La guerra arabo-israeliana del 1967. Parte prima.

Israele contro tutti: La guerra del 1967 (1°)

I sei giorni che cambiarono il mondo. Un conflitto fulmineo. L’umiliazione dei paesi arabi, la potenza dello Stato ebraico, la fuga dei palestinesi. Racconto di una settimana di 50 anni fa…

 

Bernardo Valli ha curato per “Repubblica” di venerdì 2 giugno 2017, alle pp. 21-28, un dossier sulla guerra che nel giugno del 1967 scoppiò tra Israele e i paesi arabi suoi vicini. Qui ne pubblico una prima parte.

 

Quella mattina del 5 giugno, di cinquant’anni fa, ero lontano dall’immaginare il nuovo Medio Oriente che stava per disegnarsi. Ero al Cairo, sulla sponda del Nilo, nell’attesa di una guerra inevitabile, ma della quale era difficile prevedere il momento in cui sarebbe cominciata. L’incertezza non era sui mesi, le settimane, i giorni che mancavano all’inizio. Sembrava una questione di ore. E invece l’attesa fu di qualche minuto. Gli eserciti avversari erano pronti in Israele, dove da giorni erano stati richiamati i riservisti, e sull’altro fronte, in Egitto, in Siria, in Giordania, i paesi di prima linea, con i quali si erano schierati, perlomeno nelle dichiarazioni, l’Arabia saudita, l’Iraq, il Libano e altre nazioni ancora. L’armonia non regnava tra gli alleati arabi. I siriani ostentavano la loro autonomia rispetto agli egiziani che si consideravano alla testa della coalizione anti-israeliana. In Israele erano ormai state superate le esitazioni sulla necessità di lanciare l’offensiva.

Ero reduce da Gaza. Avevo percorso il Sinai nei due sensi. Un viaggio polveroso sulle strade della penisola, tra le colonne corazzate e i reparti di fanteria egiziani; e a Gaza tra i palestinesi ammassati sulle piazze dove venivano armati con i vecchi fucili Enfield abbandonati dagli inglesi. Erano i profughi di vent’anni prima, della guerra ’47-’48, che speravano di ritornare nelle loro case, in quello che era diventato Israele. Molti avevano appese al collo le chiavi arrugginite delle loro vecchie abitazioni, ormai inesistenti.

Nell’attesa della guerra annunciata, quella mattina al Cairo, bevevo l’ennesimo tè alla menta guardando le pacifiche, silenziose feluche con l’albero e la vela inclinati verso la prua. Scivolavano sull’acqua torbida del Nilo, disertato dai rumorosi battelli carichi di turisti diretti a Luxor e a Assuan. Gli stranieri se ne erano andati. Il segnale dell’inizio della guerra arrivò con i ripetuti tonfi provenienti dal deserto, ai limiti della metropoli, oltre il quartiere di Heliopolis, dove si stendevano le piste dell’aeroporto. Quei rumori sordi, attutiti dalla lontananza e dal vasto sbarramento di costruzioni, parevano inoffensivi. (Intanto, alle ore 7,10 Israele aveva lanciato la fulminea “Operazione Focus” che aveva colto di sorpresa la Difesa del Cairo. La missione aerea si era scagliata subito contro le basi dell’aviazione egiziana, lasciando solo una decina di caccia a difesa dello Stato ebraico. L’Egitto subisce immediatamente pesanti perdite: decine di piloti vengono uccisi e i loro aerei abbattuti, quasi tutti ancora al suolo).

Il cielo fu trafitto da centinaia di esplosioni, macchie nere che si dissolvevano nell’azzurro limpido. La contraerea egiziana rispondeva sparando nello spazio vuoto. Uomini e donne, camerieri, clienti, passanti, autisti con la testa fuori dal finestrino, operai sulle impalcature di un cantiere edile di Garden City con gli occhi rivolti al cielo, sentinelle del vicino ponte con i fucili puntati contro un nemico invisibile, tutti coloro che si muovevano nella città dove arrivava il mio sguardo, e anche oltre, sulle piazze spalancate nella metropoli affollata, e sull’opposta sponda del fiume, a Zamalek, tutti lanciarono grida trionfali, affascinati da un evento tanto atteso che infine si realizzava. Era come se la loro squadra del cuore sempre sconfitta avesse infine segnato un goal decisivo.

Il grande abbaglio egiziano.

I numerosi transistor davano a tutto volume, eccitando ancor più la folla, una precipitosa, fantasiosa contabilità della guerra appena iniziata. Secondo le radio venti, trenta, settanta aerei israeliani erano stati abbattuti in pochi minuti. I fiocchi scuri della contraerea che si dissolvevano sulle nostre teste, emettendo raffiche di tuoni asciutti, senza eco, erano scambiati per apparecchi sionisti centrati in pieno dai tiri egiziani. Una rivincita sognata per anni favoriva il grande abbaglio. Si gonfiava l’euforia per una vittoria che era già in realtà una disfatta. Tutte le città israeliane, annunciavano trionfanti le voci delle radio, erano sotto i bombardamenti egiziani e l’esercito di Rabin stava disperdendosi sconfitto nel deserto. L’arte dell’illusione prevalse quella mattina, e nelle ore che seguirono, sulla realtà di una guerra già perduta nei primi minuti. Non un solo aereo egiziano era riuscito ad alzarsi in volo e non un solo carro armato avrebbe nelle ore successive avanzato di un metro.

Non tanto lontano dalla mia terrazza sul Nilo, dove cominciava il deserto, l’aviazione israeliana aveva distrutto l’aviazione egiziana in pochi minuti, senza neppure darle il tempo di decollare. L’aveva inchiodata a terra, dove era allineata senza protezione, mentre i piloti consumavano la prima colazione nel refettorio accanto alle piste. Il maresciallo Abdel Hakim Amer, comandante delle forze armate egiziane, non aveva pensato di mettere al sicuro gli aerei, in appositi rifugi, o di tenerli in volo in quelle ore decisive. Per questo fatale errore si sarebbe poi suicidato.

L’intera armata aerea israeliana aveva volato a bassa quota, spesso a non più di quindici metri dal suolo, per evitare di essere intercettati dalle 82 stazioni radar egiziane. Alcuni apparecchi si erano diretti a ovest, verso il Mediterraneo, per poi seguire la rotta inversa, in direzione dell’Egitto. Altri avevano puntato sul Mar Rosso per poi raggiungere obiettivi più all’interno del territorio egiziano. Il silenzio radio era imposto senza eccezione. In caso di guasti meccanici i velivoli sarebbero precipitati in mare in silenzio. Gli israeliani fecero 164 incursioni in cento minuti e distrussero 286 dei 420 aerei da combattimento egiziani in tredici basi disperse nel Sud e nel Nord del paese, tutte rese inservibili dai bombardamenti. Un terzo dei piloti fu ucciso. Il generale Rabin disse a conclusione di quella mattina che l’aviazione egiziana non esisteva più. Gli israeliani avevano perduto nove apparecchi.

I piloti israeliani avevano seguito un addestramento più intenso e più lungo dei piloti arabi. Avevano più ore di volo e avevano studiato per mesi gli obiettivi da colpire. I loro aerei Mirage erano stati resi molto più operativi dei Mig, Ilyushin e Topolov forniti dai sovietici. I mezzi elettronici avevano raccolto informazioni essenziali. Il contributo dei servizi di intelligence non era stato trascurabile.

Un capitolo della guerra fredda.

Al Ghezira Club, dove si giocava a golf, impaurita dalle esplosioni e dai tiri della contraerea, si era raccolta gran parte della grande borghesia. Era una frazione della società egiziana che non aveva motivo di partecipare all’euforica festa delle illusioni esplosa al Cairo. Il socialismo arabo di Nasser aveva nazionalizzato quasi tutti i suoi beni. E forse molti dei soci del club nei giorni o nelle ore successive, chiarito che la vittoria inventata dalla propaganda nasseriana era in realtà una brutale sconfitta, avrebbero condiviso quel che un grande poeta egiziano, nemico di Nasser, il copto George Henein, scrisse più tardi: “Una straordinaria dolce aria di disfatta aleggiava nella sera”. Quella mattina del 5 giugno al Ghezira Club prevalevano tuttavia un istintivo patriottismo e la paura.

Nel novembre del 1966 Egitto e Siria avevano sottoscritto un’alleanza in cui i due paesi assumevano il reciproco impegno a intervenire nel caso uno dei due fosse coinvolto in un conflitto armato. L’iniziativa era dovuta al desiderio assillante, ossessivo, di una rivincita nei confronti di Israele. L’umiliante sconfitta del ’47-’48 aveva condotto all’indipendenza dello Stato ebraico ed era all’origine del colpo di stato dei “liberi ufficiali”, guidati dal generale Naguib e dal colonnello Nasser, che nel ’52 avevano messo fine alla monarchia e cacciato re Faruk. E nel ’56 non c’era stata una rivincita. Era sotto la pressione americana che gli israeliani, intervenuti con la spedizione franco-inglese (dopo la nazionalizzazione del canale di Suez), avevano dovuto ritirarsi dal Sinai. Tra i due grandi paesi arabi, Egitto e Siria, c’era una gara per dimostrare la disponibilità ad affrontare lo Stato ebraico. La manifestavano alimentando un’accanita propaganda anti-israeliana e abbandonando psi a una gesticolazione che era la mimica di una guerra. Al momento gli scontri erano limitati, ma destinati a condurre col tempo a un vero conflitto. La questione dei profughi palestinesi, cacciati o fuggiti dalle loro case, era sentita a livello popolare, ma in quel periodo le organizzazioni palestinesi non erano tenute in grande considerazione dai governi arabi. Avevano scarso peso.

Il 7 aprile 1967 un incidente banale al confine siro-israeliano provocò una battaglia aerea all’altezza delle alture del Golan. Sei Mig-21 furono abbattuti e Damasco si sentì ferita nel prestigio e minacciata in seguito alle dichiarazioni di Rabin, allora capo di stato maggiore dell’esercito israeliano. I siriani denunciarono l’arrivo di truppe israeliane al confine e i sovietici loro alleati diffusero la notizia, informando con toni allarmati il Cairo. Nasser non voleva impegnarsi in una guerra. Sapeva di non essere preparato. Nel ’56 l’avevano salvato gli americani ordinando a inglesi, francesi e israeliani di ritirarsi dal Canale di Suez. Consentendogli così di vantare una vittoria politica se non militare, e di ribadire l’espropriazione di quella via d’acqua d’importanza strategica, scavata nel secolo precedente. Ma questa volta gli Usa erano più che mai al fianco di Israele e lui, Nasser, aveva intensificato, come alternativa obbligata, il rapporto con l’Urss. Dalla quale aveva ottenuto la costruzione della diga di Assuan, dopo il rifiuto americano.

La crisi mediorientale era così diventata un capitolo della guerra fredda tra le due superpotenze. Nasser non pensava nella primavera del ’67 a un conflitto aperto con Israele, anche perché parte del suo esercito, forse la migliore, si trovava nello Yemen da anni, dove combatteva a fianco dei repubblicani in una guerra civile. Ma giocò con sfrontatezza e con grande rischio la carta della provocazione. Concentrò numerosi reparti nel Sinai, al confine con Israele, al fine di costringerlo ad allentare la pressione lungo la frontiera siriana. Era un modo per dimostrare il suo impegno con Damasco. Ma per dispiegare l’esercito nel Sinai il rais del cairo fu costretto a sfrattare dalla penisola le forze dell’ONU sul posto da dieci anni, con il compito di interporsi tra i rivali.

La destra e il sionismo.

Gli israeliani furono sorpresi dall’azione egiziana e dalla partenza dei caschi blu il giorno in cui celebravano l’anniversario dell’indipendenza. Nasser prese un’altra decisione che aumentò l’allarme nello Stato ebraico: proibì il passaggio delle navi israeliane negli stretti di Tiran, tra il golfo di Aqaba e il mar Rosso, e quindi indispensabili, o addirittura vitali ai paesi della zona. Il gesto di Nasser fu interpretato come un decisivo passo verso la guerra. Mentre lui contava sugli americani, sperando che frenassero, come nel ’56, gli israeliani ed evitassero che la crisi sfociasse in un conflitto. Questo suo calcolo risultò con chiarezza nella sua ultima conferenza stampa, quando gli appelli agli Usa furono ripetuti e decifrabili. Noi che l’ascoltavamo capimmo il messaggio in cui si alternavano spavalderia e tentativo di seduzione. La manovra non riuscì.

A Tel Aviv fu formato un governo di unione nazionale, di fatto un governo di guerra, con Moshe Dayan alla Difesa e Menachem Begin come ministro senza portafoglio, rappresentante della Destra per la prima volta ammessa nell’esecutivo dominato dalla Sinistra. Levi Eshkol non era un primo ministro bellicoso e come garanzia, per addentrarsi in un conflitto, voleva un decisivo appoggio americano. Lasciò comunque a Dayan la responsabilità della guerra, con Rabin come capo di stato maggiore. Ai due generali non restava che aprire le ostilità. Vale a dire anticipare un’iniziativa dell’Egitto e dei suoi alleati, ma anche cogliere l’occasione per sbaragliare i numerosi e rumorosi nemici ai confini. L’intensificarsi delle azioni armate palestinesi, che nel ’64 avevano creato l’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina), e l’arrivo al potere a Damasco del partito Ba’th (Rinascimento) particolarmente aggressivo nei confronti di Israele, erano stati considerati segnali allarmanti. Il dubbio sulle reali intenzioni di Nasser non è mai stato del tutto dissipato. Con le sue decisioni, trascinato dalla competizione (su chi era più anti-israeliano) tra gli arabi, egli preparò comunque la trappola in cui sarebbe caduto.

 

                                                                     Bernardo  Valli