La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. La prospettiva plebea della vita e della storia, murata in un orizzonte di non storia. “La fin der monno”, 25 novembre 1831
“Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i suoi concetti, l’indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizii, le superstizioni, tuttociò insomma che la riguarda, ritiene una impronta che assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo. Né Roma è tale, che la plebe di lei non faccia parte di un gran tutto, di una città cioè di sempre solenne ricordanza (…) Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo; e questo io ricopio, non per proporre un modello ma sì per dare una immagine fedele di cosa già esistente e, più, abbandonata senza miglioramento”.
Quando Belli scrisse queste pagine introduttive aveva composto già 300 sonetti circa, sugli oltre duemila dell’intera sua produzione, custoditi segretamente, e aveva chiarito a se stesso il disegno, unitario ed organico, che era sotteso alla sua “Commedia romana”. Egli aveva individuato con grande precisione alcuni tra gli elementi più tipici della situazione storica e ideologica della Roma papalina: l’assenza quasi totale di ogni forma di coesione sociale, anche di un punto di vista linguistico (di qui l’inesistenza di un dialetto cittadino e di una tradizione vernacola scritta) che potesse essere per lui un punto di riferimento, come invece era accaduto per il Porta a Milano.
A Roma il governo dei papi aveva costretto gli intellettuali a tornare all’Arcadia e alle Accademie e faceva della città una sorta di culla delle dottrine morte: non a caso Leopardi, in una lettera da Roma al fratello Carlo del 16 dicembre 1822, aveva scritto: “qui l’Antiquaria è messa da tutti in cima al sapere umano, e considerata costantemente e universalmente come l’unico vero studio dell’uomo”.
Belli , nell’Introduzione, aveva annotato: “Voglio dare un’immagine fedele di cosa abbandonata senza miglioramento”. Roma era in una situazione senza alcuna prospettiva di sviluppo né politico né economico. Belli, scrive Asor Rosa, “porta così il popolo romano alla ribalta vera della storia: proprio perché non lo mitizza, non lo esalta, proprio perché non ne fa il figlio prediletto né della rivoluzione democratica (Mazzini) né della Provvidenza divina (Manzoni), riesce a darci –insieme al Porta- una visione della realtà in cui il popolo non è subalterno ma vive la sua vita in autonomia, è protagonista della storia. Ma quale storia poteva vivere il popolo? Se la storia è romanticamente progresso, incivilimento, perfettibilità, cultura, la storia del popolo non è storia: essa esprime infatti una immobilità senza speranza, una sofferenza diventata abitudine, una passività indifferente, un’oppressione accettata, una protesta destinata a restare sfogo, bestemmia, parolaccia. Questo popolo ci dice che la storia non si muove, è ferma. Nessuna speranza sopravvive”. Da quel suo fondo di istinto plebeo che tante volte esplode nell’insulto, nel sarcasmo, nella volgarità, sberleffo e volontà velleitaria di rottura delle norme di una società organizzata, nasce anche lo svuotamento delle funzioni delle sfere ufficiali e anche dei riti religiosi, ridotti tante volte a un ritmo di balletto, a una sorta di opera buffa, a un tragico presentimento di morte. Annota acutamente il Salinari: “Il suo è un qualunquismo della volontà che accompagna sempre il ribellismo dell’immaginazione”.
In una lettera del Belli a Francesco Spada dell’8 settembre 1838 il poeta definisce la sua città “una Romaccia, una galera”, la negazione vivente della possibilità stessa di esistere, o perlomeno la proiezione di una realtà talmente desolata in cui la vita si costruisse solo nei limiti di una elementare dimensione biologica. E in un’altra sua lettera al principe Placido Gabrielli del 15 gennaio 1861 egli scriveva che “nella mia commedia è il popolo ad essere introdotto a parlare di sé nella sua nuda, gretta ed anche sconcia favella, dipingendo così egli stesso i suoi proprii usi, i suoi costumi, le sue storte opinioni, e insieme con tutto ciò i suoi originali pensieri intorno ai più elevati ordini di questo social corpo di cui esso occupa il fondo”.
Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.
Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.
Gennaro Cucciniello
La fin der monno 25 novembre 1831
Come saranno ar monno terminate
le cose c’ha creato Gesucristo,
se vederà uscì ffora l’Anticristo
predicanno a le gente aridunate. 4
Vierà cor una faccia da torzate,
er corpo da gigante e l’occhio tristo:
e pper un caso che nun z’è mai visto,
nascerà da una monica e da un frate. 8
Poi pe combatte co sta brutta arpia
tornerà da la bucia de San Pavolo
doppo tanti mil’anni, er Nocchilia. 11
E appena uscito da l’inferno er diavolo
a spartisse la gente cor Messia,
resterà er monno pe sseme de cavolo. 14
La fine del mondo
Quando saranno arrivare alla fine del loro tempo le cose del mondo create da Gesù Dio, si vedrà uscire fuori l’Anticristo (personaggio la cui venuta è preconizzata dalla Scrittura per il periodo precedente la fine del mondo) che predicherà alle genti riunite. Verrà con una faccia degna di essere presa a torsate (torsoli), un corpo da gigante e l’occhio cattivo: e per un caso che non si è mai visto (detto con ironia) nascerà da una monaca e da un frate. Poi per combattere con questo brutto mostro usciranno da un buco, sconosciuto, presso la basilica di San Paolo, dopo tante migliaia di anni, i profeti Enoc ed Elia (chiamati popolarmente con un solo vocabolo). Subito dopo dall’inferno uscirà il diavolo per dividersi la gente con il Cristo: e il mondo resterà come un seme di cavolo.
Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, DCD).
Le quartine. Qui si rivivono cupe fantasie medievali, tramandate per millenni. E’ la lotta tra Bene e Male, eppure il nostro poeta riesce a trovare immediatezza, spontaneità e leggerezza, pur senza rinunciare alla profondità. L’Anticristo è visto come un mostro secondo un’interpretazione di superstiziosa faziosità popolare ma alla fine colui che tira le fila della sua predicazione maligna, il diavolo, è delineato nell’abituale veste di supervicario addetto agli affari del male, opposto e simmetrico al Messia con il quale si spartisce da pari a pari “la ggente”. La paura sembra assente: le masse si radunano di buon grado a sentire l’oratoria dell’Anticristo (che non a caso è in rima stretta con “Gesucristo”, vv. 2-3).
Le terzine. Questo sonetto è stato scritto nello stesso giorno, il 25 novembre 1831, nel quale Belli compose quel grande e celebre testo de “Er giorno der giudizzio”, quella splendida e barocca fantasia ripresa dalle sculture disseminate nelle chiese di Roma e dalla fervorosa predicazione di parroci e frati sulla fine del mondo. In questi versi finali si avverte il cosmico sgomento di un mondo, il nostro, che continua a girare come un seme di cavolo in un universo vuoto e spento. La meditazione belliana richiama il Dio solo prima della creazione che abbiamo intravisto in un’altra composizione, “La creazione der monno”.
Il giorno prima, il 24 novembre 1831, Belli aveva scritto questo sonetto:
L’ordegno spregato
Pare un destino ch’er più mejo attrezzo
che fece Gesucristo ar padr’Adamo,
ciavessi da costà, si l’addopramo,
da strillacce caino per un pezzo! 4
Questa nun ce la dà ssi nun sposamo,
quella vò er priffe e nun je ròppe er prezzo,
l’altra t’impesta e tte fa verd’e mezzo:
e er curato sta lì ssempre cor lamo. 8
Benedetta la sorte de li cani,
che sse ponno pijà quer po’ de svario
senz’agliuto de borza e de ruffiani. 11
E pponno fotte in d’un confessionario,
ché nu l’aspetta com’a noi cristiani
sta freggna de l’inferno e der Vicario.
L’utensile sprecato
Sembra un cattivo destino che il miglior attrezzo donato da Dio ad Adamo, progenitore di tutti gli uomini, deve costarci, se l’adoperiamo, tanto da farci gridare come i cani per un bel po’ di tempo. Questa donna non ci si concede se non la sposiamo, quell’altra vuole i soldi e non cala il prezzo, la terza ti contagia e ti lascia triste e malaticcio: e il curato sta lì sempre con l’amo da pesca per fotterti. Benedetta la sorte dei cani, che possono prendersi quel po’ di piacere e di divertimento senza l’aiuto dei soldi e dei ruffiani. E possono spassarsela anche in un confessionale, e non l’aspetta –come a noi cristiani- questa seccatura (ma nel dialetto romanesco fregna è l’organo femminile) dell’inferno nell’aldilà e del cardinale vicario –che vigila sui costumi- nell’al di qua.
Non è una boutade né un’amara verità questa sapida annotazione belliana a proposito della mancata libertà sessuale nella Roma del suo tempo. Conta il mettere insieme, alla fine, come mali equivalenti l’inferno e il cardinale Vicario (vicario del papa e capo della polizia). C’è la malvagità degli uomini contrapposta alla bontà di un Dio-Natura? Ci sono una cattiva interpretazione umana e una contraddittoria memoria del messaggio di Cristo?
Gennaro Cucciniello