La madre Russia con Ivan Bunin diventa matrigna.
La rivoluzione d’ottobre, nonostante tutti i suoi presagi culturali e sociali, colse di sorpresa Bunin. Furono “giorni maledetti”.
“Ciò che in buona sostanza caratterizza le rivoluzioni è una rabbiosa smania di messinscena, di spettacolo, di artificiosità, di farsa. Si ridesta la scimmia annidata in ogni essere umano”. Quando Ivan Bunin annota queste amare e veritiere riflessioni, nell’aprile del 1919, è ancora in Russia, a Odessa, da dove fuggirà per sempre in Francia all’inizio dell’anno successivo. I bolscevichi spadroneggiano nella città e nel suo porto: nel 1920 la guerra civile potrà dirsi terminata con il trionfo di Lenin e dell’Armata rossa.
Bunin (Voronez 1870 – Parigi 1953) è un uomo maturo, sulla soglia dei cinquant’anni, che osserva impotente la catastrofe morale e materiale iniziata nell’ottobre del 1917. Cresciuto all’ombra di Cechov, al quale dedicherà uno struggente libro di ricordi, ha già scritto alcuni dei suoi racconti più memorabili. Così come Gogol’ aveva trovato a Roma il luogo più propizio per evocare la patria lontana, iniziando a scrivere le “Anime morte”, così Bunin, infaticabile viaggiatore, durante le sue lunghe residenze a Capri componeva, con il suo inconfondibile stile pittorico, le storie di servi della gleba, ufficiali, studenti russi il cui valore nel 1933 fu solennemente sancito dal Nobel per la letteratura.
La rivoluzione d’Ottobre, nonostante tutti i suoi presagi sociali e culturali, colse lo scrittore, di sangue aristocratico, di sorpresa. Con una parte di sé, continuò a sperare in qualche tipo di restaurazione zarista fino a che fu ragionevole farlo, poi prese la via dell’emigrazione. Ma a leggere le considerazioni e le minute osservazioni di vita quotidiana consegnate a “Giorni terribili”, il diario tenuto a Mosca nel 1918 e ripreso a Odessa l’anno successivo, pubblicato in volume solo nel 1936, si capisce bene che Bunin non ha nessuna vera fiducia nel corso degli eventi storici e nella possibilità di modificarlo.
La frattura della rivoluzione non è di quelle che si ricompongono: il vecchio mondo è andato in frantumi in modo irrimediabile, e solo ora che non c’è più gli appare in tutta la sua fragile bellezza. Come Marina Cvetaeva, come Vladimir Nabokov, anche Bunin è psicologicamente, moralmente, istintivamente refrattario alle masse, alla loro ignobile ebbrezza vittoriosa, al culto del capo che ogni epoca di disordini fatalmente comporta. E’ ancora lecito definire reazionari o conservatori questi supremi artisti, e tanti altri che presero la via dell’esilio, furono uccisi o morirono letteralmente di fame? A cent’anni dagli avvenimenti del 1917-1920, siamo in grado di comprendere meglio come quella di Bunin sia solo in apparenza, o in modo secondario, una presa di posizione d’ordine ideologico. La cosa che più lo ferisce è l’agghiacciante rozzezza di una propaganda rivoluzionaria che produce in uguale misura conformismo e criminalità, mentre gli slogan sul radioso avvenire sovietico tolgono al linguaggio qualunque presa sulla realtà.
Bunin non si stanca di annotare le idiozie dei giornali, dei manifesti affissi per strada, delle dicerie incontrollabili che si propagano passando di bocca in bocca per essere dimenticate il giorno dopo. Scrive di notte, alla luce di fioche lampade di fortuna, nascondendo quelle pagine di diario, che potrebbero costargli la vita, in modo così ingegnoso che al momento di lasciare Odessa una parte rimarrà seppellita per sempre da qualche parte.
Come viene naturale a un narratore, percepisce la catastrofe morale nelle fisionomie, negli abiti, in un modo di comportarsi che ha le caratteristiche evidenti della pazzia (“Su questi volti non vi è traccia di normalità, di semplicità. Quasi tutti sono ripugnanti, spaventosi per la stupida malvagità che trasudano, una sorta di minacciosa e pecoresca sfida a tutto e a tutti”). Ma il colmo del disprezzo è riservato ai leader, sia politici che letterari: indimenticabili i ritratti di Lenin e soprattutto di Majakovskij, che con “la sua idiota sincerità di giudizio” e l’imperdonabile colletto della giacca sollevato ricorda a Bunin uno di quei tipi “che abitano in squallide camere d’albergo e la mattina, mal rasati, s’incamminano verso il cesso”.
Non è possibile non pensare, leggendo “Giorni maledetti”, al fatto che Bunin, che trascorse il resto della sua lunga vita in Francia, tra Parigi e Grasse, quando arrivò il momento combatté contro il nazismo con lo stesso coraggio, con lo stesso amore per la verità che gli resero impossibile sopportare la vita nella Russia sovietica. Come George Orwell, come Simone Weil e pochi altri spiriti liberi, Bunin sapeva che i volti del totalitarismo e della demagogia sono tanti, ma la violenza, l’ipocrisia, la decadenza morale sono pressoché identiche, e sempre pronte a riaffacciarsi all’orizzonte indossando nuove maschere. Oggi riconosciamo nelle opere di questi solitari e disperati nemici del conformismo l’eredità più preziosa che ci ha trasmesso il loro secolo con tutte le sue macerie ancora fumanti.
Emanuele Trevi
Questo articolo è stato pubblicato ne “La Lettura”, supplemento culturale del Corriere della Sera, del 6 giugno 2021, a pag. 29
Bibliografia: Racconti d’amore (Bur, 1987), L’affare dell’alfiere Elaghin (Sellerio 1992), A proposito di Cechov (Adelphi, 2015), L’ombra di Huma. Poema di un viaggiatore (Lemma Press, 2018), Il villaggio (Corbaccio, 2019), Il signore di San Francisco e altri racconti (Adelphi, 2020), Fratelli (Adelphi, 2020).