La contessa Sanseverino, segreti e scandali.
Ecco chi era la libertina –vissuta nel Seicento- e che ispirò, due secoli dopo, Stendhal.
Questo articolo, scritto da Daria Galateria, è stato pubblicato ne “La Repubblica” di domenica 15 novembre 2020 a pag. 33.
Nell’Italia di Torquato Tasso e di Bronzino, del Concilio di Trento e delle riforme di San Carlo Borromeo, accanto alla raffinata cultura irradiata dalle corti, fermentava un mondo fatto di intrighi, ritorsioni, avvelenamenti e fornicazioni. La cultura non è solo riflessione accademica, ma anche gioco, divertimento, festa, trasgressione. Il carnevale della corte ferrarese, per esempio, durava giorni interi. Nei castelli la conversazione era arricchita da motti, enigmi, poesie. Così come bastava un soffio per passare dall’esoterismo –come curiosità bizzarra- all’accusa di stregoneria. Le donne, poi, erano strette tra suggestioni di modernità e dure reprimende.
La vera Sanseverina –l’origine di uno dei più seduttivi personaggi della letteratura- è un’anagrafe complessa, diceva Sciascia. Si sa bene che il 16 agosto del 1838 Stendhal ebbe l’idea di un romanzetto (sarà “La Certosa di Parma”, ariosa come il Correggio e come l’Ariosto, che Stendhal aveva letto “a cavallo” nelle campagne napoleoniche). Lo ispira una delle cronache del Cinquecento italiano, tutte sanguinarie passioni, che lo svagavano nel triste Consolato di Civitavecchia: “L’origine delle grandezze della famiglia Farnese”. Qui, nel racconto della fortuna dei Farnese compare una “poesia vivente, un amabile vulcano”, amante del Papa, creatrice di feste inaudite –in una notte di luna, tra le barche dei convitati ormeggiate sul Tevere, cade in acqua; un abate si butta vestito per salvarla, ma lei è intanto riaffiorata mascherata da Naiade per recitare una poesia satirica con cui farà ridere tutti. E’ questa Sirena che protegge la carriera del giovane scapestrato parente Alessandro Farnese- come farà la Sanseverina con Fabrizio Del Dongo nel romanzo stendhaliano.
Ma questo nome “preso a Parma” –Sanseverino, antico e con radici a Napoli- nasconde la storia altrettanto romanzesca di una Barbara Sanseverino, ineguagliata –nel Cinquecento delle corti- nella sapienza mondana, seduttiva e politica, regista di giochi erotici e condimento di ogni passatempo, cantata dal Tasso e coinvolta in fatali congiure, sicché sembra improbabile che Stendhal non ne abbia mai avuto notizia, neanche nel suo passaggio del 1811 per Parma e il castello di Colorno, di cui la Sanseverino era stata la signora. Ora l’illustre cinquecentista Gigliola Fragnito ricostruisce, con tenace sapienza e gran divertimento, la sua vita (“La Sanseverino. Giochi erotici e congiure nell’Italia della Controriforma”, il Mulino), a cominciare dalla fine, truculenta. E’ il 19 maggio del 1612: Barbara Sanseverino sale sul patibolo nella piazza Grande di Parma, per aver congiurato contro Ranuccio I Farnese; così indomita, che il boia non riesce a finirla con la mannaia e deve passare al mannarino, usato per sgozzare le bestie; la folla gli chiese di tirarle “suso la camicia”, e lui le assestò delle “sculazzate” sulle natiche.
A 14 anni Barbara Sanseverino era andata sposa nella sua Colorno –dove, per istruire le sue figliole, il padre aveva fatto affrescare le donne celebri dell’antichità- al conte Gilberto Sala di Sanvitale, più grande di 26 anni e indulgente verso l’esuberanza della giovanissima moglie. Madre affettuosa, Barbara è instancabile: al Carnevale di Parma, dove i cortigiani si ritirano stracchi e malconci, lei balla fino al dì chiaro, poi dorme fino alle 22, quando si va a corte anzi cena. Ma è a Roma, dal 1572, che la fama della sua allegria si afferma; il popolo accorre per vederla passare, e la città alla sua partenza resta vedova. Qui si lega d’amicizia al cardinale Alessandro Farnese –già cardinal putto a 14 anni, e ancora oltre i 50 anni dedito a venere e chiavamenti.
Le passioni sono certo violente –a Ferrara, tra giostre, quintane e combattimenti di dame, Alfonso II d’Este fa strozzare l’amante della sorella Lucrezia-; e la stessa sorella di Barbara, Giulia, viene pugnalata a morte, a pranzo, dal marito Giovan Battista Borromeo (pentitissimo, ma rimasto beninteso impunito). Incantevole seduttrice di principi, dai Gonzaga di Mantova agli Este ai Farnese (ma qui scontando altalenanti inimicizie), la Sanseverino volle l’annullamento per consanguineità dell’unione col marito, riluttante (“sempre pronto, si dichiarava, a trattarla in ogni cosa da moglie, come ho sempre fatto per il passato”), e dodici anni dopo convolò a nuove nozze. Ma sono le mire su Colorno –il paradiso per la Sanseverino, che ne ricreò i mirabili giardini, e le aeree logge, e ne fece un polo di cultura- a fare da sfondo alle pagine politiche più sanguinose della biografia: il vescovo di Parma, Ferrante Farnese, pretende la restituzione di Colorno alla mensa episcopale; l’arcivescovo di Milano (poi santo) Carlo Borromeo fabbrica un eretico, Gian Galeazzo Sanseverino, per escluderlo dalla successione al feudo (ma nel 1571 l’Inquisizione deve recedere dalle accuse di eresia calvinista; e per una delle eccentricità della storia, Gian Galeazzo finirà poco dopo ucciso in Francia proprio dai calvinisti ugonotti).
Barbara per tutta la vita difese i suoi diritti dotali e patrimoniali su Colorno (che era suo, e lo voleva), e fu presumibilmente per impossessarsi del feudo –ornavano il palazzo pitture di Leonardo, Cranach, Correggio, Tiziano; le rendite erano ricchissime, e la posizione strategica- che partì, contro la Sanseverino, il marito, il figlio, la nuora e altri cortigiani l’accusa di cospirazione contro il sovrano di Parma Ranuccio I Farnese.
Incarcerata, condotta nella camera dei tormenti, la Sanseverino negò con violenza (“voi mi potreste ammazzare, non ne so niente, nientissimo”). Tutti i congiurati furono giustiziati nel 1612. Suscitò orrore nelle Corti padane la Grande Giustizia del rapace Ranuccio; e così Colorno fu incamerata dai Farnese. Ranuccio-Ernesto IV invece (i romanzieri sono onnipotenti) finisce felicemente avvelenato dalla Sanseverina stendhaliana.
Daria Galateria
Questo articolo, scritto da Daria Galateria, è stato pubblicato ne “La Repubblica” di domenica 15 novembre 2020 a pag. 33.