La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. “La prospettiva plebea della storia. 1- “Er giorno der giudizzio”
“Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i suoi concetti, l’indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizii, le superstizioni, tuttociò insomma che la riguarda, ritiene una impronta che assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo. Né Roma è tale, che la plebe di lei non faccia parte di un gran tutto, di una città cioè di sempre solenne ricordanza (…) Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo; e questo io ricopio, non per proporre un modello ma sì per dare una immagine fedele di cosa già esistente e, più, abbandonata senza miglioramento”.
Quando Belli scrisse queste pagine introduttive aveva composto già 300 sonetti circa, sugli oltre duemila dell’intera sua produzione, custoditi segretamente, e aveva chiarito a se stesso il disegno, unitario ed organico, che era sotteso al suo “Commedione romano”. Egli aveva individuato con grande precisione alcuni tra gli elementi più tipici della situazione storica e ideologica della Roma papalina: l’assenza quasi totale di ogni forma di coesione sociale, anche di un punto di vista linguistico (di qui l’inesistenza di un dialetto cittadino e di una tradizione vernacola scritta) che potesse essere per lui un punto di riferimento, come invece era accaduto per Carlo Porta a Milano.
A Roma il governo dei papi aveva costretto gli intellettuali a tornare all’Arcadia e alle Accademie e faceva della città una sorta di culla delle dottrine morte: non a caso Leopardi, in una lettera da Roma al fratello Carlo del 16 dicembre 1822, aveva scritto: “qui l’Antiquaria è messa da tutti in cima al sapere umano, e considerata costantemente e universalmente come l’unico vero studio dell’uomo”.
Belli , nell’Introduzione, aveva annotato: “Voglio dare un’immagine fedele di cosa abbandonata senza miglioramento”. Roma era in una situazione senza alcuna prospettiva di sviluppo né politico né economico. Belli, scrive Asor Rosa, “porta così il popolo romano alla ribalta vera della storia: proprio perché non lo mitizza, non lo esalta, proprio perché non ne fa il figlio prediletto né della rivoluzione democratica (Mazzini) né della Provvidenza divina (Manzoni), riesce a darci –insieme al Porta- una visione della realtà in cui il popolo non è subalterno ma vive la sua vita in autonomia, è protagonista della storia. Ma quale storia poteva vivere il popolo? Se la storia è romanticamente progresso, incivilimento, perfettibilità, cultura, la storia del popolo non è storia: essa esprime infatti una immobilità senza speranza, una sofferenza diventata abitudine, una passività indifferente, un’oppressione accettata, una protesta destinata a restare sfogo, bestemmia, parolaccia. Questo popolo ci dice che la storia non si muove, è ferma. Nessuna speranza sopravvive”. Da quel suo fondo di istinto plebeo che tante volte esplode nell’insulto, nel sarcasmo, nella volgarità, sberleffo e volontà velleitaria di rottura delle norme di una società organizzata, nasce anche lo svuotamento delle funzioni delle sfere ufficiali e anche dei riti religiosi, ridotti tante volte a un ritmo di balletto, a una sorta di opera buffa, a un tragico presentimento di morte. Annota acutamente il Salinari: “Il suo è un qualunquismo della volontà che accompagna sempre il ribellismo dell’immaginazione”.
In una lettera del Belli a Francesco Spada dell’8 settembre 1838 il poeta definisce la sua città “una Romaccia, una galera”, la negazione vivente della possibilità stessa di esistere, o perlomeno la proiezione di una realtà talmente desolata in cui la vita si costruisse solo nei limiti di una elementare dimensione biologica. E in un’altra sua lettera al principe Placido Gabrielli del 15 gennaio 1861 egli scriveva che “nella mia commedia è il popolo ad essere introdotto a parlare di sé nella sua nuda, gretta ed anche sconcia favella, dipingendo così egli stesso i suoi proprii usi, i suoi costumi, le sue storte opinioni, e insieme con tutto ciò i suoi originali pensieri intorno ai più elevati ordini di questo social corpo di cui esso occupa il fondo”.
Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.
Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.
“Er giorno der Giudizzio” 25 novembre 1831
Cuattro angioloni co le tromme in bocca
se metteranno uno pe ccantone
a ssonà: poi co ttanto de voscione
cominceranno a ddì: “Ffora a cchi ttocca”. 4
Allora vierà ssù una filastrocca
de schertri da la terra a ppecorone,
pe rripijjà ffigura de perzone,
come purcini attorno de la bbiocca. 8
E sta bbiocca sarà Ddio benedetto,
che ne farà du’ parte, bbianca e nnera:
una pe annà in cantina, una sur tetto. 11
All’urtimo usscirà ‘na sonajjera
d’angioli, e, ccome si ss’annassi a lletto,
smorzeranno li lumi, e bbona sera. 14
Quattro grandi angeli con le trombe in bocca si metteranno, uno per ciascuno dei quattro angoli dell’universo (secondo l’immagine dell’Apocalisse di Giovanni, VII, 1: “Dopo ciò, vidi quattro angeli che stavano ai quattro angoli della terra”), a suonare: dopo, con un gran vocione (è un’altra eco dell’Apocalisse, VII, 2: “Et clamavit voce magna, E gridò a gran voce”) cominceranno a dire: “sotto a chi tocca”. A quel punto verrà su dal terreno una lunga fila di scheletri camminando a quattro zampe, come un gregge di pecore (mansueti perché spaventati), per riprendere le sembianze umane (si allude alla resurrezione della carne), come pulcini intorno alla chioccia (l’immagine è derivata dal Vangelo di Matteo, XXIII, 37). E questa chioccia sarà Dio benedetto, che dividerà le anime in due parti, una bianca e una nera, una da mandare in cantina, all’inferno, e una sul tetto, in paradiso. Alla fine comparirà una frotta chiassosa e tumultuante di angeli che, come se si stesse andando a letto, spegneranno le luci, e buona notte a tutti.
Metro. Sonetto (ABBA-ABBA-CDC-DCD).
Le quartine. E’ ancora una fantasia del dopo morte e del dopo funerale: molti critici sottolineano la presenza di un legame diretto tra l’incombere insistente della morte nella poesia del Belli e la realtà della Roma papalina, tanto decrepita e immobile da ispirare in continuazione un senso di morte. Qui, nel giorno del giudizio universale, nel giorno della conclusione della storia e dell’avvento definitivo del regno di Dio, il poeta coniuga in modo nuovo due livelli linguistici e tematici di solito incomunicanti. La profezia biblica è tutta tradotta in immagini popolari in modo grandioso e quasi festoso: gli angeli con le trombe provengono dall’arte barocca delle chiese di Roma e anche dei tabernacoli sui cantoni dei palazzi–vista con gli occhi del plebeo incantato e intimorito-, gli scheletri che escono “a pecorone” dalla terra terremotata dalla fine del mondo sono un’eco delle prediche e delle letture delle sacre scritture dei parroci e dei frati (Vigolo nota che qui c’è la dismisura gigantesca e quasi sognata delle fantasie infantili). Il “ffora a cchi ttocca” del v. 4, infatti, era voce diffusissima di un gioco tra bambini. Belli fonde così in un’unica rappresentazione molte tessere desunte dal linguaggio scritturale e dalla rappresentazione canonica (anche nell’iconografia figurativa) del Giudizio Universale –proposti dalla Chiesa cattolica- e le analogie, le metafore, con cui il popolo incredulo o scettico si rappresentava la fine della storia umana: un barocco cosmico fuso col chiacchiericcio quotidiano arguto e scanzonato, filtrato da una mentalità cinica e spicciativa. Appartengono alla prima tipologia (pur con la deformazione determinata dall’uso del dialetto) il ritratto ampolloso e sonoro della prima strofa, accentuato da “angioloni, cantone, voscione” (con la rima che accentua la grandiosità dello stupefacente spettacolo), cui si oppone in antitesi la fila umile e indistinta delle anime, o meglio degli schertri, che solo allora riprenderanno la consistenza dei loro corpi, e il paragone tra Dio e la chioccia, che appartiene ai Vangeli (“Gerusalemme, Gerusalemme (è Cristo che parla), quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali”, Matteo, 23, 37), che rimarca la banalizzazione e l’abbassamento di tono. E’ interessante, nel racconto, anche l’andamento sinestetico della rappresentazione: la visività degli angioloni (eco delle grandi statue berniniane ai lati degli altari) intrecciata alla forza sonora delle trombe e all’energia drammatica del voscione che intima la sentenza. Nella prima quartina, infine, è significativo l’uso insistito dell’enjambement, inusuale nel nostro poeta, tra i vv. 1 e 2 (tromme in bocca / se metteranno), 2 e 3 (pe ccantone / a ssonà), 3 e 4 (de voscione / cominceranno), un ritrovato che anima la surreale e grottesca rappresentazione. E che sarà ripetuto tra i vv. 5 e 6 (filastrocca / de schertri) e 12-13 (‘na sonajjera / d’angioli).
Le terzine. Lo scontro fra il linguaggio religioso e quello spiccio e realistico del volgo emerge al v. 11, dove l’esito di quel grandioso evento che sarà il giudizio universale si conclude con una divisione tra destinati alla cantina e destinati al tetto; e ancora più chiaramente al v. 14, in cui l’immagine quotidiana rivela la profonda irreligiosità della voce parlante (che esprime così la propria scettica incomprensione dei misteri della Scrittura sacra), ma anche la sostanziale tragicità del destino dell’umanità, in attesa di essere definitivamente congedata con totale noncuranza. Quello che più colpisce non è la scenografica grottesca descrizione dell’evento quanto, invece, l’enigmaticità allusiva della conclusione, dove sotto lo spirito sbrigativo del plebeo si avverte anche l’inquietudine tipica dell’uomo moderno. La comicità svuota, nella risata, il significato serio di ciò che è rappresentato e conferma l’incredulità del parlante, il suo scetticismo.
Non c’è luce di trascendenza, non c’è traccia di quella paura di Dio sempre minacciata, non ci sono immagini blasfeme, non c’è barlume di speranza: la fine è uguale per tutti, la tensione insieme tragica e comica del sonetto si smorza –come la luce- in un conclusivo, dimesso e quasi nichilistico “e bbona sera”. Direi di più, la dissoluzione nella risata è totale: Dio-chioccia che manda a letto i suoi pulcini in due diversi pollai (e la cantina non appare peggiore del tetto). E’ una riflessione divertita e divertente nel cui quadro i colori cupi (gli scheletri in fila) entrano perché sono presenti nello spettacolo offerto tutti i giorni dalle chiese di Roma. Solennità apocalittica e resoconto grottesco si intrecciano per spiegare a tutti noi la vanità della vita umana, il tema del giudizio universale è ricondotto a una dimensione corporea e quotidiana: l’immagine finale delle luci che si spengono ha un carattere bonariamente consueto ma rivela anche la paura e l’angoscia dello spegnersi della vita universale, della vita che precipita nel buio, nel silenzio, nel nulla eterno. Cala così il sipario sulla commedia del mondo.
Gennaro Cucciniello