Belli. la Chiesa cattolica romana. 2- “La riliggione der tempo nostro”. 11 ottobre 1835

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. La religione cristiana e la Chiesa cattolica romana. 2- “La riliggione der tempo nostro”.

 

E’ molto interessante il dibattito critico che si è sviluppato a proposito dell’atteggiamento del Belli nei confronti della religione: qualcuno (Samonà) nega che si possa inquadrare il nostro poeta nell’ambito di un cattolicesimo riformatore e tenta di definirne la posizione come il manifestarsi di un dissidio profondo tra ragione e religione, pessimismo materialistico, momenti di vera e propria miscredenza e persistente fedeltà all’ideologia cattolica. Così, oscillando tra feroce sconsacrazione e fiduciosa familiarità, il suo popolano si adegua –tra effluvi di superstizione- al vario manifestarsi della divinità, a volte blasfemo e irridente, a volte timorato di Dio, persino baciapile. E la liturgia diventa uno spettacolo vertiginoso: grappoli di beghine che litaniano a gole spiegate, in un pastiche di latino maccheronico e dialetto locale, come avveniva in tutte le terre cattoliche. Vituperi incredibili, ianua coeli che diventa ianua culi, in un turpiloquio degno di Rabelais. “E’ scarsamente raccomandabile il tentare di trovare sempre fra tutti gli elementi contrastanti una sintesi superiore. Per esempio, tra il Belli che ha paura dell’inferno e quello che, anche sulla base di ben precise letture illuministiche, si prende gioco –non sempre garbatamente- dei dogmi cattolici o di alcune basilari concezioni religiose. Il nostro poeta era un temperamento fortemente conflittuale”.

Quello di Belli è un pensiero che non brucia progressivamente le sue tappe e non supera le posizioni di volta in volta acquisite (come è il caso, invece, di Leopardi e –perché no- anche di Manzoni), ma torna perpetuamente a riproporle immutate; è essenzialmente un pensiero non dialettico che accumula i dati dell’esperienza e della ragione senza percepirne la contraddittorietà. E così unisce il prudente conservatore quasi timoroso delle sue stesse idee e il poeta affascinato dalla forza barbarica della miseria, della rozzezza, della degradazione morale, della venalità e della lussuria che vedeva intorno a sé. E’ capace così di evocare ogni colore dei sentimenti umani: la paura, la crudeltà, la vendetta, la compassione, la sensualità, la pietà. Capace di smuovere emozioni tempestose e arcaiche. Gli ideali della riforma religiosa, pur se e quando ci sono, si immergono in un mondo senza scampo; ogni speranza, ogni tentativo di ribellione soffocano sotto le macerie di valori cattolici corrosi fino al crollo. In questa potenza di distruzione totale consiste la carica rivoluzionaria della sua poesia. Nella sua rappresentazione il poeta ritrova –anche senza volerlo- il suo moralismo, i suoi scrupoli, le sue preoccupazioni. Scrive il Sapegno che “il grido di rivolta porta con sé l’ombra di una condanna temuta, e la protesta e la satira hanno il sapore eccitante ed amaro del peccato, e la fantasia si immerge, con un coraggio disperato pieno di turbamento e di paura, in un gorgo di immagini empie, con una volontà acre e torbida di profanazione e di bestemmia. Dopo il 1846, dopo la morte di Gregorio XVI, il suo papa, Belli scriverà:” A papa Grigorio je volevo bene perché me dava er gusto de potenne dì male”.

Scrive un altro critico che “nella sostanza della sua poesia, pur così implacabile nel ritrarre una società in disfacimento, è un senso onnipresente della morte, dell’aldilà, ed un gusto del macabro che si riallacciano con evidenza a certi motivi che furono propri della letteratura barocca, a quella poesia lugubre e mortuaria che fu caratteristica della Controriforma. Dovunque nel Commedione, nei discorsi della plebe e nelle cerimonie religiose, è l’onnipresenza dei cadaveri, il senso della punizione eterna, lo sgomento dell’oltretomba, il ricorrere del tema funerario. Il poeta è fermo ai sotterranei sgomenti della plebe romana, scettica e godereccia, ridanciana eppure schiava dei suoi terrori”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dello studio obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

La riliggione der tempo nostro”                         11 ottobre 1835

 

Che riliggione! E’ riliggione questa?

Tutta quanta oramai la riliggione

consiste in zinfonie, genufressione,

segni de croce, fittucce a la vesta,                                                    4

 

cappell’in mano, cenneraccio in testa,

pessci de tajjo!, razzi, priscissione,

bussolette, Madonne a’ ggni cantone,

ccene a punta d’orloggio, ozzio de festa,                                       8

 

scampanate, sbaciucchi, picchiapetti,

parme, reliquie, medàjje, abbitini,

corone, acquasantiere e moccoletti.                                                           11

 

E ttrattanto er Vangelo, fratel caro,

tra un diluvio de smorfie e bell’inchini,

è un libbro da dà a ppeso ar salumaro.                                          14

 

Che religione! E’ religione questa? Ormai tutta quanta la religione consiste in musiche da chiesa, genuflessioni, segni di croce, nastri di stoffa attaccati alla veste come segno di grazia ricevuta, cappelli in mano per umiltà e devozione, le ceneri sulla testa nel primo giorno della Quaresima, pesci pregiati da vendere a fette (molto ricercati nei giorni di magro quaresimale), mortaretti, processioni, cassette per raccogliere le elemosine in chiesa, dipinti e statue della Madonna a ogni angolo di strada, cene allestite per la mezzanotte precisa (quando è finito l’obbligo del digiuno), ozio a più non posso nei giorni di festa, suoni di campane, sbaciucchi di immagini sacre, gente che si picchia il petto in segno di pentimento, rami di palma, reliquie, medaglie, abitini (immagini sacre tra due pezzetti di panno), corone per il rosario, acquasantiere e piccole candele votive. E nel frattempo il Vangelo, fratello caro, tra un diluvio di smorfie e inchini tanto belli a vedersi, è un libro da dare a peso di carta al salumaio perché ne faccia involto di cibarie.

 

Sonetto: (ABBA, ABBA, CDC, EDE).

 

Le prime tre strofe. Contrariamente al modello consueto che il Belli si impone, la classica divisione tra le quartine e le terzine (anche nei contenuti), questa volta dobbiamo prendere in considerazione i primi undici versi. Si parte da un’esclamazione, Che riliggione!, che poi in modo incalzante diventa una domanda non retorica, E’ riliggione questa?, per planare in un’affermazione che si distende in una sillabazione assonantizzata, Tutta quanta oramai la riliggione, che apre un elenco impressionante e argomentato. Nei primi due versi è ripetuta per ben tre volte la parola “riliggione”, ad inizio e chiusura del distico, ogni volta con un’intonazione diversa, e l’ultima con un senso di caduta, di conclusione amara, a rimarcare in modo emblematico la polemica contro gli aspetti più esterni e convenzionali della devozione religiosa, contro la forma che sostituisce e spesso uccide la sostanza, ambientata in una Roma godereccia e festaiola, superstiziosa e paganeggiante. Ci colpisce lo straordinario ritmo dei versi, il crescendo musicale delle sillabe, con quell’impressione di movimento, di folla, di grida, quell’incalzare sempre più fitto di immagini, a mezzo tra il sacro e il profano, il fastoso e il plebeo. Un capolavoro fonico. Si veda, per esempio, la salda unità della rima in B (riliggione, genuflessione, priscissione, cantone) che assonantizza nella prima quartina con “zinfonie, segni de croce”: un’intonazione musicale che descrive con meravigliosa efficacia le abitudini e i riti quotidiani di una fede lontana dal Vangelo, un testo tanto più trascurato quanto più ossessivo e puntuale è il rispetto tutto esteriore e formale dei divieti e dei doveri religiosi.

Si faccia attenzione al verso 6. L’annotazione, “pessci de tajjo”, riproduce la voce del pescivendolo, e le due parole interrompono a mezzo il crescendo del ritmo con un grido prolungato. Così, dall’enunciazione narrativa si passa, con un traslato miracoloso, nel mezzo di un mercato rionale e le descrizioni della pratica religiosa nelle chiese si mescolano d’incanto con la vita affollata e caotica della città, con i fuochi d’artificio e i mortaretti che danno il tono alla festa. Il giorno si fa notte, appaiono miracolose tavolate nei palazzi e nelle piazzette, le voci s’uniscono alle campane, l’osservazione quasi cinematografica ora inquadra singole persone impegnate nella penitenza (sbaciucchi, picchiapetti) ora si allarga a dettagliare oggetti: i versi 10 e 11 sono miracolosi nell’accatastamento (parme, reliquie, medaje, abbitini, / corone, acquasantiere e moccoletti).

Ultima terzina. La strofa segna la risoluzione, l’acquietarsi ritmico del sonetto. In quel “ttratanto” dell’inizio del verso 12 si riassume con sintesi mirabile la denunzia (?) del trionfo dell’ipocrisia e del formalismo nella Roma papalina accanto ad un’analisi piena di disincanto delle contraddizioni della fede popolare. Il Vangelo si traduce in pratiche svuotate di autentico spirito religioso e inquinate da interessi meschini e ipocriti (“tra un diluvio de smorfie e bell’inchini”). I versi esprimono un senso amaro e fatalistico d’immobilità e una comicità cupa e tragica, priva di qualsiasi speranza.

Molte altre volte il nostro poeta conferma questo quadro desolante. In un sonetto per la processione del Corpus Domini un popolano si lamenta perché il Papa ha soppresso l’uso dello stendardo e del “tronco”, che era causa di continue gare e liti tra i giovani:

“Ma mmò cche nnun c’è ppiù ttronco e stennardo,

e nun ce resta che cquer po’ de Cristo,

le priscissione io?! manco le guardo.”

 

                                                                       Gennaro  Cucciniello