dove la tensione realistica esalta la passione, la messa in scena, il dramma.

Il ritratto in cera si pone quindi fra due storie, quella dell’indagine sui corpi e sulla loro vera rappresentazione e l’altra, simbolica, che cerca una sintesi fra civiltà antica, rinascimentale e barocca. Così a Bologna, nello Stato della Chiesa, la ricerca scientifica rimodula la storia dell’arte.

 

                                               Arturo  Carlo   Quintavalle

 

L’articolo è pubblicato ne “La Lettura” del 22 gennaio 2023, supplemento culturale del Corriere della Sera, a pag. 27.