“La bbona famijja” di Giuseppe Gioacchino Belli. Un’ipotesi di lettura.
Presento questi testi senza notazioni sulla biografia, sull’ideologia e sulla poetica dell’autore, informazioni che sono facilmente rinvenibili in un buon manuale scolastico. Voglio soprattutto invitare alla lettura attenta dei testi e ad una paziente indagine sul linguaggio poetico. Ricordo, però, che un’interessante nota sulla ricerca della verità nella poetica belliana l’ho scritta alla fine del documento, “S. P. Q. R”. Una diatriba leghista risolta in poesia”, inserito nel Portale del mio sito, “De senectute”; come pure potrebbe essere utilmente consultato il documento, “Er ferraro. Un’ipotesi di lettura”, inserito nel Portale, “Letture testuali e con-testuali”. Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.
La bbona famijja 28 novembre 1831
Mi’ nonna a un’or de notte che vviè ttata
se leva da filà, ppovera vecchia,
attizza un carboncello, sciapparecchia,
e mmaggnamo du’ fronne d’inzalata. 4
Quarche vvorta se fàmo una frittata,
che ssi la metti ar lume sce se specchia
come fussi a ttraverzo d’un’orecchia:
quattro nosce, e la scena è tterminata. 8
Poi ner mentre ch’io, tata e Ccrementina
seguitamo un par d’ora de sgoccetto,
lei sparecchia e arissetta la cuscina. 11
E appena visto er fonno ar bucaletto,
‘na pissciatina, ‘na sarvereggina,
e, in zanta pasce, sce n’annàmo a lletto. 14
Metro: Sonetto. Le rime sono ABBA, ABBA, CDC, DCD.
Mia nonna, un’ora dopo l’Ave Maria (le 19 circa), quando torna a casa mio padre, finisce di filare, povera vecchia, riaccende un po’ di fuoco, ci apparecchia la tavola e tutti noi mangiamo due foglie d’insalata. Qualche volta ci facciamo una frittata, così sottile che, se la metti contro luce, questa ci si specchia, vi traspare, così come il lume si vede attraverso un’orecchia: quattro noci e la cena è terminata. Poi nel tempo che io, papà e Clementina continuiamo per un paio d’ore a bere di quando in quando un goccio di vino, lei sparecchia la tavola e riordina la cucina. Appena abbiamo visto il fondo del piccolo boccale, una pisciatina, una “Salve Regina” e, in santa pace, ce ne andiamo a letto.
“Tata” è una derivazione dall’antica parola sannitica (tatam) che significava “padre” ed è un residuo dell’influenza a Roma del dialetto napoletano, dominante fino al XIV secolo (ne è una prova la bellissima “Vita di Cola di Rienzo”). Nei paesi meridionali fino agli anni Cinquanta del secolo scorso erano ancora usati il diminutivo affettuoso “tatillu” e l’accrescitivo “tatonu” (nonno).
Le quartine. La scena rappresenta un interno familiare povero, molto povero, ma decoroso, quieto, le ore monotone, consuete. A parlare, a costruire la narrazione è probabilmente un ragazzo che, col distacco della rappresentazione oggettiva –anche se parla in prima persona-, descrive con grande semplicità l’umile interno della sua casa. Il poeta si è immedesimato nel ragazzo e ne descrive gli spazi con tenerezza, come se vi avesse passato anni e anni. La famiglia, orfana della madre, è costituita dal padre, che ha la fortuna di lavorare anche se con scarso guadagno, dal protagonista –forse adolescente-, dalla sorella Clementina e dalla nonna, vera architrave della casa, che lavora in proprio come filatrice e aiuta con i lavori domestici. La centralità della nonna, vero soggetto della prima strofa, anche al di là dei lavori (lei smette di filare, lei risveglia il focolare, lei mette in tavola), è rivelata dalla rima BB (vecchia-sciapparecchia) e dalle assonanze che vi si legano (se leva – ppovera vecchia, l’unico dato che svela commozione e partecipazione). L’introduzione è data dal tempo, un’ora dopo il tramonto, tempo segnato dal calendario sacro (l’Ave Maria) e poi la nostra attenzione è catturata dai piccoli movimenti spaziali, dalla sobria elencazione degli oggetti e dei rituali semplici ed essenziali che scandiscono una vita misera, rassegnata e tranquilla: il tutto si conclude con i quattro della famiglia alle prese con la povera cena. E’ lontanissimo il fasto dei monsignori e dei nobili romani; il diminutivo “carboncello” precisa la povertà di quel fuoco. E’ da rilevare, infine, il gioco progressivo degli elementi ai quali il Belli è affezionato: un carboncello, du’ fronne, e –alla fine- quattro nosce (confronta lo stesso schema nel sonetto “Er ferraro”: “mi’ moje, du’ sorelle, e quattro fiji”). Un’ultima notazione si può fare sulla rima A del quarto, quinto e ottavo verso (inzalata-frittata-tterminata) che in estrema sintesi condensa il parco pasto.
Le terzine. Continua la descrizione di questa realtà quotidiana, tessuta di cose, di oggetti, di esperienza comune, con un’area semantica omogenea ed unitaria. Il padre e i due figli restano a tavola a chiacchierare e a bevacchiare quel po’ di vino che si possono permettere; la nonna si dà da fare a rimettere ordine nella stanza. Non so se è significativo ma ancora una volta il lavoro della nonna richiede l’assonantizzazione in e-a, “sparecchia-arissetta”. L’ultima strofa, al di là dell’omogeneità contenutistica della rima D, “sgoccetto-bucaletto”, la povera felicità di un bicchiere (e del rimando in assonanza al povero “carboncello”), si fa forte della strepitosa rima interna del v. 13, quella “pisciatina-sarveregina” che con acume vertiginoso unisce la quotidiana preghiera serale (la familiarità del sacro) con l’altrettanto necessario bisogno fisico. (Negli “Appunti belliani” si riscontra una nota, la c 27 r, che compendia lo schema di questa movenza-chiave: “La sera, quer goccio, una pisciatina, una sarvereggina, e a letto”). La frequenza dei diminutivi e dei vezzeggiativi (carboncello, sgoccetto, bucaletto, pissciatina) confermano una vaga connotazione affettuosa, in linea con la simpatia umana che il poeta qui rivela per i suoi protagonisti. Il verso 13, infine, denota un’altra caratteristica: è formato da un quinario e un senario, con due parole insolitamente lunghe, un quadrisillabo e un pentasillabo, entrambe introdotte dalla ripetizione dell’articolo indeterminativo “’na”. In questo modo Belli quasi ci accompagna col ritmo del verso a guardare divertiti e un po’ sorpresi i nostri personaggi che lentamente svolgono le loro operazioni serali. Così, dopo aver accontentato le imprescindibili esigenze del corpo e dell’anima (atti così diversi uniti con semplicità, senza che stridano, senza alcuna irriverenza ), la nostra famigliola si prepara quietamente ad andare a dormire e noi lettori ci ritroviamo, intenti, a meditare. Ho l’impressione che Belli, trovatosi finalmente alla presenza del vero e non più del falso e del putrescente, sia riuscito a trovare i modi quieti (e in zanta pasce) e l’impassibilità affettuosa dell’autentico cronista. I tratti delicati usati però non servono ad illudere sulla desolante realtà di questo interno di casa popolare. La vita, anche qui, è una lunga attesa della notte.
Voglio mettere a confronto questo sonetto con due altri testi belliani, di analogo tema ma di maggiore drammaticità. Ecco il primo:
“La famija poverella”, 26 settembre 1835
Quiete, crature mie, stateve quiete:
sì, fiji, zitti, ché mommò viè ttata.
Oh Vergine der pianto addolorata,
provedeteme voi che lo potete. 4
No, viscere mie care, nun piaggnete:
nun me fate morì cusì accorata.
Lui quarche cosa l’averà abbuscata,
e ppijeremo er pane, e maggnerete. 8
Si capìssivo er bene che ve vojo!…
Che dichi, Peppe? Nun vòi stà a lo scuro?
Fijo, com’ho da fa ssi nun c’è ojo? 11
E ttu, Lalla, che hai? Povera Lalla
hai freddo? Ebbè, nun méttete lì ar muro:
viè in braccio a mamma tua che tt’ariscalla. 14
Creature mie, state tranquille: sì, figli miei, state zitti perché adesso arriva papà. Oh Madonna addolorata e piangente (venerata nella chiesa di Santa Maria del Pianto, nel Ghetto), aiutatemi voi che potete tutto. No, frutto delle mie viscere, non piangete; non mi fate morire di mal di cuore. Papà avrà rimediato qualche soldo, così compreremo il pane e voi mangerete. Se capiste tutto il bene che vi voglio! Peppe, che dici? Non vuoi stare al buio? Figlio mio, come ho da fare se non c’è olio in casa per accendere una lampada? E tu, Adelaide, che hai? Povera piccola, hai freddo? Non stare lì, lontana, vicino al muro: vieni in braccio alla tua mamma che ti riscalda.
Schema metrico: sonetto secondo lo schema ABBA, ABBA, CDC, EDE. Il sonetto piacque molto al Pascoli che lo accolse nella sua antologia “Fior da Fiore”. Fu uno dei primi atti di stima verso il Belli che aspetterà ancora tanti anni prima che la sua opera venga riconosciuta in tutta la sua eccezionale grandezza.
Le quartine. Parla in prima persona la protagonista assoluta della lirica, la mamma, e tutto il sonetto risuona del suo monologo, delle sue parole e del suo pianto straziato in un interno domestico fatto di disagio e di miseria. Già l’incipit è straordinario con quel “crature mie” e con la ripetizione nel verso 1 del “quiete, stateve quiete”. Il primo termine connota i piccoli come creazione del suo ventre, notazione che sarà ripresa e intensificata in climax al verso 5 con il “viscere mie care” (non è da trascurare, nella simbologia popolare, l’eco del “fructus ventris tui” della liturgia mariana); il secondo è un’implorazione, un invito a calmarsi, a non piangere, ripetuto –ancora nel verso 5- con il “nun piaggnete”. Sarà un caso ma è da sottolineare che tutte le parole che la madre rivolge ai figli per quietarli e alla Vergine Maria per essere aiutata, se possibile, assonantizzano e rimano in “e-e”: quiete-provedeteme-potete-viscere-piagnete-magnerete”, così da creare un campo semantico e musicale omogeneo. Anche la rima B è interessantissima: in prima battuta con la coppia “ttata-abbuscata”: questo padre è un disoccupato, a differenza del papà del sonetto precedente, e va a rimediare qualche lavoretto alla giornata, così da portare a casa quel po’ di roba che serva a sfamare almeno i piccoli; questa interpretazione è suffragata dal bellissimo verso 8, noi “ppijeremo er pane e” voi “magnerete”, con l’immaginazione dei genitori che assisterebbero affamati ma teneramente protettivi al poverissimo pasto dei loro figli; in seconda battuta dalla coppia “addolorata-accorata” nella quale l’identificazione della povera madre con la Maria addolorata della Passione, abbandonata ai piedi della croce di Gesù, è completa, fino al “nun me fate morì cusì”.
Le terzine. Continua il dialogo straziato della madre coi due figli e si articola in simmetria ordinata. Nella prima terzina, dopo l’introduzione patetica del “Si capìssivo er bene che ve vojo” rivolta ad entrambi, la mamma si rivolge al più piccolo che ha paura del buio, per confortarlo, ma la mancanza del combustibile rende irrimediabile quella difficoltà; alla femminuccia, che invece trema per il freddo, la mamma può invece offrire il calore del suo corpo. La divaricazione, così prosaica nella spiegazione dei contenuti, si costruisce poeticamente con un’intensità patetica bellissima: allo “scuro” della stanza, che tanto impaurisce il povero Peppe, si unisce, in rima C, il brivido freddo che dà il “muro” al quale si appoggia la piccola Lalla, lontana e accoccolata in se stessa. Ma questa volta la mamma può offrire il calore della sua carne e dare un senso compiuto anche alla creazione del poeta che nel verso 1 usa il possessivo “crature mie”, ripreso nel verso 5 con il “viscere mie” e chiuso nell’ultimo verso con “mamma tua”. Senza dimenticare i vocativi “fiji” (v. 2) e “fijo” (v. 11) che chissà perché mi fanno venire in mente le appassionate invocazioni di Jacopone da Todi.
E’ evidentissimo un dato: nei suoi versi tutti gli oppressi sono drammaticamente innalzati da un clima storico d’ingiustizia e di miseria; e il poeta rivela una partecipazione affettuosa nel ritrarre, come se si trovasse finalmente alla presenza del vero, e non più dinanzi al decrepito, allo squallido, al putrido.
Il terzo testo è del 6 gennaio 1832:
“La vedova co ssette fiji”
E’ un mese ch’er più ffijo piccinino
lo manno a scòla qui a l’Iggnorantelli
e già principia a ffà li bastoncelli
e a recità all’ammente l’abbichino. 4
Uno a Ttatagiuvanni fa l’ombrelli,
un antro a Sammicchele è scarpellino,
e ar più granne ch’è entrato all’Orfanelli
j’impareno li studi de latino. 8
Le tre ffemmine, Nina se n’annette,
Nannarella se l’è ppresa la nonna,
e Nunziatina sta a le Zoccolette. 11
E io strappo via, povera donna,
cor rimette le pezze a le carzette,
sin che nun me provede la Madonna. 14
Metro: sonetto. Le rime sono ABBA, BABA, CDC, DCD.
Da un mese io mando il mio figlio più piccolino alla scuola gratuita di S. Salvatore per l’istruzione elementare e già comincia a fare le aste con la penna e a recitare a memoria l’abbaco. Un altro figlio ha imparato a costruire ombrelli nell’ospizio fondato da padre Giovanni, un altro ancora nell’ospizio di San Michele fa lo scalpellino e il più grande, che è entrato nell’ospizio degli Orfanelli, studia il latino. Delle tre ragazze, Nina morì a suo tempo, Nannarella sta con la nonna e Nunziatina sta alle Zoccolette, un conservatorio di fanciulle povere. Quanto a me, povera donna, io tiro avanti rammendando calze. Poi ci penserà la Madonna.
Gennaro Cucciniello