Gente fuori dal(la) Comune
Nel diario di quei giorni, ora ripubblicato, Edmond de Goncourt si diceva schifato dall’insurrezione parigina. Ma cosa pensavano delle barricate Verlaine o Flaubert? Questo…
Nel “Venerdì di Repubblica” del 19 maggio 2017 è pubblicato, alle pp. 110-113, questo articolo di Daria Galateria. E’ necessario dare, per una migliore comprensione dei fatti narrati, una cronologia sintetica degli avvenimenti. Il 2 settembre 1870 un’intera armata francese di centomila uomini, con Napoleone III in testa, capitolò a Sedan. Una seconda armata, comandata dal generale Bazaine, si arrese a Metz il 27 ottobre. A Parigi si proclamò la decadenza dell’impero e la restaurazione della repubblica. Dopo quattro duri mesi di assedio Parigi affamata dovette arrendersi, il 28 gennaio 1871. Negli stessi giorni a Versailles i principi tedeschi proclamavano Guglielmo I di Hohenzollern imperatore del Reich. Il governo provvisorio francese, costituitosi a Bordeaux e guidato dallo storico Adolphe Thiers, accettò le durissime condizioni di pace: cessione dell’Alsazia e della Lorena, pagamento di un’indennità di cinque miliardi di franchi oro (una cifra favolosa), mantenimento a spese dei francesi –fino al pagamento dell’indennità- delle truppe tedesche di occupazione. La politica rinunciataria di Thiers provocò a Parigi, il 18 marzo 1871, una furiosa rivolta popolare nella quale si fusero insieme motivi patriottici e motivi sociali. I rivoltosi crearono un libero governo (la Comune). Thiers si ritirò a Versailles, facendo uscire tutte le truppe da Parigi, riservandosi di riconquistare la città con la forza. La “riconquista” costò più di 20mila morti, condanne ai lavori forzati e deportazioni nella Nuova Caledonia.
Gennaro Cucciniello
A trent’anni, il matrimonio del poeta Paul Verlaine con la giovanissima Mathilde era stato accelerato dalla guerra ai Prussiani, dichiarata improvvidamente il 19 luglio 1870 dall’imperatore di Francia Napoleone III. Nel nido degli sposi si accamparono presto gli artisti rimasti, per i bombardamenti dei prussiani, senza casa; e poi i ricercati dalle stesse truppe francesi. Sconfitto in tre settimane, il 4 settembre, dopo la disfatta di Sedan, il governo si era costituito in Repubblica; e, stanziato a Versailles, trattava una pace ignominiosa coi prussiani (il ministro francese, si disse, piangeva) – ma combatterà con vigore i “rossi” che avevano instaurato a Parigi la Comune insurrezionale.
Nel caminetto del salotto color ciliegia degli sposini Verlaine, gli amici bruciavano la banda viola dei pantaloni che li denunciava come combattenti della Comune. Verlaine, in mezzo a tanti eroi, era “in preda alla fifa”. A forza di espedienti era riuscito a imboscarsi, e quando Mathilde gli citava gli amici che facevano il loro dovere, la madre di Verlaine, passando al figlio i bocconi migliori, commentava bellicosamente: “Si vede che non hanno una madre”. Mathilde (che giocava alla sposina borghese, ma che la polizia già definiva “comunista arrabbiata e libera pensatrice”) ritrae la Comune dalla parte degli insorti.
Vivissima, e di parte opposta, la Comune raccontata da Edmond de Goncourt, e bellissima l’idea del curatore Vito Sorbello di isolare, dall’immenso pettegolo diario dei fratelli Goncourt (già da lui tradotto e curato nel 2007), i due anni 1870-1871: “L’Assedio e la Comune di Parigi”, sempre per l’editore Nino Aragno. Edmond ha appena perso il fratello, un altro se stesso; e le masse dei comunardi lo rivoltano: “prende il disgusto nel vedere le loro facce trionfali e ebbre d’abiezione”. Eppure il quadro di quella Parigi affamata e messa a ferro e a fuoco, tutta a squarci vividi e improvvise messe a fuoco, al volo, di dettagli coloriti, risulta epico.
Nella città assediata da settembre dai Prussiani, dal macellaio inglese alla moda, Roos, pende al muro al posto d’onore la proboscide scorticata di Pollus, l’elefante del giardino zoologico –è il 31 dicembre, per festeggiare a Parigi si è fatta caccia allo zoo. Sono esposte carni senza nome e corna eccentriche; un garzone offre rognoni di cammello. “Posso permettermi di consigliarvi i sanguinacci d’elefante?”, ammonisce il macellaio: “vi sembra caro? Contavo su tremila libbre e ne ho cavato duemilatrecento. I piedi? Venti franchi”. All’uscita, Goncourt incontra il poeta Arsène Houssaye; si lamenta del crollo della Borsa e mercanteggia l’unico anatroccolo di una bancarella di formaggi. Un gioielliere espone, nelle scatole dei preziosi, uova fresche. La sera, Goncourt va al famoso ristorante Voisin, dove gli propongono in effetti sanguinaccio d’elefante; “è stata la mia cena”.
I ristoranti offrono bufalo, antilope e canguro “autentici”. Ma quel capodanno, tra gli intellettuali d’avanguardia di spiriti rivoluzionari, una terrina di pernice, che ha fatto l’allegria del cenone, si rivela pasticcio di topo. E tra quei giovani tutto diventa arte. “L’aringa affumicata” di Charles Cros, una filastrocca un po’ insensata in cui un’aringa è messa a penzolare da una corda, nelle sue rime aggraziate lascia dondolare l’orrore della fame –la poesia astratta e modernissima di Cros è la memoria di un’aringa portata a una cena, come un festino. Lo racconta Mathilde Verlaine: ma anche Goncourt parla di una lattina di aringhe, in una latteria; dietro lampeggia la camicia rossa di un garibaldino.
Per tutto dicembre, ci si chiede se i Prussiani entreranno a Parigi. Flaubert, nel suo eremo presso Rouen, ha la casa invasa da quaranta ufficiali prussiani: e lui, sempre avverso, per disincanto, alle idee socialiste dell’amica scrittrice George Sand (“come si può credere ancora ai Fantasmi”) le scrive già ad agosto: “Se si porrà l’assedio a Parigi, andrò a sparare. Il mio fucile è pronto”. Da gennaio del ’71, il governo centrale è deciso a capitolare; si vogliono smobilitare i cannoni di Montmartre: i parigini resistono, eleggono il governo cittadino; è la Comune.
E’ il 18 marzo: quel giorno c’è il funerale del figlio di Victor Hugo. Il poeta è diventato il mito di tutti gli oppositori all’Impero di Napoleone III –Hugo si è battuto contro il golpe che lo ha insediato, arringando le folle sotto le pallottole: e poi lo ha attaccato, dal suo ventennale esilio, col suo “Napoleone il piccolo”, un pamphlet da un milione di copie. Edmond de Goncourt va, la mattina del 18, al funerale; la panettiera lo avverte: a Montmartre si combatte. Ma Edmond racconta il funerale –ed è un capolavoro. Il corpo del figlio di Hugo è arrivato in treno ed è esposto alla gare d’Orlèans; il poeta riceve nell’ufficio del capostazione. Lungo il corteo verso il cimitero, le guardie nazionali fanno il present’arm! Al poeta; le barricate che si stanno erigendo gli si aprono davanti. Niente più carrozze, i negozi chiudono. La sera, Goncourt –che ormai ha riconosciuto “l’insurrezione trionfante”- registra con stupore la coda davanti al teatro del Palais Royal.
Incuriosito dalla vita quotidiana, Goncourt non scrive degli eventi politici, e parla poco perfino della sua casa: che si è salvata in questi due anni di lutto e di guerra. I “ninnoli” raccolti col fratello e che hanno definito il gusto delle arti minori francesi sono stati avvolti, riposti, staccati dalle pareti; è questo affanno che ha tutelato Edmond dalla prostrazione per il fratello perduto, e ora dalle angosce della guerra. Dorme su un materasso in cantina, ascoltando le bombe arrivare; e ogni mattina si stupisce che la sua casa sia la sola in piedi, in un cimitero di rovine. Ancora il 20 novembre 1870 aveva sentito una bambina, dalla collina di Mortemart, vantarsi con le amiche: “La nostra casa c’è sempre; l’ultima vicina a quegli alberi; la vedete?”. Gli “incendi strategici” che dovevano ritardare la marcia dei Versagliesi –le truppe governative- diventano opere d’arte: Parigi ricorda a Edmond i guazzi napoletani di un’eruzione del Vesuvio su un foglio di carta nera; ma è “una luce d’eclissi”. I feriti scorrono sulla Senna, sulle chiatte; i caffè sono diventati infermerie; le donne si offrono implorando; tutto l’immenso quadro a spezzoni quasi cubisti rendono il ritratto di quei due anni straordinari –lo sottolinea felicemente il curatore Vito Sorbello- discontinuo e moderno come la Waterloo di Fabrizio Del Dongo nella “Chartreuse” di Stendhal.
E a tratti, l’eroismo dei comunardi finisce per colpire Edmond. Nella Settimana di Sangue della feroce repressione della Comune, Goncourt, dalla finestra di una casa in cui si è riparato, vede solo, di un uomo a terra, gli speroni e la punta dei galloni. Un combattente cerca di tirar via quel cadavere, le granate gli fanno cadere addosso le foglie di un alberello; poi gira su se stesso, stupito, e cade a terra. E’ la stessa immagine di Louise Michel “l’incendiaria”, l’eroina della Comune, che andando a cambiarsi la gonna –è crivellata di pallottole- raccontava che un obice aveva colpito un ciliegio, e lei si era ritrovata coperta di fiori.
Daria Galateria