Belli. “Immagine e ruolo del Papa”. 1- “Er mortorio de Leone Duodecimosiconno”

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. “Immagine e ruolo del Papa”. 1- “Er mortorio de Leone Duodecimosiconno”

 

Roma è la città del Papa, del Vice-Dio. Scrivono i critici, sulla scia del nostro poeta, “che Dio stesso non si può concepire che come un tiranno allegramente feroce, che crea gli uomini per dopo prendersi gioco di loro, e che ride a crepapelle se vogliono dare la scalata al Cielo, e che si diverte a tormentare inutilmente gli uomini, così come fece inutilmente morire sulla croce il Figlio”. La crocifissione di Gesù non ha redento il genere umano, spaccato in due dall’abisso delle differenti e incolmabili condizioni sociali. La Città del Papa, col caravanserraglio delle confessioni, delle indulgenze e dei giubilei e con la moltiplicazione dei santi, ha solo reso inutile il Diavolo. La Città del Papa è nata sulla città di Romolo e Remo, dell’odio fratricida. Resta la capitale di un “mondaccio” su cui grava il peccato di Caino, che ha protestato invano contro i privilegi di Abele, il preferito da Dio e l’ultra-raccomandato. Nella Città del Papa la disuguaglianza non è solo nelle ricchezze o nella possibilità di alimentarsi; si è disuguali anche di fronte alla religione, il peccato dei poveri vale poco nel mercato delle indulgenze. E se mai si può pensare di uscire da questa città e da questo mondo, si troverebbe moltiplicata all’infinito la nostra storia sacra e profana. E se gli altri mondi fossero mai abitati, il Papa penserebbe ad estendervi il suo dominio, ad allargare i confini del suo potere”.

Belli ha voluto rappresentare il Papa vedendolo da tutti i lati. E quando lo colloca più su della cronaca spicciola, quando lo vede nella situazione fantastica fondamentale del suo dramma, allora il personaggio assurge all’altezza non solo della commedia ma della tragedia romana. La teocrazia come tirannide senile.

E’ chiaro alla coscienza del nostro poeta che l’inattuabilità del progresso a Roma è dovuta all’onnipotenza del papa, il proconsole di Dio. E in tanti modi sono spiegati i simboli e le forme di questo immenso potere vòlto all’oppressione dell’uomo. Il sostantivo “papa” è in assoluto la parola più citata nei sonetti belliani, a rimarcare l’ossessiva presenza del Vicario di Cristo. Nella sua doppia natura di capo spirituale e politico, o –se si vuole- di capo politico in quanto spirituale, egli dovrebbe essere l’uomo più impegnato e sollecito a risolvere il problema della divisione in classi e dell’ingiustizia: invece è sempre uguale a se stesso, eterno e immutabile, chiuso nel suo sovrano disinteresse per l’umanità dolente, teso solo a realizzare il suo sogno di potenza. In margine al sonetto, “Cosa fa er papa?”, Belli scrive una nota che dovrebbe far accettare la scoperta eterodossia dei suoi versi all’eventuale opinione pubblica: “Se fosse vero quello che qui asserisce il nostro romano, potrebbe San Pietro ripetere quanto già disse di Bonifacio: “Quegli che usurpa in terra il luogo mio,/ Il luogo mio, il luogo mio che vaca / Nella presenza del Figliuol di Dio”, stendendo una cortina fumogena e nascondendosi dietro il severo giudizio di Dante.

A un sovrano di questo tipo quali sudditi possono corrispondere? Se lo scandalo irrimediabile è nella testa del corpo sociale, come meravigliarsi se poi nel popolo trionfano l’indolenza e l’apatia? Il papa proiettandosi nell’aldilà dà al Belli l’idea di Dio, il popolano romano proiettandosi nella storia diventa Caino, l’infelicità umana proiettandosi nell’eternità diventa l’ossessione dell’inferno. Non sarà una casualità inspiegabile ma lo Stato del Papa vedrà nascere nei suoi confini, nello stesso decennio, Belli e Leopardi, rappresentanti importantissimi, anche se diversi tra loro, del pessimismo di estrazione post-illuministica del XIX° secolo.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

Er mortorio de Leone Duodecimosiconno                 26 novembre 1831

 

Jerzera er Papa morto c’è ppassato

propi’ avanti, ar cantone de Pasquino.

Tritticanno la testa sur cuscino

pareva un angeletto appennicato.                                                   4

 

Vienivano le tromme cor zordino,

poi li tammurri a tammurro scordato:

poi le mule cor letto a bardacchino

e le chiave e ‘r trerregno der papato.                                                         8

 

Preti, frati, cannoni de strapazzo,

palafreggneri co le torce accese,

eppoi ste guardie nobbile der cazzo.                                                          11

 

Cominciorno a intoccà ttutte le chiese

appena uscito er morto da Palazzo.

Che gran belle funzione a sto paese!                                               14

 

Il funerale di papa Leone XII

In questo sonetto c’è una probabile confusione tra il funerale di Leone XII e quello di Pio VIII (l’aveva già notato il Morandi). Infatti Leone XII era morto il 10 febbraio 1829 in Vaticano e perciò il suo corpo fu esposto a S. Pietro su un grande tumulo, innalzato dal Valadier, senza essere trasportato per le vie di Roma. Pio VIII invece morì nel Quirinale il 30 novembre 1830 e il suo corpo, dopo essere stato esposto nella cappella Paolina di quel palazzo, fu trasferito nella cappella Sistina in Vaticano e poi in S. Pietro. Il Belli doveva aver visto il cadavere di Leone XII a S. Pietro o nel trasporto dal palazzo alla basilica, dato che il verso 4 del sonetto non può che riferirsi al volto magro di Leone (Pio VIII era assai grasso). Il ricordo si fuse (volutamente?) con quello del trasporto di Pio.

Ieri sera il papa morto c’è passato proprio davanti, all’angolo dove c’è la statua del Pasquino (all’inizio della via del Governo Vecchio, accanto a palazzo Braschi). La testa gli tremava sul cuscino (per lo sballottamento) e sembrava un angioletto leggermente addormentato. Seguivano poi le trombe con la sordina, e poi i tamburi a tamburo scordato: poi i muli col letto a baldacchino e le chiavi e il triregno, simboli del papato. Uno stuolo di preti, di frati, cannoni da strapazzo (cioè inutili), palafrenieri con le torce accese, e poi queste guardie nobili… Cominciarono a rintoccare le campane di tutte le chiese di Roma non appena la salma fu uscita dal Quirinale. Che belle funzioni ci sono in questo paese!

 

Le quartine. Il narratore popolano sta in un angolo, proprio vicino a piazza Navona. Si è sistemato lì per godersi lo spettacolo solenne e fastoso del trasporto della salma papale. E’ in compagnia di amici, in prima fila; lo si capisce da quel “c’è ppassato propi’ avanti, ar cantone de Pasquino” dei primi due versi. E’ un osservatore curioso e attento, combattuto fra lo scetticismo e la meraviglia, non malevolo: la testa del papa trittica sul cuscino ma quel tremolìo non è segno di terrore per un giudizio divino di condanna. No, il papa sembra un piccolo angelo appena addormentato in serenità. E mi piace immaginare che la rima in A (ppassato / appennicato) sia stata volutamente pensata per sottolineare un legame dolce tra il sonno e la morte.

Nella seconda strofa lo sguardo si sposta dal catafalco funebre al solenne accompagnamento processionale, sontuoso e spettacolare. C’è compiacimento nella descrizione attenta ma anche una sottile nota irridente. Nei vv. 5-6 il dettaglio è riferito agli strumenti musicali: le trombe sono bloccate, i tamburi hanno perso l’accordatura. Di seguito sfilano i simboli del potere pontificio. E ancora la rima in A (tammurro scordato / trerregno der papato) non sembra costruita solo per un accordo fonico. Il ritmo lento del corteo funebre, col susseguirsi interminabile dei figuranti, è scandito all’inizio di tutti e quattro i versi di questa strofa in modo mirabile: si comincia col Vienivano che introduce l’elenco, l’anafora del Poi prosegue la descrizione, conclusa con la congiunzione “e” dell’ottavo verso, ripetuta infine nel mezzo, per unire “chiave e triregno”.

Le terzine. L’elenco continua ma il tono s’intorbida. La sfilata dei membri del clero (preti, frati) è intrecciata all’esibizione delle inutili armi dell’esercito pontificio (cannoni de strapazzo); il corredo dei serventi da parata –che illuminano con le torce l’interminabile processione- apre la strada, ancora con la ripetizione dell’”eppoi”, alla nota insolente che si abbatte sulle guardie nobiliari (strapazzo / cazzo). La terzina finale svela una chiusa memorabile del sonetto. E’ una nota tutta musicale: le campane di tutte le chiese di Roma, al partire del corteo funebre dal palazzo del Quirinale, avevano cominciato a suonare a morto. E questo accompagnamento sonoro, monotono e triste, provoca nel nostro cronista un meravigliato compiacimento: “che gran belle funzione a sto paese”. E la rima in D (ttutte le chiese/ a sto paese) compendia succosamente lo spettacolo. “Sei una piccola anima che porta in giro un cadavere”, ammoniva l’uomo il filosofo stoico Epitteto nel I secolo dopo Cristo. Forse per esprimere sufficienza verso il corpo miserabile, destinato alla polvere. Oppure per sottolineare la fragilità dell’anima davanti a un compito impossibile.

Il grande scrittore danese Hans Cristian Andersen il 28 dicembre 1833, turista appassionato a Roma, assisterà davanti alla sua finestra a un funerale nel quale le figurette umane sfilano in corteo a due a due, la croce in processione, la bara sollevata da minuscoli prelati e della scena schizzerà un disegno prezioso e rivelatore nel suo taccuino (edito proprio in questi giorni).

Dal canto suo due giorni dopo, il 28 novembre 1831, Belli continuerà a raccontare:

 

Le ssequie de Leone Duodecimoseconno a San Pietro

 

Prima, a Palazzo, tanti frati neri

la notte e ‘r giorno a barbottà orazzione!

Pe Roma, quer mortorio buggiarone!

Qua, tante torce e ttanti cannejeri!                                     4

 

Messe su, messe giù, benedizione,

bòtti, diasiille, prediche, incensieri,

sonetti ar catafarco, arme, braghieri,

e sempre cardinali in pricissione!                                         8

 

Come si er Papa, che quaggiù è Vicario

de Crist’in terra, possi fa ppeccati,

e annà a l’inferno lui quant’un zicario!                               11

 

Li Papi so ttre vorte acconzagrati:

e ssi Cristo ciannò, ciannò ppe svario

a ffà addannà li poveri dannati.                                            14

 

Prima, nel palazzo del Quirinale, tanti frati col saio nero a borbottare orazioni di notte e di giorno! Per le vie di Roma, hanno sfoggiato quel grande corteo funebre! Qua, in basilica, tante torce e candelieri a fare una grande illuminazione. Poi un diluvio di messe, di benedizioni, rintocchi di campane, intonazioni di Dies irae, panegirici di elogio per il morto, turiboli che spargono incenso, iscrizioni sul catafalco, armi, cinturoni affastellati, e sempre cardinali in processione (è la celebrazione dei Novendiali, i nove giorni consecutivi di cerimonie funebri, di rito alla morte di un papa). Come se il Papa, che in terra è Vicario di Cristo, possa commettere dei peccati e andare all’inferno come un qualsiasi sicario (l’allusione è terribilmente ironica: Leone, infatti, era stato un papa violentemente reazionario, antisemita, un “padronaccio” dirà il nostro poeta in un sonetto del 2 ottobre 1831, “Li cancelletti”). I papi sono consacrati tre volte: e se Cristo, dopo la Resurrezione, andò all’inferno (la discesa agli inferi è ricordata anche nel Credo) ci andò per il solo gusto di far dannare i poveri dannati!

I due versi finali, terribili per un cattolico, richiamano la chiusa di un altro sonetto formidabile, la “Creazione der monno” del 4 ottobre 1831:

Ma appena che a mmagnà l’ebbe viduti,

strillò per dio con quanta voce aveva:

“Ommini da vienì, sete futtuti”.

Ma lì a maledire gli esseri umani venturi era il Dio biblico, giudice inflessibile. Qui, a prendersi gioco dei dannati è il Gesù d’amore del Nuovo Testamento. Quale abisso aprono questi versi! O è solo un ghiribizzo per una chiusa qualsiasi?

Gennaro  Cucciniello