Fatti dell’Ottocento romano: i suicidi non assistiti di un avvocato e di un prete, narrati poeticamente da G. G. Belli.
“L’avvocato Cola”. 8 novembre 1835. Ipotesi di lettura.
Ma eh? Cquer povero avocato Cola!
Da quarche ttempo ggià ss’era ridotto
che ssì e nnò aveva la camiscia sotto,
e jje toccava a ggastigà la gola.
Ma piuttosto che ddì cquela parola
de carità, piuttosto che ffà er fiotto,
se venné ttutto in zette mesi o otto,
for de l’onore e dd’una ssedia sola.
Mò uno scudo, mò un testone, mò un papetto,
se maggnò, ddisgrazziato!, a ppoc’ a ppoco
vestiario, biancheria, mobbili e lletto.
E ffinarmente poi, su cquella ssedia,
senza pane, senz’acqua e ssenza foco,
ce serrò ll’occhi e cce morì dd’inedia.
Eh? Quel povero avvocato Cola! Già da un bel po’ di tempo si era tanto impoverito che non aveva più abiti e doveva limitarsi nel mangiare, gli toccava quasi sempre digiunare. Ma piuttosto che chiedere la carità, piuttosto che andare lamentandosi, si vendette tutto quel che aveva in poco tempo, eccetto l’onore: restò solo con una sedia in casa. Ogni giorno se ne andava qualche moneta; a poco a poco vendette il vestiario, la biancheria, il mobilio, il letto. E alla fine si sedette su quella sedia, in silenzio, e –senza pane, senz’acqua e senza fuoco- ci chiuse gli occhi e vi si lasciò morire di fame.
Il poeta, nelle sue carte, annotò molto sobriamente: “Così fu trovato l’avvocato Carlo Cola dopo alcuni giorni dacché non erasi più veduto”. Questa morte suscitò a Roma un miscuglio di stupore, di pietà ma anche di ammirazione; il fatto è raccontato da Belli con nuda e insieme potente rappresentazione. Proviamo a interpretarne la trascrizione poetica.
Le quartine.
Entrambe le quartine iniziano con un “Ma”: il primo è in funzione dubitativa, come un sospiro di rassegnazione del poeta-cronista che davanti all’evidenza non sa se deve giudicare o solamente riferire quello di cui è testimone (forse cerca di sollecitare anche i lettori con quell’ Eh interrogativo); il secondo è avversativo, spacca in due l’avvocato Cola suicida: quello che era diventato e quello che non aveva e non avrebbe mai fatto anche a costo di perdere la vita. Nei primi due versi si nota un’allitterazione in “c”, a volte rafforzata dialettalmente dalla “q” (cquer, avocato, Cola, quarche) che, in un’interpretazione lata, ricorre anche nel suono della parola “carità”, essa stessa parola-chiave del testo. In fondo, se quell’uomo avesse ceduto “un poco” e avesse lasciato da parte il suo orgoglio personale, avrebbe potuto salvarsi dal suo irrimediabile destino di morte. Nel primo verso, ad un’interrogazione segue una constatazione denominativa ed esclamativa, constatazione della brutta sorte che è toccata ad un uomo che non era come tanti, non tanto per condannarlo per le sue scelte quanto, invece, per constatare e riflettere sulle conseguenze che provocano certe decisioni. Nel secondo e terzo verso si parla di quel poco che era rimasto al malcapitato avvocato, e vi troviamo il primo dei pochi enjambement che corredano il testo. Se il sonetto comincia col dire che quel poco che gli era rimasto era una camicia, nella seconda strofa (come nell’ultima) si sottolinea che l’unica cosa materiale che egli possieda ancora è una sedia, ma l’onore è salvo. Come si capisce dalle indicazioni temporali che scandiscono la narrazione (Da quarche tempo, v. 2; in zette mesi o otto, v.7) i problemi economici dell’avvocato si erano aggravati nel giro di alcuni mesi, ma la memoria dei testimoni imprime alla vicenda una vertiginosa rapidità, chiusa dalla lapidaria annotazione “se venné tutto” del v. 7.
La seconda quartina è un’antitesi complessiva: ci viene detto quello che Cola non fa (chiedere aiuto o lagnarsi), messo in risalto da quel “piuttosto” ripetuto per due volte, e quello invece che egli ritiene più giusto per lui: vendere tutto ma salvare l’onore. Questa antitesi tra i primi due versi e i secondi due aiuta ad esplicitare l’opposizione più grande e simbolica tra il “se venné tutto” (gli oggetti materiali) e l’onore (la virtù astratta). Una sedia sola e l’onore gli rimangono al sopraggiungere della morte. “Sola, aggettivo posposto al suo sostantivo “sedia”, sottolinea ancora di più la tristezza e la solitudine del signor Cola, unica sua consolazione che gli ricorda di non dover morire macchiato di vergogna. Morirà “su cquella ssedia” che lo sosterrà comunque al di sopra della propria miseria, senza umiliazioni da subire e con la coscienza a posto, con intransigenza borghese del tutto inusuale in quella Roma plebea e prelatizia.
Le terzine. Nella prima terzina c’è un anticlimax spezzato dall’esclamazione centrale della strofa. Quel “ddisgrazziato”, oltre ad avere un ruolo di pausa, assume –dal punto di vista del poeta narratore- un tono compassionevole: io non credo che egli biasimi l’avv. Cola, prova solo una naturale pietà per qualcuno che ha sacrificato tutti i suoi averi prima di giungere allo stadio di totale povertà, in una città che offriva tutti i giorni spettacoli indecenti di vizi e di sperperi. Il povero uomo ha venduto tutto: dai soldi ai beni di prima necessità mentre i vicini e i conoscenti, probabilmente, ne spiavano ogni grinza del quotidiano.
Nell’ultima strofa sopraggiunge la morte, e il “ffinarmente” sembra suonare quasi come un sospiro di sollievo, non sai se del poeta, che prova amarezza nel raccontare una così triste vicenda di vita reale, o se dello stesso protagonista che ha patito la sofferenza e l’incubo miserabile della fame: la morte non è che una liberazione. I versi sono spezzati da virgole continue per farci soffermare sulla cruda situazione di un uomo al momento della sua fine e dalle ripetizioni ternarie che ci assediano incalzanti. “Mò, mò, mò; senza, senza, senza”. Niente cibo, niente legna con cui riscaldarsi, neanche l’acqua; e, a contrasto, la presenza imperturbabile della sedia che –se non gli procura alcun ristoro dal punto di vista materiale- è sempre motivo della sua consolazione, è simbolo del suo onore. Mi impressiona, nel finale, quel “ce serrò”: è su quella sedia che egli ha voluto, terribilmente, chiudere gli occhi. E’ indiscutibilmente una scelta stilistica efficace: produce un effetto di asprezza, distacco, quasi meccanicità, messaggio accentuato dalla rima “sedia-inedia”.
Mi sembra di poter concludere che l’avv. Cola ha voluto fino alla fine, con eroismo, seguire un dettato razionale, per taluni forse conformista: in lui predomina la virtù e la fierezza per quello che egli ritiene più giusto per sé, e sacrifica quello che egli considera secondario: la vita biologica. E Belli sembra quasi voler riaffermare il significato morale del suicidio in una società che chiede all’individuo, schiacciato dalle feroci leggi economiche, di rinunciare alla dignità costringendolo a mendicare.
Sul tema di un altro suicidio, una morte abbandonata e solitaria di un sacerdote, voglio riportare, infine, un sonetto memorabile, scritto qualche anno prima:
Er ricordo 20 gennaio 1832
T’aricordi quer prete cajellone
c’annava pe le case a ffà le scòle,
cor una buttasù dde bborgonzone
e cqua ssur canterano du’ bbrasciole?
Che sse vedeva co le su’ stajole
a ‘ggni morto che ddassi er moccolone?
Che annava a ppranzo all’Osteria der Zole,
e nnun spenneva mai mezzo testone?
Bbè, l’hanno trovo jjeri a cquer rampino
che jj’arreggeva er Cristo accap’alletto,
impiccato pe un laccio ar collarino.
E vvà cche smania aveva a sto ggiuchetto,
ch’er giorn’avanti, per ricordo, inzino
ce s’era fatto er nodo ar fazzoletto.
Ti ricordi di quel prete vestito in modo goffo e trascurato, all’antica, che andava per le case a dare qualche lezione privata, con un abito largo di lana ruvida, e qua -sul torace magrissimo- due pezze (quelle che pendono dal collare ai preti francesi)? Che si vedeva con le sue gambe lunghe e sottili a ogni funerale e a cui si dava l’avanzo dei ceri? Che mangiava all’aperto, per la strada, e non spendeva mai niente? Bè, l’hanno trovato ieri impiccato, con un laccio al collo, a quel rampino che a capo del suo letto reggeva il Crocifisso. E vedi che smania aveva con questo gioco, che il giorno prima, per ricordarselo, s’era fatto persino un nodo al fazzoletto.
Mettendo da parte l’abilità compositiva di usare, nelle quartine, in alternanza rima e assonanza in “ole – one”, il che crea un ritmo cantabile da ballata popolare in chiaro contrasto con la materia drammatica del racconto, colpisce il ritratto di questo prete straniero che probabilmente era venuto a Roma, come tanti altri ecclesiastici d’oltralpe, a cercare un destino migliore, fatto di preghiera e anche di carriera, e che invece si era trovato a mendicare un’esistenza di rinunce e di umiliazioni. I primi otto versi introducono e descrivono l’antefatto. Nelle terzine la tragedia precipita: bruscamente, con un Bbè, Belli ci fa entrare nella stanza del povero sacerdote, ce ne fa quasi annusare l’aria, ci fa vedere il letto sfatto; con la rima “rampino – collarino” ci fa immaginare lo sventurato impiccato al gancio che reggeva il crocifisso, il suo crocifisso (con la delicatissima allusione al rampino che sosteneva per lui Gesù in croce (jj’areggeva) –povero prete suicida (il collarino)-, ce ne spiega la premeditazione con “er nodo ar fazzoletto”, inquadra il crocifisso che assiste alla scena, immobile e silenzioso, quasi attonito, “accap’alletto”, senza aver potuto, saputo o voluto (chissà?) proteggere il suo disgraziato figlio e fratello.
Con brusca esattezza George Steiner ci ha ricordato: “I grandi classici continuano a leggerci più di quanto noi li leggiamo”. E’ profondamente vero.
Gennaro Cucciniello