La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. “L’inferno romano”. 2-“Er ricordo”.
“I popolani romani non hanno arte alcuna: non di oratoria, non di poetica: come niuna plebe n’ebbe mai. Tutto esce spontaneo dalla natura loro, viva sempre ed energica perché lasciata libera nello sviluppo di qualità non fattizie (sincere, non artificiali). Direi delle loro idee ed abitudini, direi del parlar loro ciò che può vedersi delle fisionomie. Perché tanto queste diverse nel volgo di una città da quelle degl’individui di ordini superiori? Perché non frenati i muscoli del volto all’immobilità comandata della civile educazione, si lasciano alla contrazione della passione che domina e dell’affetto che stimola; e prendono quindi un diverso sviluppo, corrispondente per solito alla natura dello spirito che que’ corpi informa e determina. Così i volti divengono specchio dell’anima (…) E dove con tal corredo di colori nativi io giunga a dipingere la morale, la civile e la religiosa vita del nostro popolo di Roma, avrò, credo, offerto un quadro di genere (vita comune, vita familiare, folklore) non al tutto spregevole da chi non guardi le cose attraverso la lente del pregiudizio (…) Il mio è un volume da prendersi e lasciarsi, come si fa de’ sollazzi, senza bisogno di progressivo riordinamento d’idee”.
Sono chiare queste indicazioni che Belli aveva scritto nell’Introduzione alla sua opera sterminata (più di 2250 sonetti). La Roma papale, nella sua decrepitezza ma anche per la sua centralità universale, era diventata la sede, eterna, di tutti i mali e le ingiustizie del mondo, un luogo escluso dalla storia e dalle sue illusioni di progresso (le leopardiane magnifiche sorti e progressive). “C’è il senso cupo di un destino immodificabile che”, scrive Asor Rosa, “accomuna nella stessa visione pessimistica del mondo servi e signori, prelati e popolo. Solo un riferimento a un altro suddito marginale dello Stato pontificio, Leopardi, potrebbe far capire la qualità e l’altezza della poesia belliana”.
La plebe di Roma: lavandaie sempre partorienti, poverelli, gatti a pigione, gabelle, ciechi di mestiere, impiegati inetti, pellegrini “sfamati a cazzimperio e miserere”, artigiani facili alle coltellate, concubine tra gli angioloni delle chiese con le trombe in bocca. Erano plebe pagana e corrotta, una plebe eterna e indomabile, a spasso fin dalla nascita tra palazzi, chiese, sculture, piazze, sacre parate. La loro grevità plebea era da secoli immersa nella bellezza universale. Erano loro, in quella Roma del papa-re, il teatro più perfetto al mondo dell’ignoranza infima e malvagia, che però a volte diventava per osmosi saggezza sacra e pagana, pur in un quadro di abbandono e di morte. Alcuni critici hanno definito Belli “un poeta dantesco”. Ma bisognerebbe aggiungere che si fermò all’inferno: l’unico luogo cui si addicono il comico e il grottesco, il lazzo osceno e il pensiero malizioso. In queste poesie Roma appare come un avamposto dell’Oltretomba, attraversato da luci fosche, marcio fino al midollo, in grado però di ghermire il lettore con le sue bellezze vischiose e imprevedibili.
L’opera poetica di Belli si fonda sul magma costituito dalla vita e dai pensieri degli strati più informi della società romana, dominata dalle gerarchie ecclesiastiche, e si traduce in una grande impresa conoscitiva, compiuta attraverso il dialetto. Gli studi più recenti ne hanno giustamente rivalutato la grandezza e, soprattutto, ricostruendo l’itinerario intellettuale formativo del poeta, ne hanno mostrato la curiosità culturale, la conoscenza di tanta filosofia e letteratura europea, la tormentata e drammatica contraddittorietà interiore tra una visione nella sostanza illuministica e un sentire politico schiettamente reazionario.
Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso” –diceva il grande poeta veneto- ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.
Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.
“Er ricordo” 29 settembre 1830
Er giorno che impiccòrno Gammardella,
io m’ero proprio allora accresimato.
Me pare mò, ch’er zàntolo a mmercato
me pagò un zartapicchio e ‘na sciammella. 4
Mi padre pijò poi la carrettella,
ma pprima vorze gode l’impiccato:
e mme tieneva in arto inalberato,
discenno: “Va’ la forca cuant’è bbella!” 8
Tutt’a un tempo ar pazziente mastro Titta
j’appoggiò un carcio in culo, e ttata a mmene
un schiaffone a la guancia de mandritta. 11
“Pija”, me disse, “e arìcordete bbene
che sta fine medema sce sta scritta
pe’ mmill’antri che ssò mmejo de tene”. 14
Il giorno che impiccarono Antonio Camardella fu proprio quello in cui ero stato cresimato (Camardella era stato condannato per avere ucciso un prete da cui era stato frodato). Rivivo quel momento come se fosse proprio adesso: il padrino al mercato mi aveva regalato un giocattolo e una ciambella. Poi mio padre affittò la carrozzella per portarmi a spasso, in segno di festa, ma prima volle assistere all’esecuzione capitale, e mi levava in alto sulle sue braccia perché non perdessi nulla dello spettacolo, e mi diceva: “Guarda la forca quanto è bella!”. Proprio mentre il boia, mastro Titta, appoggiava un calcio nel culo a Camardella, mio padre a me appioppò uno schiaffone alla guancia destra. “Piglia”, mi disse, “ e ricorda bene che questa stessa fine è già stabilita, destinata dalla sorte per mille altri che sono meglio di te, che magari valgono più di te”.
E’ necessario annotare che Camardella era stato condannato a morte nel 1749 (si tenga conto della data) per avere ucciso il canonico Donato Morgigni. Il prete aveva mancato di parola, in affari, al Camardella che non era riuscito a farsi rendere giustizia dal tribunale. Perciò aveva ucciso il prete. Nel popolo romano, ottanta anni dopo, ancora durava l’eco e il ricordo di questi fatti, della condanna a morte e dell’esecuzione di Camardella.
Sonetto: (ABBA, ABBA, CDC, DCD).
L’analisi. Belli non aveva naturalmente assistito al fatto, accaduto quasi un secolo prima. Trasferisce, perciò, su un bambino, diventato un anziano nonagenario, il compito di raccontare una memoria, con assoluta nettezza di particolari. Per il ragazzo assistere all’esecuzione capitale era stata una sorta di seconda cresima, di natura tutta familiare e imperativa. Il sonetto è nudo, fermo, senza una sillaba di troppo, senza un compiacimento formale; esempio di quel realismo istintivo, di quella narrazione tutta cosa, di un vigore icastico, con una fermezza eccezionale della scrittura. Molto interessante è l’inizio del sonetto: una determinazione precisa (er giorno che impiccorno / io m’ero proprio allora accresimato), avvalorata ancora di più dai particolari –indelebili nella mente di un ragazzino- dei regali avuti dal padrino al mercato. La memoria del vecchio ricorda i dettagli di quella giornata memorabile. Un grumo di frammenti, detriti di ricordi, un andirivieni lucidissimo, l’energia pura e intatta dell’infanzia. La folla che si accalcava, il calcio in culo del boia che fa precipitare nel buio della morte, lo schiaffone del padre, l’aspettativa della gita in campagna, la sentenza epigrammatica sul male che ci domina inesorabilmente. E’ la vita che si è sedimentata nelle cose, nei luoghi, nei volti, nei suoni, nei profumi, nelle immagini del nostro passato. Il quotidiano, le sue stranezze e le sue grandi-piccole avventure, rappresentano l’ossatura della crescita di ogni bambino. La polvere del tempo si è elevata alla dignità di un mistero, quasi alla forza di un assoluto. Belli affresca situazioni ed individui con una pertinenza quasi tangibile, come se la pagina respirasse: è una maniera sghemba obliqua, ma spaventosamente esatta, di fotografare la quotidianità. E’ il narratore che esplora le strade e le piazze per presentare la cronaca (diventata storia) come se usasse uno specchio. La memoria è selettiva per definizione, sfronda i dettagli superflui, esalta certi contorni a seconda dello stato d’animo dei protagonisti e della rappresentazione che si vuole mettere in scena. Nella strana magia del montaggio il poeta impara a ritrovare il potere vivificante della memoria, in un certo senso a inventarla. Il rapporto tra padre e figlio si nutre di necessari silenzi e di schiette risate, di ataviche paure e di vie fantastiche di fuga. Tanti anni dopo, così mi par di capire, Belli impara a usarla per congedarsi dai fantasmi. Meglio, per addolcirli e riconciliarsi con loro.
La consuetudine con la morte, lo spettacolo delle esecuzioni capitali e dei mortori col cadavere scoperto, non tiene solo del lugubre, dell’orrido; è anche un’occasione di diletto, di divertimento (v. 8), e persino uno spettacolo educativo per i fanciulli, in una città, Roma, compiaciuta dei propri riti sociali (il Carnevale, le processioni, le esecuzioni) e fertile d’intrattenimenti plebei. Ci si recava in massa alle esecuzioni capitali come a un evento sociale: si esaltava con questo rito il ruolo punitivo e feroce della legge. Il nostro poeta ne parla in modo paradossale: aleggia nel sonetto un’aria balordamente spensierata e, nello stesso tempo, un realismo che sconfina nel cinismo.
Il giorno successivo, il 30 settembre 1830, Belli scrisse un secondo sonetto:
La giustizia de Gammardella
Quanno che vedde che a scannà un buciardo
Gammardella ebbe torto cor Governo,
nun vorze un cazzo convertisse; e ssardo
morze strillanno vennetta abbeterno. 4
Svortato allora er Beato Leonardo
a le gente che ttutti lo vederno,
disse: “Popolo mio, pe sto ribbardo
nun pregate più Iddio: già sta a l’inferno”. 8
Ebbè, quelle du’ chiacchere intratanto
j’hanno incajato un pezzo de processo
che sse stampava pe creallo Santo. 11
L’avocato der diavolo fa er fesso
co sti rampini; ma ppò dì altrettanto,
s’ha da santificà ffussi de gesso! 14
Quando si accorse che lo scannare un prete bugiardo gli era costato una condanna da parte del governo pontificio, il reo Camardella non volle per niente pentirsi e, saldo nel suo giudizio, morì gridando vendetta in eterno. Allora il Beato Leonardo da Porto Maurizio (che invano aveva tentato di convertirlo), rivolto alla folla e visto da tutti, disse: “Popolo mio, non pregare più per questo brigante: sta già all’inferno”. Ebbene, quella frase nel frattempo ha bloccato il processo che era stato organizzato per canonizzarlo. Il Promotore Generale della Fede (definito “avvocato del diavolo” perché incaricato di sollevare obiezioni ed opposizioni) fa il duro con questi cavilli; ma può dire altrettanto se da santificare fosse una statua. (Di fatto, mentre il Belli scriveva, il processo di canonizzazione del beato Leonardo –beatificato nel 1796- era sospeso. Fu ripreso in seguito e concluso nel 1866. Nulla si sa dei motivi della sospensione).
Impressiona la tremenda coerenza del condannato che fino all’ultimo non solo rifiuta i conforti religiosi ma urla la sua innocenza, sfida Dio con furia e con una bestemmia illimitata (morze strillanno vennetta abbaterno, v. 4). Anche il Beato Leonardo, però, pecca perché dispera della salvezza del reo. L’episodio, perciò, diventa un pretesto interessante per affrontare, da parte del poeta, temi profondi quali l’ipocrisia della religione, il fanatismo dei suoi ministri, la polemica contro la pena di morte, le paure e le contraddizioni all’interno della coscienza popolare
Gennaro Cucciniello