La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. Figure di donne. 2- “La figlia storpia”

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. “Figure di donne”. 2- “La figlia storpia”.

 

Le donne occupano quasi metà della vastissima opera di Belli: tipi, personaggi, caratteri pieni di una vivacità, di una umanità straordinarie (ne ho dato un esempio nell’analisi di “La bbona famijja” e “La famijja poverella”, inserita nel mio Sito, Portale “Letture testuali”). Si nota infatti che, mentre nei protagonisti maschili è più intensa la carica di amarezza e di ribellione, nei confronti delle donne tratteggiate nei Sonetti si evidenzia la fondamentale “pietà” del poeta, la sua partecipazione profonda e più struggente e la sua meditazione sull’uguale destino di oppressione, di prevaricazione, di ingiustizia che le  accomuna, quale che sia la loro classe di appartenenza. Esse, le donne, condividono con tutti i poveri fragilità e mali ma, in più, sono prevalentemente brutalizzate dalla loro rozza riduzione a “sesso”.

Ma qualcuno ha fatto notare che la figura della donna, anche della madre, è spesso villana, feroce, carica di violenza; il loro linguaggio è crudo, diretto. E’ vero. Ma da questo si può dedurre non solo lo sforzo della rappresentazione veritiera e priva di qualsiasi velo ipocrita da parte del poeta, ma anche e soprattutto l’intuito che lo spinge a cogliere nella sfrenatezza e nell’eccesso della parola la fondamentale debolezza della condizione femminile, l’impossibilità delle donne di adoperare una vera forza e, dunque, lo stravolgimento violento di chi si sa vinto e conosce, nell’inutilità brutale del proprio linguaggio, una ribellione senza speranza. Questo spiega anche, secondo me, l’ossessiva presenza del sesso che caratterizza questi personaggi femminili. Gli attributi sessuali, in un linguaggio duro concreto senza eufemismi, testimoniano di questa unica identità della donna, identità consapevole fino alla brutalizzazione di sé. Dai sonetti (“La puttana abbruciata, Li fiori de Nina”) in cui inutilmente le donne lamentano che la colpa del “contagio, del mal francese” ricada sempre su di loro a tutta una serie di prostitute che testimoniano con la loro affollata presenza in città “er primo gusto der monno”, la rozzezza del desiderio maschile (favorito a Roma da un governo che sa di dover compiacere a frotte di pellegrini e a migliaia di prelati sfaccendati e danarosi), fino al commovente ingenuo tentativo delle prostitute di salvarsi, di ritrovare una loro dignità, nella capacità di rispettare una regola, interrompendo il mestiere per “annà a le quarantora”, o tenendo fede al voto fatto “a la Madonna de l’Archetto”, o perfino concedendosi gratis in suffragio di quell’anime sante e benedette.

Una pietas, quella di Belli, nei confronti delle donne, che si intravede infine, attraverso la condizione degradata delle loro persone a solo oggetto del desiderio sessuale maschile, nell’orrore con cui viene descritta la loro vecchiaia: “Viè a vedé le bellezze de mi’ nonna./ Ha du’ parmi de pelle sott’ar gozzo:/ è sbrozzolosa come un maritozzo;/ e trìttica più peggio d’una fronna…/ Bracc’ e gamme so’ stecche de ventajo;/ la voce pare un son de raganella;/ le zinne, borse da colacce er quajo./ Be’, mi’ nonna da giovane era bella…”.  Qualcuno ha suggerito che la poesia scritta dalle donne nel tempo nostro “parla veloce”. Io preferisco ricordare un verso di Sandro Penna: “Non c’è più quella grazia fulminante / ma il soffio di qualcosa che verrà”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

 

“La fija stroppia”                                  29 dicembre 1844

 

Ce sarvò ppe miracolo la pelle,

povera fija! Ma arimase zoppa;

e adesso me sta lì com’una pioppa,

o sse stracina un po’ co le stampelle.                                               4

 

Er vento a noi nun ce va ssempre in poppa

come va a le siggnore. Sibbè a quelle

le gamme je diventeno ciammelle,

cianno bona carrozza che galoppa.                                     8

 

Una siggnora, in qualunque disgrazzia,

co li quadrini presto se la sbriga,

ché sibbè nun lavora è ssempre sazzia.                              11

 

Ma a noi povera gente che ce resta

si la man der Ziggnore ce gastiga?

De striggne l’occhi e d’inchinà la testa.                               14

 

Questa povera figlia mia salvò per miracolo la sua vita in quel brutto incidente. Ma rimase zoppa. E adesso sta lì davanti a me immobile (“sta come un pioppo”, dice il proverbio) oppure si trascina un poco con le stampelle. A noi gente povera il vento non spira sempre in poppa (altro proverbio) come invece accade per le signore. Anche se a quelle le gambe diventano storte come ciambelle, hanno sempre una buona carrozza che galoppa per loro. Una signora, in qualunque tipo di disgrazia che le capiti, coi soldi presto se la cava, perché –sebbene non lavori- non ha mai fame. Ma a noi povera gente cosa ci resta se la mano di Dio ci castiga? Dobbiamo solo stringere gli occhi e chinare il capo.

Metro. Sonetto. Le rime sono ABAB, BAAB, CDC, EDE.

Le quartine. La prima strofa serve da introduzione: ci presenta subito la povera ragazza storpia, il grave incidente, la vita salva, l’irrimediabile handicap. E poi, immagine potente, l’inquadratura blocca l’infelice in un angolo della stanza e poi la insegue in una penosa andatura. La rima in B (zoppa-pioppa) è efficacissima nel definire la posizione dell’infelice; la rima in A (pelle-stampelle) fotografa il rischio della vita e le conseguenze dell’accaduto. Nell’inferno romano la miseria e il dolore serrano gli esseri umani nella loro solitudine disperata. La ragazzina è immobile, vulnerabile e necessariamente dipendente dalla famiglia. Belli è restato lì con gli occhi fissi a illuminare la miseria pura e dolente delle cose, la malinconia di un fiore appassito. Con la seconda strofa si cambia registro. La mamma, nei primi versi, ha descritto con asciuttezza stringata la disgrazia della figlia, abituata dalla dimestichezza col dolore e la malattia; ora riflette, il suo pensiero si allarga ad una valutazione sociale, riflette sul peso del denaro, sulla sua potenza inarrivabile. Con semplicità la popolana ( e con essa l’autore, naturalmente) si trovano sulla stessa lunghezza d’onda di una celebre analisi di Marx sul denaro, “potere espropriato dell’umanità”, essenza dell’alienazione, scritta sorprendentemente quasi negli stessi mesi (nei “Manoscritti economico-filosofici del 1844”, Roma, Editori Riuniti, 1976, III, pp. 250-1): “Le proprietà del denaro sono proprietà e forze essenziali mie. Ciò che io sono e posso non è affatto determinato dalla  mia individualità. Io sono brutto ma posso comprarmi le più belle donne. Dunque non sono brutto, perché l’effetto della bruttezza, il suo potere scoraggiante, è annullato dal denaro. Io sono, come individuo, storpio ma il denaro mi dà 24 gambe: non sono dunque storpio. Io sono un uomo malvagio, infame, senza coscienza, senza ingegno, ma il denaro è onorato, dunque lo è anche il suo possessore. Il denaro è il più grande dei beni, dunque il suo possessore è buono; il denaro mi dispensa dalla pena di esser disonesto, io sono, dunque, presunto onesto; io sono senza spirito, ma il denaro è lo spirito reale di ogni cosa (…) Se io desidero un cibo o voglio servirmi della diligenza, perché non sono abbastanza in forze da far la strada a piedi, il denaro mi procura così il cibo e la diligenza, cioè trasforma i miei desideri-rappresentazioni, traduce la loro esistenza pensata nella loro esistenza sensibile, reale, la rappresentazione in vita (…) Questa forza sovvertitrice tramuta la fedeltà in infedeltà, l’amore in odio, l’odio in amore, la virtù in vizio, il vizio in virtù, lo schiavo in padrone, il padrone in schiavo, l’idiozia in intelligenza, l’intelligenza in idiozia. Chi può comprar la bravura è valoroso, anche se è vile. Ma se tu supponi l’uomo come uomo e il suo rapporto col mondo come rapporto umano, tu puoi scambiare amore solo contro amore, fiducia solo contro fiducia. Se vuoi godere dell’arte, devi essere un uomo colto in fatto di arte; se vuoi esercitare un’influenza su altri uomini, devi essere realmente un uomo che influisce sugli altri stimolandoli e sollecitandoli. Quando tu ami senza provocare amore, cioè quando il tuo amore non produce amore reciproco, e attraverso la tua manifestazione di vita, di uomo che ama, non fai di te stesso un uomo amato, il tuo amore è impotente, il tuo amore è una sventura”.

Le signore romane, colle gamme a ciammelle, hanno la bona carrozza che galoppa, col vento in poppa. E l’allitterazione raddoppiata in “m” (gamme-ciammelle) e l’assonanza insistita in “o-a” (cianno bona-carrozza), in aggiunta alla rima (poppa-galoppa) e ai due enjambement (vv. 5-6 e 6-7) danno proprio l’impressione viva di un movimento frenetico (vedi le tante consonanti doppie), in contrasto stridente col penoso strascicarsi dell’infelice ragazza. La crudele disuguaglianza degli esseri umani di fronte alle sventure: esse hanno ben altro peso quando colpiscono un povero disgraziato.

Le terzine. La puntutissima analisi di Marx, che combacia alla lettera con la consapevolezza popolare, cementata e stratificatasi nei secoli e trasmigrata -alla fine- nella saggia cultura dei proverbi, è rafforzata dalla prima terzina che, nei versi 9 e 10, ribadisce che i ricchi escono vincitori da qualunque situazione di crisi: le rime “disgrazzia-sazzia” e “se la sbriga-ce gastiga” inequivocabilmente ce lo confermano. E quell’inciso, “sibbé nun lavora” aggiunge una nota di amaro disincanto. L’ultima terzina, come spesso si ritrova nei testi belliani, commenta con spenta rassegnazione l’accettazione del triste destino della povera gente, destino confermato quasi dalla volontà divina (si la man der Ziggnore ce gastiga), e martellato –alla fine- dalla rima “che ce resta-d’inchinà la testa” che chiude il cerchio inesorabilmente. Mi sembra che la mamma cerchi una risposta blindando in una  fede rassegnata la propria fragilità: è un modo per affrontare le signore nemiche della buona società romana. Senza armi che non siano quelle scaturite dai suoi pensieri e dal suo dolore, in difesa di quella povera figlia storpia, senza arrivare a scontrarsi con i grandi problemi della fede (la sola ancora di salvezza per questa popolana romana): la vita vale il male che dà? E’ giusto mettere al mondo e far vivere degli innocenti che poi non possiamo difendere dal dolore? Dio ascolta le nostre preghiere?

Il poeta riesce a comunicare a tutti noi un intero universo di emozioni, di ricordi, di esperienze vicine o lontane, di contraddizioni, di cose dette e taciute, di lacrime e di risate, di comico e tragico, con (apparente) semplicità e immediatezza, in versi stringatissimi. Lo vediamo in questo sonetto: anche le storie più povere e banali contengono uno spunto geniale, un’idea inquietante, un risvolto sorprendente che induce a riflettere. Belli racconta ciò che vede ma questo non gli basta, vuole vivisezionare il suo presente e raccontarcelo. E’ testimone comprimario, osservatore vigile, sempre in ascolto; questi suoi personaggi sono destinati a restare nella memoria dei lettori anche quando la storia avrà inesorabilmente cancellato i pallidi burattini della cronaca.

                                                                       Gennaro   Cucciniello