La guerra di Boris Godunov
La lezione di Puskin sulla tragedia del potere zarista
Anzitutto la storia. Mosca 1584: muore Ivan il Terribile, lo zar spietato che a colpi di cannone ha liberato la Russia dal giogo mongolo. Ha due figli, Dmitrij, di appena tre anni, avuto dall’ultima moglie, e il ventisettenne Fedor, che gli succede: tutt’altra tempra, fragile, malaticcio, molto pio, del tutto inetto al governo. Gli è accanto il fratello della moglie, Boris Godunov, cortigiano abile, astuto, saggio: diventa reggente, consolida il proprio potere e per quindici anni guida il Paese, inaugurando un periodo di relativa tranquillità. Sette anni passano senza traumi: nel 1591 improvvisamente muore con la gola squarciata da un coltello l’altro erede, lo zarevic Dmitrij. Incidente, dovuto all’epilessia di cui il ragazzo soffre? Omicidio? Prende il sopravvento questa seconda ipotesi e subito si sparge la voce che il mandante sia Boris. Le cronache del tempo avvallano l’accusa, sebbene la storiografia recente abbia dimostrato che ben pochi vantaggi Boris avrebbe ricavato dall’assassinio, dato che Fedor era ancora in vita e avrebbe potuto avere figli.
1598: nuovo colpo di scena: muore il debole Fedor, di figli non ne ha avuti, dunque con lui si estingue la dinastia al potere e si apre il problema della successione. Comincia quella che gli storici definiscono l’epoca dei torbidi: lotte, congiure, intrighi, guerre. Al Cremlino le grandi famiglie dei boiari si scontrano, tutti sono contro tutti, ma il favorito resta Boris, che alla fine, con molta riluttanza, accetta la corona e diventa il nuovo zar. Passa qualche anno e un bel giorno alla corte polacca compare un misterioso personaggio che dichiara di essere lo zarevic sopravvissuto e si dichiara l’erede legittimo del trono moscovita. Un impostore? Un commediante? Sicuramente, ma poco importa: i polacchi, da sempre avidi di estendere il proprio potere sul territorio russo, colgono l’occasione, forniscono al nuovo pretendente un esercito e marciano su Mosca. Ottengono un insperato successo, anche perché la popolarità di Boris è calata, il popolo passa dalla parte del falso Dmitrij. Improvvisamente muore Boris e l’usurpatore sale sul trono moscovita. Regna per pochi mesi, viene rovesciato e ucciso dai boiari che mettono sul trono Michail Romanov, il primo della dinastia che regnerà fino al 1917 (l’ultimo zar, Nicola II, verrà fucilato con l’intera famiglia dai bolscevichi).
Un magnifico soggetto tragico.
La storia del falso Dmitrij si diffonde rapidamente in Europa e attira scrittori, romanzieri, drammaturghi, da Lope de Vega che già nel 1617 scrive un dramma sull’episodio fino a Schiller il cui “Demetrio” è del 1804. Ma il più noto è senza dubbio Aleksandr Sergeevic Puskin, poeta precocissimo, riconosciuto fin dal liceo come una delle voci liriche più originali del suo tempo. Curioso di tutto, lettore onnivoro, scopre nel 1824 la “Storia dello Stato russo” di Nikolaj Karamzin, primo studioso che ricostruisce i fatti risalendo alle fonti: in quel volume descrive proprio l’epoca dei torbidi e Puskin ne è affascinato.
Decide di scrivere una tragedia su Boris Godunov, lo zar assassino (in questo condivide l’opinione di Karamzin che non ha dubbi sulla sua colpevolezza). La scrive in pochi mesi, è già pronta alla fine del 1825, ma nel dicembre di quell’anno muore lo zar Alessandro I, il vincitore di Napoleone, liberale all’inizio, fortemente reazionario alla fine dei suoi giorni. Da tempo la società russa è in fermento. Gli echi della Rivoluzione francese hanno acceso gli animi, intellettuali e aristocratici mal sopportano l’immobilismo, il peso sempre crescente dell’autocrazia; le prime società segrete si riuniscono per elaborare richieste di garanzie costituzionali. La morte dello zar, l’incertezza nella successione scatenano la rivolta: il 25 dicembre alcuni battaglioni guidati da alti ufficiali scendono in piazza. Ancora non nominato ufficialmente, il nuovo zar Nicola I affronta la situazione con pugno di ferro, disperde i battaglioni, arresta i capi della rivolta, ordina un processo che finisce con cinque condanne a morte e decine e decine di esili in Siberia: tra i condannati, i più bei nomi dell’aristocrazia e dell’intelligencija pietroburghese e moscovita.
Puskin, da tempo sotto controllo per i suoi versi che inneggiano alla libertà, costretto fin dall’inizio dell’anno agli arresti domiciliari in una tenuta del padre, non è direttamente coinvolto nella rivolta ma tutti i congiurati sono suoi amici: viene convocato, interrogato, rilasciato alla condizione che tutto ciò che scrive venga sottoposto a una censura personale dello zar. Naturalmente il suo Boris, storia di uno zar che sale al trono grazie a un omicidio, è la prima opera a essere incriminata, troppe associazioni con l’attualità: categorico divieto di pubblicazione, di rappresentazione, addirittura di lettura pubblica o privata. Passano sei anni prima che ne escano frammenti su una rivista, quarantacinque prima che ottenga il nullaosta per la rappresentazione in teatro.
Il fantasma dell’ucciso.
“Boris Godunov” è una grande tragedia sul potere. Un potere che nasce dal sangue: e sangue chiama sangue. Chiama fallimento, distruzione. E’ la grande lezione che Puskin trae dalla storia di Boris. Proprio questo gli interessa: il momento di crisi, di conflitto, di involuzione, di decadenza. Boris non è amato dal popolo, che prima lo osanna ma poi lo maledice per la sua rigidità, lo accusa di nefandezze, di ingiustizie, di catastrofi di cui non è responsabile. Non è amato dai boiari che lo ritengono un astuto approfittatore, un ambizioso intrigante. E soprattutto è divorato dal rimorso dell’omicidio che lo ha portato sul trono. L’usurpatore, prima che personaggio reale, è un fantasma oscuro che lo insegue, un lacerante grido della coscienza, sorda voce di una colpa che lo assilla, lo sconvolge, non gli dà tregua, lo annienta. “Sento avvicinarsi tuono celeste, sciagura… l’anima brucia, il cuore si riempie di veleno, negli orecchi martella il rimorso, mi assilla la visione di bimbi insanguinati… vorrei fuggire, ma dove? Sì, misero è colui che ha la coscienza impura”.
Di fronte a lui si erge il monaco Pimen, potente nella sua integrità, limpido nella sua fede, candido nella sua rettitudine: nella solitudine della sua cella nel Monastero delle Vergini scrive la verità sul delitto, racconta la sua testimonianza viva sulla brutalità compiuta. “Oh, sciagura terribile, senza pari! Abbiamo provocato lo sdegno di Dio, abbiamo peccato prendendoci a sovrano un regicida”. Nella sua tragedia Puskin prende a modello le cronache shakespeariane, ignora ogni regola compositiva, manda all’aria le unità di tempo, di luogo, di azione, spazia dal 1598 al 1605, sposta i suoi personaggi dalla piazza del Cremlino al Monastero delle Vergini, dalla corte polacca ai campi di battaglia: ne esce un grandioso affresco di un’epoca tragica, impetuosa, sconvolta.
“Piangi, popolo russo”
Musorgskij sceglie di comporre il suo Boris musicale intorno al 1869-70, appena la censura toglie il lungo veto al testo puskiniano: si appassiona al nucleo centrale della tragedia, al percorso interiore di Boris più che alla sua vicenda storica, affonda nei suoi tormenti più che nei suoi intrighi, nei suoi deliri più che nelle sue battaglie: nella prima versione dell’opera si concentra sull’ombra ossessiva dello zarevic ucciso che aleggia ovunque. Una versione tesa, cupa, asciutta, di un’incredibile intensità musicale, che tuttavia non piace alla Commissione preposta alle scelte dei Teatri Imperiali: com’è possibile, si domandano, un’opera senza un personaggio femminile, senza una storia d’amore, senza un balletto? E viene bocciata. Il compositore ne scrive una seconda versione molto più ricca di episodi, aggiunge il cosiddetto atto polacco con tutto ciò che la Commissione richiede, belle donne, danze , amori. Ma alla Scala il maestro Chailly ha preferito la prima, più forte, più concisa, più drammatica, che si chiude con la morte di Boris. Una scena di straordinaria potenza. Lo zar, nel congedarsi dalla vita, cerca la serenità che non ha mai conosciuto: “Tutto è finito – gli occhi miei si oscurano… E’ suonata l’ora, lo zar si fa monaco… la buia tomba sarà la mia cella”.
Sangue chiama sangue, si diceva. La Russia di Boris non ha pace, paga il fio delle violenze del suo zar. Solo la Russia di Boris? Non solo quella, non solo la Russia di 400 anni fa. L’autocrazia è nel suo Dna, è l’unica forma di governo che quel popolo ha conosciuto e conosce, da sempre. Lo zarismo ha pagato caro l’ottusità, l’incapacità di dialogare, di ascoltare, mediare, condividere il potere; è andato a capofitto verso la sua rovina senza domandarsi mai se c’era un modo diverso di gestire la cosa pubblica. E la storia recente ci insegna che dai bolscevichi della prima ora ai vari segretari generali di partito, Stalin e successori fino a Putin, ben poco è cambiato.
Puskin chiude la sua tragedia con una didascalia che lascia senza fiato: “Il popolo tace”. Tace quando viene incitato ad applaudire l’ennesimo tiranno che disporrà di lui come più gli piacerà, tace perché non c’è dissenso possibile, non c’è alternativa possibile. Il grande monito dell’opera di Musorgskij è affidato a uno dei personaggi più toccanti, un folle, uno jurodivyj, l’innocente mendico che ha il coraggio di fronte a Boris di rifiutargli una preghiera “perché non si può pregare per il re Erode, la Madonna non vuole”. Non si può pregare per nessun re Erode. Ed è il folle che pronuncia la straziante profezia finale sul tetro destino del suo popolo: “Sgorgate, sgorgate lacrime amare. Sventura, sventura sulla Russia! Piangi, piangi popolo russo!”.
Fausto Malcovati
Questo articolo è stato pubblicato il 20 novembre 2022 ne “La Lettura”, supplemento del Corriere della Sera, alle pp. 57-58.