La Cina, il Giappone e l’Europa nell’epoca del Medioevo occidentale.
1281: le quattromila navi di Kublai Khan che sparirono nell’Oceano.
1405: la grande flotta dell’ammiraglio Zheng He naviga verso Ovest.
1492: Cristoforo Colombo tocca per la prima volta il suolo americano.
Qual è il mestiere dello storico? Quello di raccontare o quello di spiegare ciò che è accaduto nel passato? Di osservare con distacco, concludere senza preconcetti, suggerire chiavi di lettura capaci di orientare scelte politiche capaci di innescare conseguenze devastanti? F. Braudel in un suo saggio discuteva l’idea che il Caso domini l’evoluzione delle vicende umane e chiedeva che si tenesse maggior conto della geografia, poiché gli attori cambiano ma la scena naturale resta predominante. Presento ai lettori il racconto di questo lontano avvenimento della fine del XIII secolo e lo metto a confronto con un altro sensazionale episodio della prima metà del ‘400: entrambi i fatti riguardano la Cina e il suo rapporto col resto del mondo. Un problema inquietante resta sullo sfondo: poteva la Cina, prima dei viaggi di Colombo e dei navigatori portoghesi, porsi l’obiettivo di conquistare il mondo e di cambiare il corso delle vicende umane? E’ un tema complesso che mi ricorda una bellissima immagine di Wittgenstein: “Volevo studiare i contorni di quell’isola che è l’uomo, alla fine ho scoperto invece i confini dell’oceano”. Guardo di qua, vedo un’isola che è finita, comprensibile, sperimentabile. Ma intanto sulla mia pelle battono le onde dell’oceano, un qualcosa che ci trascende.
In un articolo sul The Guardian di qualche anno fa Richard Girling rievocava questa vicenda: una spedizione navale imponente che nel 1281 dalla Cina si era mossa verso le coste nord-occidentali del Giappone per conquistare il regno dei samurai. Era la flotta di invasione più grande mai costituita: 4.400 imbarcazioni, con a bordo un esercito di 140.000 uomini dotato delle più avanzate tecnologie militari, inclusi cavalli da guerra e artiglieria esplosiva. Ad inviarla era la più grande superpotenza del mondo di allora, la Cina di Kublai Khan, le cui truppe mongole avevano completato la conquista del continente cinese, iniziata dal nonno di Kublai, Gengis Khan. Restava ora solo da conquistare il Giappone. Nel suo libro, “L’impero giapponese”, Feltrinelli 1969, J. Whitney Hall aveva già raccontato questo episodio sottolineando che furono le qualità militari dei samurai giapponesi ad impedire ai Mongoli di penetrare nell’interno: il conflitto aveva avuto un effetto profondo e durevole e si era diffusa la convinzione che la sconfitta dei nemici si era verificata per l’intervento di forze spirituali, in modo particolare del “vento divino” (kamikaze) che i kami (gli spiriti del luogo) protettivi del Giappone avevano scatenato contro gli invasori.
1985, isola di Takashima, nei pressi del porto di Kozaki: un uomo che raccoglie molluschi trova uno strano oggetto di metallo, antico, su cui sono incisi caratteri a lui ignoti. Ci vorranno ancora vent’anni e poi sarà possibile ricostruire l’incredibile vicenda. Lo strano oggetto ritrovato dal pescatore era un sigillo di bronzo, con iscrizioni nella lingua della Mongolia esterna, il Phags-pa, datato 1276. Ideogrammi cinesi sul retro del sigillo rivelarono che apparteneva a un sohua, paragonabile come grado ad un generale di oggi, che avrebbe combattuto alla testa di mille uomini. Comincia così a delinearsi la storia: Kublai, una volta conquistata la Cina da parte dei Mongoli, aveva adottato lo stile di vita cinese (così infatti ce lo descrive mirabilmente il nostro Marco Polo nel Milione), stabilito la sua capitale a Khan-Balik (oggi Pechino), fondato la dinastia Yuan, adottato il buddismo come religione nazionale. Il suo palazzo d’estate a Shang-tu, o Xanadu, era leggendario. Marco Polo raccontava di ettari di giardini in cui pascolavano caprioli e cervi e si diceva che il palazzo potesse accogliere seimila ospiti. Ma non bastava. Anche se Kublai aveva la Cina, l’Indocina e il Tibet, non aveva il Giappone e lo voleva ad ogni costo. Una spedizione militare inviata nel 1274 era stata respinta. Kublai diede così ai suoi ufficiali esattamente un anno di tempo per riuscire nell’impresa. Ma non esisteva una flotta militare mongola e il Giappone si trovava a 500 miglia di distanza oltre il mare aperto. Il comandante in capo di Kublai Khan, Arakhan, poteva contare su 140mila guerrieri esperti e soli dodici mesi in cui utilizzarli. Iniziò in fretta e furia a costruire navi.
Tra i primi a giungere nel 1986 sulla costa di Takashima fu il grande archeologo marino giapponese Kenzo Hayashida, a capo di un gruppo internazionale di sommozzatori, archeologi e ricercatori. Il fondo marino non era sabbioso ma un orribile agglomerato di fango e limo spesso un metro e mezzo che, non appena smosso, intorbidava l’acqua sprigionando una densa nuvola nera. I sommozzatori impiegarono mesi ma infine si imbatterono in qualcosa di solido, il frammento di un’ancora di legno che doveva essere stata lunga sette metri. Serviva solo un esame per rintracciare e identificare antichi pollini intrappolati nel legno. Erano cinesi. Poi emerse tutta una serie di reperti, in quantità sufficiente per confermare che quello era il luogo del naufragio di almeno una parte della flotta di Arakhan. C’erano altre nove ancore, un elmetto mongolo, lame di spade, teste di frecce, frammenti di un teschio umano, monete, migliaia di frammenti di fasciame. Da questi gli archeologi furono in grado di ricostruire una paratia larga più di cinque metri che faceva ipotizzare un’imbarcazione lunga almeno 70 metri, di dimensioni doppie rispetto alle navi europee della stessa epoca. Il professor Morris Rossabi, della Columbia University, esperto di storia mongola, sostiene che le navi cinesi allora erano le migliori del mondo. “Erano più lunghe, utilizzavano il ferro, i timoni erano di qualità superiore. E la loro struttura era moderna in modo sorprendente. Gli scafi erano divisi in compartimenti stagni sigillati con resina in modo da poter ovviare ad una falla”. Con le loro navi i mongoli sarebbero apparsi come erano convinti di essere: invincibili.
Eppure persero. Come fu possibile? La più grande flotta del più grande impero del mondo affondò miseramente e misteriosamente. Dai relitti comincia ora ad emergere un quadro molto articolato e si avanzano varie ipotesi. La prima è quella di un sabotaggio dei mastri navali cinesi. Benché essi fossero famosi per l’abilità nel costruire navi, queste imbarcazioni sembrano essere state messe insieme alla meglio. Hayashida mostra la struttura in cui doveva inserirsi l’albero: nella fattispecie è così mal fatta che l’albero poteva flettersi, rendendo la nave instabile e incontrollabile. Il rancore dei cinesi per i mongoli era così forte che essi li fecero imbarcare su navi inadatte al mare? Dice Rossabi che Kublai esercitò enormi pressioni sui costruttori; gli operai erano in maggioranza cinesi e non provavano particolare simpatia per i mongoli. Questa del sabotaggio è una teoria affascinante ma poco plausibile. George Lane, della Scuola di Studi orientali e africani della London University, dice: “Volenti o nolenti, i cinesi facevano parte dell’impero mongolo e aspiravano a conquistare il Giappone al pari di chiunque altro”.
E’ più probabile una seconda ipotesi: la qualità scadente delle navi fu dovuta alla fretta di soddisfare le richieste impossibili di un imperatore impaziente. Per costruire una flotta di quell’entità ci sarebbero voluti dai tre ai cinque anni. I ricercatori hanno letteralmente passato al setaccio centinaia di frammenti di fasciame senza trovare la minima traccia di una chiglia. Si stenta a crederlo eppure le prove sono inconfutabili. Non erano navi adatte a solcare l’oceano con profondo pescaggio, bensì imbarcazioni a fondo piatto adatte alla navigazione sui fiumi. Con vento forte sul mare mosso avrebbero avuto la stabilità di una tinozza di latta.
E c’è, infine, un terzo fattore. Nel ricostruire le posizioni delle ancore ritrovate, il gruppo di Hayashida si è reso conto che tutte erano disposte nella stessa direzione. “Il fatto che tutte le ancore fossero verso sud –spiega l’archeologo- e che le cime fossero tese verso la costa indica che una forza molto potente scagliava le navi verso la spiaggia”. In Giappone il periodo tra agosto e ottobre, quando la flotta di Kublai prese il mare, è il culmine della stagione dei tifoni. Per marinai improvvisati su navi improvvisate deve essere stata un’esperienza infernale. E’ probabile che la tempesta li abbia colti all’improvviso, il tifone potrebbe essersi abbattuto sui mongoli nel giro di sei-dodici ore scagliando le imbarcazioni contro gli scogli o rovesciandole. In base ad antichi documenti storici cinesi si calcola che siano morti circa 70mila uomini, il che rappresenterebbe il maggior numero di vittime nella storia dei viaggi per mare.
I viaggi oceanici di Zheng He. In un pomeriggio primaverile del 1962, sotto un cielo coperto, alcuni operai che stavano dragando una trincea allagata sul lungofiume di Nanchino urtarono con le loro pale un pezzo di legno sotterrato lungo quasi undici metri. Si trattava della barra di un timone, affondato nel fango accanto ai resti in disfacimento di un timone la cui superficie arriva a coprire quarantadue metri quadrati, grande a sufficienza da consentire di manovrare una nave delle dimensioni di una portaerei del XX° secolo. Solo che risaliva a seicentocinquanta anni prima. Questo ammiraglio cinese esplorò l’Occidente in sette viaggi dal 1405 al 1433, percorrendo 50mila Km e visitando 37 nazioni. Su mandato dell’imperatore Zhu Di, una flotta di dimensioni ineguagliate al mondo salpò nel luglio del 1405 dal porto di Suzhou, la “Venezia cinese” vicino a Shangai. 150 anni dopo il viaggio del veneziano Marco Polo in Cina. La sua missione dichiarata era quella di allacciare legami con paesi lontani, espandere il commercio di prodotti cinesi, costruire una rete di avamposti commerciali e diplomatici che andava dall’odierno Vietnam all’Africa orientale. La comandava l’eunuco imperiale Zheng He, musulmano, noto anche col suo nome d’infanzia di Sanbao (che significa letteralmente “tre tesori”). Ai suoi ordini c’erano 208 navi con 28mila uomini a bordo. Le navi più grandi erano lunghe 146 metri e larghe 60, ognuna poteva trasportare un migliaio di passeggeri e disponeva dei mezzi tecnici più avanzati dell’epoca. Un vascello di quelle dimensioni avrebbe potuto trasportare almeno tremila tonnellate, mentre nessuna delle navi di Vasco de Gama superava le trecento; e ancora nel 1588 nessuna nave mercantile inglese superava le quattrocento tonnellate. Le grandi “navi del tesoro” –quelle riservate ai comandanti e ai carichi più pregiati di merci per l’esportazione- avevano otto alberi, lussuosi saloni di rappresentanza, ponti coperti con eleganti balconate e ringhiere. Nei tesori caricati in stiva, scrive F. Rampini in un suo articolo su “Repubblica”, figuravano le porcellane Ming delle manifatture imperiali e tappezzerie di seta. Ogni nave militare possedeva 24 cannoni di bronzo in grado di sparare granate esplosive, armamenti che nessuno era in grado di eguagliare a quei tempi. Nessun paese europeo poteva competere con la Cina di allora per la qualità di quei nove alberi, delle carte nautiche e delle bussole di bordo. Oltre agli equipaggi e ai soldati la flotta di Zheng He trasportava un esercito di scienziati e interpreti, medici e metereologi, farmacisti e botanici. La spedizione del 1405 servì ad esplorare il mare del sud della Cina fino alle isole di Giava e dello Sri Lanka.
Per l’ammiraglio fu solo una prima prova. Nei ventotto anni seguenti l’Armada cinese salpò per ben otto volte diretta verso Occidente: dallo Yemen alla Persia, dalla Somalia alla Mecca, l’impero cinese allargò a dismisura le sue conoscenze e la sua influenza. La storiografia cinese di oggi insiste sul carattere pacifico delle imprese di Zheng He. Quei viaggi, si scrive, furono all’insegna della collaborazione tra il popolo cinese e i suoi vicini. La visione che stava dietro quell’impresa mastodontica era un mondo di scambi, più che un mondo di conflitti. “Non occupò mai un paese straniero, non vi costruì fortezze né derubò tesori”: si sottolinea, con un’allusione implicita al diverso comportamento dei conquistadores coloniali europei. I cinesi sapevano molte cose sull’Europa ma a causa del suo basso livello di sviluppo non ne erano attratti; non si spinsero fino alle rive del Mediterraneo perché sapevano di trovarvi solo lana, vino e poco altro che volessero comprare. In un’epoca in cui una parte dell’Europa doveva ancora uscire dall’arretratezza del Medioevo e le repubbliche marinare italiane erano troppo piccole per competere con lei, la Cina era l’unica superpotenza mondiale. Ma altri storici cinesi rivelano un altro dato: la vera motivazione del primo viaggio del 1405 è che la dinastia Ming stava per soccombere sotto l’assedio terrestre delle armate di Tamerlano, l’imperatore turco-mongolo che aveva conquistato gran parte dell’Asia. Minacciati dalle pericolose incursioni delle orde a cavallo di mongoli e tartari, i Ming furono costretti a una revisione strategica radicale. Spostarono la capitale da Nanchino a Pechino, città situata molto più a nord e senza sbocchi sul mare. L’ammiraglio sarebbe stato mandato per i mari alla disperata ricerca di alleati che soccorressero l’impero cinese ormai agli sgoccioli. La potenza navale non era più una priorità militare. Di colpo la difesa della Cina si giocava sulla terraferma.
Conclusione. Passeranno sessanta anni e nel 1492 Colombo scoprirà le Americhe. I fatti che si manifestarono da quell’anno avrebbero riunito civiltà mondiali fino ad allora separate, ridistribuito potere e ricchezza, riunificato i calendari, modificato la mappa delle religioni (col cristianesimo che riuscirà a colmare lo svantaggio rispetto all’Islam), cambiato l’economia. Nel XV secolo “quasi tutto il mondo viveva di agricoltura e di allevamento”, un secolo dopo la nuova economia mondializzata avrebbe preparato la rivoluzione industriale, poi esplosa nel ‘700. Lo scambio tra le culture avrebbe attenuato la presa delle superstizioni; la scoperta degli alisei avrebbe facilitato le rotte transoceaniche; queste modifiche avrebbero ribaltato le influenze tra i vari continenti. Dalla Cina erano arrivate la carta, la stampa, la polvere da sparo, le banconote. L’Europa era solo “una manciata di terre all’estremo più povero del continente euroasiatico”. Dopo il 1492 (Felipe Fernandez-Armesto, “1492”, Bruno Mondadori, pp. 291) l’Europa, unita alle nuove Americhe, sarebbe diventata l’Occidente, detentrice per alcuni secoli del potere mondiale. Questa mappa oggi sta per esaurirsi. La Cina è pronta a rinascere anche come potenza navale, cancellando secoli di umiliazioni e di subalternità nei confronti degli imperi marittimi, prima quello britannico, poi il giapponese e infine lo statunitense.
Per ultimo, consiglio la lettura di due saggi illuminanti che rivalutano il ruolo della geografia e della tecnologia, considerate un potente motore della storia. Di qualche anno fa è il libro di Jared Diamond, “Armi, acciaio e malattie”, Einaudi; di quest’anno è lo studio di Daniel R. Headrick, “Il predominio dell’Occidente”, il Mulino.
Gennaro Cucciniello