Belli. “Er miserere de la Settimana Santa”. 31 marzo 1836

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. L’inferno romano. – “Er miserere de la Settimana Santa”, 31 marzo 1836.

 

I popolani romani non hanno arte alcuna: non di oratoria, non di poetica: come niuna plebe n’ebbe mai. Tutto esce spontaneo dalla natura loro, viva sempre ed energica perché lasciata libera nello sviluppo di qualità non fattizie (sincere, non artificiali). Direi delle loro idee ed abitudini, direi del parlar loro ciò che può vedersi delle fisionomie. Perché tanto queste diverse nel volgo di una città da quelle degl’individui di ordini superiori? Perché non frenati i muscoli del volto all’immobilità comandata della civile educazione, si lasciano alla contrazione della passione che domina e dell’affetto che stimola; e prendono quindi un diverso sviluppo, corrispondente per solito alla natura dello spirito che que’ corpi informa e determina. Così i volti divengono specchio dell’anima (…) E dove con tal corredo di colori nativi io giunga a dipingere la morale, la civile e la religiosa vita del nostro popolo di Roma, avrò, credo, offerto un quadro di genere (vita comune, vita familiare, folklore) non al tutto spregevole da chi non guardi le cose attraverso la lente del pregiudizio (…) Il mio è un volume da prendersi e lasciarsi, come si fa de’ sollazzi, senza bisogno di progressivo riordinamento d’idee”.

Sono chiare queste indicazioni che Belli aveva scritto nell’Introduzione alla sua opera sterminata (più di 2250 sonetti). La Roma papale, nella sua decrepitezza ma anche per la sua centralità universale, era diventata la sede, eterna, di tutti i mali e le ingiustizie del mondo, un luogo escluso dalla storia e dalle sue illusioni di progresso (le leopardiane magnifiche sorti e progressive). “C’è il senso cupo di un destino immodificabile che”, scrive Asor Rosa, “accomuna nella stessa visione pessimistica del mondo servi e signori, prelati e popolo. Solo un riferimento a un altro suddito marginale dello Stato pontificio, Leopardi, potrebbe far capire la qualità e l’altezza della poesia belliana”.

La plebe di Roma: lavandaie sempre partorienti, poverelli, gatti a pigione, gabelle, ciechi di mestiere, impiegati inetti, pellegrini “sfamati a cazzimperio e miserere”, artigiani facili alle coltellate, concubine tra gli angioloni delle chiese con le trombe in bocca. Erano plebe pagana e corrotta, una plebe eterna e indomabile, a spasso fin dalla nascita tra palazzi, chiese, sculture, piazze, sacre parate. La loro grevità plebea era da secoli immersa nella bellezza universale. Erano loro, in quella Roma del papa-re, il teatro più perfetto al mondo dell’ignoranza infima e malvagia, che però a volte diventava per osmosi saggezza sacra e pagana, pur in un quadro di abbandono e di morte. Alcuni critici hanno definito Belli “un poeta dantesco”. Ma bisognerebbe aggiungere che si fermò all’inferno: l’unico luogo cui si addicono il comico e il grottesco, il lazzo osceno e il pensiero malizioso. In queste poesie Roma appare come un avamposto dell’Oltretomba, attraversato da luci fosche, marcio fino al midollo, in grado però di ghermire il lettore con le sue bellezze vischiose e imprevedibili.

L’opera poetica di Belli si fonda sul magma costituito dalla vita e dai pensieri degli strati più informi della società romana, dominata dalle gerarchie ecclesiastiche, e si traduce in una grande impresa conoscitiva, compiuta attraverso il dialetto. Gli studi più recenti ne hanno giustamente rivalutato la grandezza e, soprattutto, ricostruendo l’itinerario intellettuale formativo del poeta, ne hanno mostrato la curiosità culturale, la conoscenza di tanta filosofia e letteratura europea, la tormentata e drammatica contraddittorietà interiore tra una visione nella sostanza illuministica e un sentire politico schiettamente reazionario.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso” –diceva il grande poeta veneto- ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

                                                           Gennaro Cucciniello

 

 

“Er miserere de la Settimana Santa”      31 marzo 1836

 

Tutti l’ingresi de Piazza de Spaggna

nun hanno antro che ddì ssì cche ppiacere

è de sentì a Ssan Pietro er miserere

che ggnisun istrumento l’accompaggna.                                       4

 

Defatti, cacchio!, in ne la gran Bertaggna

e in nell’antre cappelle furistiere

chi ssa ddì com’a Roma in ste tre ssere

“Miserere mei Deo sicunnum maggna?”                                         8

 

Oggi sur “maggna” ce sò stati un’ora;

e cantata accusì, sangue dell’ùa!,

quer “maggna” è una parola che innamora.                                11

 

Prima l’ha detta un musico, poi dua,

poi tre, poi quattro; e ttutt’er coro allora

j’ha dato giù: “misericordiam tua”.                                      14

 

Tutti gli inglesi che alloggiano in piazza di Spagna (dov’era “l’Albergo Londra”) non hanno altro da dire, non fanno altro che celebrare, non smettono di confessare il piacere che provano quando sentono il Miserere cantato nella basilica di San Pietro durante la settimana santa –nelle sere di mercoledì, giovedì e venerdì-, un Miserere per sole voci eseguito dai cantori della Cappella Sistina (era un famoso testo a nove voci di Gregorio Allegri (1584-1652), splendido esempio di polifonia romana, cantato durante il Mattutino delle Tenebre. Dice il Vigolo che non si poteva ricopiare, “e Mozart nel 1770 lo ritenne a memoria, e lo trascrisse poi”). E infatti, cazzo, nella Gran Bretagna e nelle altre cappelle all’estero chi sa cantare come a Roma in queste tre sere il Salmo L, “Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam?”. Oggi sul “magnam” ci sono stati un’ora e, cantata così, sangue dell’uva (è il vino), quel “magnam” è una parola che fa innamorare, che quasi fa assaporare il cibo. Prima l’ha detta un cantore, poi due, poi tre, poi quattro; e tutto il coro, allora, ha accompagnato con calore: “misericordiam tuam”.

Sonetto: (ABBA, ABBA, CDC, DCD).

Le quartine. Accanto al registro più spento, più amaro, consueto in molti sonetti che raccontano della vita grama dei popolani romani, ricorre, a volte, quello glorioso dei pochi giorni in cui il popolano riesce a nutrirsi; e ricorrono allora, a rimbalzo, le fantasie mangerecce che lo inseguono in ogni occasione della giornata, e persino nelle navate di S. Pietro, quando il coro per sole voci intona il Miserere della settimana santa. Il nostro testo fa centro su un fatto linguistico, la sbagliata interpretazione popolare della parola latina “magna” perché nel dialetto romanesco “maggnà” significa mangiare. Non sai con quanta malizia Belli, nella prima quartina, costruisce subito un’intrigante rima “ppiacere-miserere”, quasi a sottolineare che in giornate dedicate a celebrare la Passione e la Morte di Cristo nella capitale della cristianità ci si trastullava a sollazzarsi in cerimonie religiose. L’inizio è serioso, si cita la presenza di un consistente turismo britannico e nel secondo verso il periodo tanto involuto vuole riprodurre intenzionalmente la serietà dei discorsi, le lunghe disquisizioni dei forestieri, incantati da tanto barocchismo pastoso.

Le terzine. Nel v. 9, oggi sur “maggna” ce so stati un’ora, il popolano sogna: non proprio un’ora, quel magna è sembrato proprio senza fine, è parsa veramente “una parola che innamora”, e la sonorità romanesca del termine, ripetuto due volte nella prima terzina, permette anche a noi lettori di assaporare la pienezza quasi sensuale delle sillabe. I cantori insistono con diversi melismi e contrappunti per un tempo lunghissimo, conforme alle maniere dello stile polifonico in voga. E quel magna, per il nostro popolano, non può significare se non quello di cui lui ha più bisogno, il mangiare. Perciò si immedesima tanto in quelle voci e le celebra con desiderio, le sogna, quasi delira.  Il nostro poeta vi aggiunge la maestria dei suoni, degli echi, degli arresti, delle riprese, che veramente ritrae nell’ultima terzina la straordinaria cadenza del brano dell’Allegri e la suggestione di quelle voci sotto le volte immense della basilica. Sembra anche che faccia sentire l’estinzione, la morte progressiva del suono. 

Annota il Vigolo che nel v. 12 il suono della u sui due accenti maggiori del verso (mùsico, dùa) ricorda davvero certi echi lunghi che si inseguono per le immense navate della basilica vaticana, quando l’ultimo cero della “officiatura delle tenebre” è ormai spento. Nel verso successivo il ritmo rallenta, trattenuto, affinché poi giunga più atteso lo scoppio, rimbombante, “e ttutt’er coro allora / j’ha dato giù”. Ecco, adesso, nell’ultimo verso tu noterai la cesura nettissima e la sospensione del ritmo, prima della cadenza finale. Che suona veramente come un inno di ringraziamento da parte di coloro che sono sazi. E i poveracci digiuni?

Una parte della critica ha voluto vedere nel sonetto l’assenza di intenzioni anticlericali. Però è possibile scorgere un doppio senso malizioso: è opinione comune nel popolo che il mangiare bene è una delle preoccupazioni fondamentali della gente di chiesa. Nei giorni della settimana santa, destinati dalla liturgia al digiuno e alla penitenza, persino nei cori delle cerimonie quaresimali si può intravedere un’allusione alla ghiottoneria prelatizia. Così il finale può prestarsi anche a questa interpretazione: i coristi esaltano nel tripudio delle loro voci la misericordia divina perché questa consente al clero di mangiare a sazietà.

Nello stesso giorno Belli scrive un altro sonetto sullo stesso tema e completa il racconto con ironico disincanto:

 

Ah ah ah ah! sur miserere poi,

caro sor Giammarìa, dite a l’ingresi

e a ttutti li todeschi e li francesi

ste du’ parole ch’io mo dico a voi.                                         4

 

Quelli chiccherichì c’avete intesi

sopra er “zicunnum maggna” è un tibbidoi

c’userà fforzi in nell’antri paesi

si volete accusì, ma no da noi.                                                            8

 

“Sicunnum maggna!” ma cazzo! a sto monno,

pe quelli quattro essempi che sse vedeno,

maggna er primo, me pare, e no er ziconno.                    11

 

Cosa viè ppoi? Manifestasti micchi”;

e sti “micchi” chi ssò? Quelli che credeno

a ste ciarle, ch’er boja se l’impicchi.                                     14

 

Ah ah ah ah! su quel Miserere poi, caro signor GianMaria, ripetete agli inglesi e a tutti i turisti tedeschi e francesi queste due parole che io ora dico a voi. Quei canti fioriti, quei gorgheggi, quei trilli che avete ascoltato sopra il “secundum magnam” è un non so che che si userà forse negli altri paesi, se volete così, ma non da noi. “Secundum magnam!” ma, cazzo, in questa nostra città, per quei quattro esempi che si vedono, mangia il primo, mi sembra, ma non il secondo. Cosa viene poi? “Incerta et occulta sapientiae tuae manifestasti mihi”; e questi micchi, questi uomini semplici chi sono? Quelli che credono a queste ciarle, che il boia li impicchi tutti.

 

Nel 1816, a Milano, Carlo Porta, grande esponente di una cultura lombarda nutrita di illuminismo liberale e poi aperta ad un romanticismo di forte ispirazione morale, amico di Manzoni, aveva scritto questo testo, “On funeral”, nel quale si evidenziano temi e aspetti che ritroveremo, anni dopo, nei sonetti belliani, e che rivelano l’insofferenza di molti intellettuali nei confronti di pratiche liturgiche svuotate di vero spirito religioso.

Porta racconta di essere entrato in una chiesa durante un funerale, proprio mentre un coro di preti stava per intonare il “Miserere”, il salmo della penitenza. E’ una cerimonia fastosa, per un personaggio importante, alla quale partecipano dei preti assunti per la circostanza. Il poeta si inginocchia per partecipare alla preghiera ma rimane interdetto da ciò che ascolta: al canto liturgico è interpolato un dialogo blasfemo e irriverente fra i sacerdoti, interessati a tutto fuorché alla sostanza della preghiera.

 

…Mò el credarissev, fioeuj, che hoo avuu bell pari

a segnamm e a cercà de tend a mì,

che no gh’oo possuu proppi reussì!

Gh’aveva de denanz duu strafusari

de pret vicciurinatt ch’a ogni tocchel                                                                                 5

de salmo e de versett

te ghe incastraven denter on tassel

de descors de politega e polpett,

de moeud che i mee intenzion de fa del ben

hin andaa a fass squartà,                                                                                            10

nè hoo possuu condemen de guzzà tant de orecc per dagh a trà.

 

Ecco chì come faven;

ma siccome v’hoo ditt che i prêt cantaven,

besogna donca, se no ve rincress,

che me lassev anmì cantà l’stess.                                                                              15

“Miserere mei Deus” – E a disnà?

“secundum magnam” – dò cossett o trè –

“misericordiam tuam et secundum

multitudinem” –de quist.

E el scabbi come l’è?                                                                                                     20

“Et multum lava me

ab injustitia mea, et a delicto” –

Eel car? – Puttasca! e subet “munda me” –

oh mì poeù el vin! –“Tibi soli peccavi” –

s’el var pocch, me la cavi,                                                                                            25

“et malum coram te feci… in sermoni bus

tuis, et vincas cum judicaris.

 

Chì inscì per intermezz scora ona gotta

de scira colda de la gestatoria

che la sbrodola e scotta                                                                                               30

vun di duu sazerdott che l’eva in gloria.

Soa reverenza el scrolla in pressa i did,

sclamand: Che porca d’ona scira, cisti!

E i olter canten, loden più del rid,

“Ecce enim veritatem dilexisti”.                                                                                35

 

Mò, lo credereste, voi, che ho avuto un bel farmi il segno della croce e cercare di attendere ai miei pensieri, non ci sono potuto proprio riuscire! Avevo davanti due sciamannati di preti scagnozzi che ad ogni brano di salmo e di versetto ti ci incastravano un tassello di discorso di politica e di polpette, di modo che le mie intenzioni di fare del bene sono andate a farsi squartare, né ho potuto fare a meno di aguzzare tanto di orecchi per ascoltarli. Ecco qui come facevano; ma siccome vi ho detto che i preti cantavano, bisogna dunque, se non vi rincresce, che mi lasciate cantare anch’io lo stesso. “Abbi pietà di me , Signore” – E a desinare? “secundum magnam” – due cosette o tre – “misericordiam tuam e secondo la moltitudine – di questi (i quattrini). E il vino com’è? “E lavami bene dalla mia colpa e mondami dal mio peccato” – E’ caro? Puttasca! – e subito “mondami” – oh, io poi, il vino! – “Contro te solo ho peccato” – se vale poco, me la batto, “e ho fatto ciò che è male davanti a te…(affinché tu sia giustificato) nelle tue parole e vinca quando giudicherai” / Qui, per intermezzo, a questo punto cola una goccia di cera calda dalla gestatoria che sbrodola e scotta uno dei due preti che era in gloria. Sua riverenza scuote in fretta le dita, esclamando: “Che porca d’una cera, cisti!”, e gli altri cantano, non potendone più dalle risate, “Ecco, hai infatti amato la verità”.

 

                                                                       Gennaro Cucciniello

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