In Cina e nel mondo la chiamavano Rivoluzione Culturale
Un cineasta cinese, che ai tempi era uno scolaro, racconta come iniziò la campagna maoista. “Una festa”. Poi vennero i controlli, le delazioni, le violenze. E la gente cominciava a sparire…
Presento, su questo tema, due contributi, diversi tra loro ma complementari. Il primo è un’intervista del giornalista Gabriele Battaglia allo scrittore documentarista cinese Xu Xing che aveva dieci anni nei giorni che videro l’inizio tumultuoso dei movimenti della rivoluzione culturale e che fu protagonista e vittima di quegli sconvolgimenti. Il secondo è un commento di Bernardo Valli, noto commentatore e inviato di “Repubblica”, anche lui testimone diretto dei fatti. I due contributi sono apparsi nel “Venerdì” di “Repubblica” il 6 maggio 2016, pp. 32-6.
Gennaro Cucciniello
Qual è il confine tra bene e male nella mente di un bambino? “Non ho nessun ricordo ma gli adulti sentivano già che qualcosa stava per succedere. I giornali avevano cominciato a criticare tante opere letterarie. La voce dell’annunciatore alla radio era spaventosa, faceva rizzare i capelli. A scuola si avvertiva che gli insegnanti avevano sempre più paura degli studenti”. Xu Xing è scrittore e documentarista. Ha sessant’anni, è nato nel 1956. Ne aveva dieci quando cominciò la Rivoluzione Culturale. “tutto partì da lì, dalle scuole” racconta. “Poi iniziarono le critiche contro le “erbacce” nel cinema, nella letteratura, nella cultura. Nel ’66 non eravamo più intimoriti dagli insegnanti. Poi comparvero sempre più libri di propaganda, ricordo “Come fu temprato l’acciaio” di Nikolaj Ostrovskij. E poi ricordo la storia delle diapositive. A scuola avevamo la sala dove portavano tutte le classi, a turno, per vedere immagini della storia cinese. Visto che in quel periodo era tutto allo sbando, la stanza era stata devastata e le diapositive erano tutte sparse per terra. Noi potevamo anche non andare a scuola, ma con i ragazzi più grandi entravo in quella sala e facevamo delle pile di diapositive, poi un buco nella pellicola e le buttavamo sopra il fuoco, così scoppiettavano e noi stavamo ad ascoltarle. Prima, era stato tutto così serio. Ci mettevamo in fila per andare a vedere le diapositive. Provavo il gusto di distruggere. Dopo, crescendo, ho capito che era come drogarsi”, dice Xu Xing.
“A parte Mao, tutto era considerato feudale e revisionista, si poteva spaccare qualsiasi cosa. Per un ragazzino era un onore partecipare alla devastazione. Dalla terza elementare si poteva diventare membri dei Giovani Pionieri, ma io non ero mai stato ammesso perché avevo sempre l’insufficienza in matematica. Con la Rivoluzione Culturale cancellarono questa norma ed ebbi la mia rivincita. Diventammo tutti Guardie Rosse, tutti alla pari, eravamo sempre più drogati, dovevamo fare la rivoluzione”.
All’epoca, lui abitava “in un compound abbastanza borghese. Perché mia madre era medico. Lì vivevano dottori e intellettuali. Ci viveva anche un falegname che chiamavamo “il capo Wang”, era il più umile e casa sua era la più vicina al gabinetto. All’improvviso diventò il più potente di tutti. Ogni mattina guidava un piccolo corteo interno di medici e intellettuali portando un ritratto di Mao, quelli erano costretti a seguirlo gridando slogan maoisti e inchinandosi di fronte all’immagine. In quel posto non successero cose troppo terribili: le Guardie Rosse facevano delle perquisizioni, ogni tanto chiudevano qualcuno dentro un “sanlunche” (veicolo a tre ruote) e lo menavano. Tutti erano però terrorizzati che qualcosa di molto più grave potesse succedere”.
Suo padre “era un militare, lo vedevo tutte le sere scrivere disperatamente delle lettere. Probabilmente erano autocritiche, perché lui era figlio di un proprietario terriero e veniva dal nord-est. Era andato a scuola e si era formato sotto l’occupazione giapponese. Poi sparì, mi dissero che probabilmente doveva essere a guardia di qualcosa d’importante, ma questa storia non me l’hanno mai raccontata bene neppure i miei fratelli maggiori. Comunque c’erano sempre più case vuote, perché parecchi venivano spediti in campagna a rieducarsi. Così noi ragazzi entravamo negli appartamenti abbandonati per fumare e divertirci. Poi, nel ’67 ci spedirono tutti nel Gansu, compresi me e mia madre. In città potevano stare solo i neolaureati, tutti gli altri medici dovevano andare a curare i contadini, perché già nel 1965 Mao aveva fatto il discorso che attaccava la sanità pubblica, accusandola di occuparsi solo delle classi urbane privilegiate e non della popolazione rurale. Così erano nati i “medici scalzi” nelle campagne.
Quando capì che c’era qualcosa di storto? “La propaganda diceva che bisognava dubitare di tutto e distruggere tutto, così un giorno chiesi a mio padre: “Ma allora si può dubitare anche di Mao Tse-Tung?” Lui diventò verde in faccia e mi diede una botta in testa, poi proclamò: “Mao è l’arma per dubitare e distruggere tutto”. Insomma, Mao voleva fare tabula rasa per riscrivere tutto”.
Continua il regista: “L’opera teatrale “La destituzione di Hai Rui”, scritta da Wu Han, era diventata il male assoluto, perché si diceva fosse un attacco indiretto a Mao. La critica contro quest’opera aveva dato il via alla Rivoluzione Culturale ed era stata avviata da uno che sarebbe stato della Banda dei Quattro, Yao Wenyuan. In giro si continuava a sentire il suo nome, a me suonava effeminato e pensavo che fosse una donna. Lo dissi a un altro bambino. Non l’avessi mai fatto. Il giorno dopo, mia madre fu convocata per una seduta di autocritica. Quando tornò a casa era furente e mi disse: “Le cose che non capisci, tienitele per te”.
Poi, i “tour organizzati”: “Quando andammo in Gansu ci vollero quaranta ore solo per arrivare a Xi’an. Fu il viaggio in treno più lungo della mia vita, guardavo dal finestrino e vedevo tanta miseria, mentre ci dicevano che noi cinesi eravamo i più fortunati del mondo. A quel punto già non ci credevo più. Però nessuno fu in grado di spiegarmi cosa stesse accadendo e questo non fece che aumentare la mia sfiducia. Mi è rimasto dentro, fino a oggi. Rividi mio padre nel 1969, quando venne a trovarci nel Gansu. Io e mia madre tornammo a Pechino solo nel 1971, ma quella è già un’altra storia”.
Dopo il ritorno a Pechino, Xu Xing prese una cotta per una ragazzina e le scrisse una lettera d’amore anonima. Lei si spaventò e riferì tutto a un insegnante, che riuscì a scoprire l’autore. Xu Xing fu sbattuto in galera in quanto “controrivoluzionario”. Aveva sedici anni. Ha raccontato questa storia, insieme a quelle di altre persone passate attraverso il “periodo catastrofico” (definizione ufficiale) nel suo primo film : “Wo de Wenge Biannianshi” (“Una cronaca della mia Rivoluzione Culturale”, 2008). Ci è ritornato su con “Zuixing Zhaiyao” (“Il sommario dei crimini”, 2014), la storia di una comunità di contadini perseguitati durante quel periodo.
Ma non aveva ancora raccontato a nessuno l’inizio di tutto, quando la Rivoluzione era “una grande festa”.
Gabriele Battaglia
Quell’utopia che fece milioni di morti
Un giorno, a Pechino, avevo lasciato per distrazione due o tre monete occidentali sul comodino, nella camera da letto. Ero ormai lontano dall’albergo, quando fui raggiunto sul marciapiede da una giovane donna con quegli spiccioli nel palmo della mano. Era ansiosa di darmi quel che avevo dimenticato. Era capitato anche ad altri. Si trattava quindi di un rito, o quasi, per dimostrare ai rari visitatori stranieri che nella Repubblica popolare, impegnata nella “grande rivoluzione culturale proletaria”, l’onestà era meticolosa. E soprattutto che la dignità impediva di ricevere doni, sia pure casuali e di valore insignificante, dai capitalisti. Mezzo secolo dopo quello zelo tanto esibito, eccessivo, può apparire ridicolo. Lo era anche allora. Ma sul momento potevi avere l’impressione di assistere, come si diceva, alla nascita di un “uomo nuovo”. I giovani del ’68 parigino vedevano nelle guardie rosse cinesi un modello.
All’uscita da un grande magazzino, a Nanchino, fui quasi soffocato da una folla che vedeva dopo anni un occidentale. Un manipolo di guardie rosse con un megafono disperse a stento la gente, spiegando che non ero un americano come credevano. Così l’interesse per la mia persona si attenuò. Quel piccolo episodio dimostrava l’esplosivo orgoglio cinese di quei giorni, espresso nel desiderio di un confronto simbolico con il supposto avversario americano e, al tempo stesso, anzitutto, la curiosità per l’insolita apparizione di uno straniero.
A Shanghai, uscito dall’Hotel della Pace di primo mattino, svoltando dal Bund sulla via Nanchino, scoprii di essere seguito da un migliaio di persone silenziose che avanzavano emettendo un fruscio, simile al batter d’ali di un grande stormo di uccelli, dovuto allo struscio delle calzature di tela grezza sul selciato. Tutti, donne e uomini, indossavano il monoabito, e mi guardavano come se fossi un marziano. Non c’era ostilità né simpatia nei miei confronti. Ero una presenza che forse annunciava qualcosa di nuovo, dopo anni che nei pressi del porto fluviale si vedeva di sfuggita soltanto qualche raro marinaio dei mercantili arrivati sull’Huangpu. Insomma, uno straniero a passeggio da solo nel cuore della metropoli sollevava qualche interrogativo. Presi coraggio, mi voltai per guardare in faccia quella massa di indecifrabili, pacifici, curiosi e, aiutato da una donna spuntata dalla folla e offertasi come interprete, cominciai a porre delle domande. Le risposte suonarono come slogan. O giaculatorie. Ogni individuo dava l’impressione di essere ascoltato da Mao come lo si è da Dio.
Gli veniva dedicato un vero culto. Davanti al ritratto di Mao, più volte al giorno, i giovani facevano un rapporto su quel che era accaduto, su quel che pensavano, su quel che si proponevano di fare; ed esprimevano, a volte con danze, la loro fedeltà. Ho ancora nella mia biblioteca i libri che servivano a noi china-watchers, osservatori del maoismo, per interpretare il linguaggio della rivoluzione culturale. In ogni frase pronunciata a Pechino, in ogni parola d’ordine diffusa nel Paese, trovavamo un riferimento alla millenaria storia cinese, e quel nesso col passato remoto era la chiave per decriptare il presente. Quei testi, relegati negli scaffali meno accessibili e più polverosi, sono adesso cimeli di un’epoca remota ed eccentrica. Meno esaltante e più tragica di quel che appariva. Un’operazione politica, attuata come uno spettacolo destinato a una grandiosa ribalta, nel Paese più popolato del mondo, si prestò a tante interpretazioni, quasi si fosse trattato di un evento da decifrare come un enigma. Eppure era un’autentica manovra di potere, che fece milioni di morti.
La mobilitazione delle masse al fine di ottenere il loro sostegno e la loro partecipazione attiva a un obiettivo del Partito non era una specialità maoista. I sovietici ne erano stati i pionieri ma non vi avevano mai ricorso con tanta frequenza e nelle stesse dimensioni. Mao era diventato un maestro nell’arte dei grandi movimenti popolari dei quali si serviva per controllare e rettificare la linea dello stesso Partito. Se quei movimenti fossero stati promossi dalla base non sarebbe stato del tutto fuori posto attribuirli a qualcosa di simile a una democrazia diretta, reale o spontanea. In Cina era tuttavia il capo supremo del Partito e guida della rivoluzione a promuoverli. Il movimento dei Cento Fiori prima e poi quello del Grande Balzo erano stati imposti da Mao per spingere i compagni dell’apparato del partito a superare i loro traguardi, a suo giudizio, troppo modesti. La rivoluzione culturale fu per Mao l’estrema iniziativa per contenere e annientare l’opposizione provocata dal clamoroso fallimento del Grande Balzo. Che, promosso per industrializzare il Paese, aveva fatto in tre anni una trentina di milioni di morti, in seguito alla crisi delle Comuni agricole. Dove si era cercato, fra l’altro, di fondere l’acciaio in forni rudimentali, trascurando il lavoro nei campi.
Giudicandolo responsabile del disastro, l’apparato del partito stava ridimensionando il suo potere. Mao reagì opponendo il movimento al sistema. La rivoluzione culturale era la sua rivincita. Usando l’utopia, riuscendo addirittura a incarnarla, mobilitò i giovani e li scagliò contro i notabili del partito, contro molti di coloro che rappresentavano l’autorità nelle scuole, nei ministeri, negli istituti culturali. La stessa famiglia fu colpita quando i figli attaccarono i genitori. E il Paese fu sommerso dai giovani che dilagavano nelle campagne, creando lo studente-contadino. Il Grande Timoniere passò in rivista sulla Tien’anmen le guardie rosse osannanti, che vedevano in lui la sola autorità. Ma poi anche le guardie rosse si spaccarono in fazioni e cominciarono a combattersi tra di loro, dicendosi tutti i veri interpreti del “libretto rosso” di Mao, dove erano condensati i comandamenti della rivoluzione culturale. Dopo la fase trionfale della rivolta giovanile, dopo il breve potere della “banda dei quattro”, estremi difensori della rivoluzione ormai stanca, negli anni Settanta le rimaste strutture del Partito ripresero il sopravvento. Lo stesso Mao, rinchiuso nelle sue residenze, non si oppose all’uso dell’esercito per far rientrare nei ranghi le guardie rosse. La sua rivoluzione culturale era alla fine fallita.
Bernardo Valli