La seconda guerra mondiale è durata quindici anni, dal 1931 al 1945.

1931-1945. Tanto è durata la Seconda guerra mondiale, ben quindici anni.

Lo storico inglese Richard Overy spiega perché anticipa l’inizio del conflitto all’invasione giapponese della Manciuria.

Ne “La Lettura” dell’11 dicembre 2022, alle pp. 8-9, supplemento del Corriere della Sera, lo storico Fulvio Cammarano intervista Richard Overy in occasione dell’uscita in Italia dell’ultimo saggio nel quale lo storico inglese anticipa al 1931 l’inizio della Seconda guerra mondiale.

 

Richard Overy è uno tra i maggiori specialisti della Seconda guerra mondiale. E’ appena uscito in Italia da Einaudi un suo lavoro complessivo, “Sangue e rovine”, che ripercorre le vicende del conflitto con grande attenzione anche al teatro di operazioni del Pacifico. Proprio questo approccio lo induce a cominciare la narrazione molto prima del 1939, dell’invasione tedesca della Polonia considerata solitamente il punto di avvio della guerra. La sua ricostruzione si apre nel settembre del 1931, quando le forze giapponesi occuparono la regione cinese settentrionale della Manciuria. Da questa scelta siamo partiti per approfondire con l’autore i contenuti del libro.

A proposito di cronologia del conflitto, lei, anche se si dichiara d’accordo con la tesi secondo cui vi sarebbe stata una “guerra dei trent’anni” dal 1914 al 1945, sembra voler introdurre un’autonomia cronologica per quanto riguarda la Seconda guerra mondiale, collocandola nel periodo 1931-1945 a partire dall’invasione giapponese della Manciuria. Se è vero che la crisi del 1929 è stata determinante per favorire l’ascesa al potere di Hitler, è anche vero che instabilità politica, fragilità economica e fascismo come autoritarismo con aspirazioni totalitarie facevano già parte dell’esperienza successiva alla Prima guerra mondiale. Che ne pensa?

Non c’è dubbio che una crisi globale, e non solo una guerra dei trent’anni, si è estesa dalle guerre dell’inizio del XX secolo ai decenni successivi al 1945. Questo è stato principalmente il risultato della competizione imperiale e del clima di insicurezza, a fronte del crescente nazionalismo in Asia, Africa e Medio Oriente che ha successivamente condotto al mondo degli Stati-nazione nel XXI secolo. Personalmente sostengo che a scardinare completamente l’ordine globale sia stata la crisi economica del 1929-1932, che ha spinto un’agenda nazionalista radicale in Italia, Giappone, Germania a favore dell’acquisizione di un maggiore numero di territori (per l’insediamento, le risorse, eccetera) e della creazione di un proprio blocco economico autarchico, che ciascuno potesse dominare, per eguagliare il blocco della sterlina, del franco e così via. In tutti e tre i Paesi si pensava che questo sarebbe stato il futuro dell’economia mondiale e che solo un impero territoriale più grande lo avrebbe reso possibile, come gli imperi di Gran Bretagna, Francia e Paesi Bassi. Da qui deriva la data di partenza fissata al 1931, quando la prima delle potenze revisioniste, insoddisfatte dell’esito della Prima guerra mondiale, si lanciò in una violenta espansione territoriale.

Il suo è uno dei primi libri sulla Seconda guerra mondiale in cui uno storico non italiano mette in primo piano il ruolo del nostro Paese. C’è un motivo per cui nelle due guerre mondiali l’italia viene sempre trascurata? Dipende solo dalla conoscenza linguistica o è frutto di uno stereotipo che tende a ridurne la rilevanza?

Ho cercato di dare uguale spazio a ciascuna potenza dell’Asse, compresa l’Italia. Nella maggior parte delle storie generali di Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti, all’Italia non viene dato molto risalto. Ciò è dovuto in parte alla lingua, ma soprattutto, credo, al fatto che la prestazione militare dell’Italia in entrambe le guerre mondiali non è giudicata molto bene. In Gran Bretagna la campagna in Italia tra il 1943 e il 1945 è considerata importante per gli storici solo perché gli eserciti alleati stavano combattendo contro i tedeschi, non tanto contro gli italiani. Come ha sottolineato Nicola Labanca, le forze dell’impero britannico hanno impiegato tre anni per sconfiggere l’esercito italiano in Nord Africa, quindi l’Italia dovrebbe essere presa in considerazione più seriamente.

La “guerra dei trent’anni” è una guerra di imperi-nazione e dunque va letta, come lei suggerisce, dal punto di vista della lotta per l’ambizione imperiale. Si può dire che in quegli anni il nazionalismo non avesse altro modo di esprimersi se non come imperialismo?

Uno degli argomenti principali del mio libro è quello di vedere la crisi degli anni Trenta e Quaranta nei termini del nuovo imperialismo che si è sviluppato a partire dagli anni Settanta del XIX secolo, in concomitanza con l’ascesa della politica di massa e l’emergere del nazionalismo popolare. Un modo per definire la nazione era quello di possedere un impero, motivo per cui Giappone, Germania e Italia ne volevano uno per eguagliare le altre grandi potenze. L’idea di impero-nazione si è radicata alla fine del XIX secolo e ha creato una mentalità che è sopravvissuta fino agli anni del primo dopoguerra. I nazionalisti radicali in Italia, Germania e Giappone abbracciarono questo concetto, ma bisogna ricordare che l’impero era molto importante (e si espanse negli anni Venti) anche per Gran Bretagna, Francia, Paesi Bassi e Belgio. Il nazionalismo avrebbe potuto essere espresso in modo diverso, e in effetti lo fu in molti casi, ma resta il fatto che per le grandi potenze l’impero sembrava il modo legittimo di esprimere un senso di superiorità culturale e razziale che giustificava il controllo dei popoli assoggettati.

Concorda con l’idea che non furono le occupazioni territoriali in sé ad allarmare le tradizionali potenze imperialiste quanto il fatto che tali occupazioni apparvero l’espressione di una volontà di potenza che sembrava presentarsi senza limiti perché basata su una ideologia di primato su base razziale e ideologica?

Non c’è dubbio che le ambizioni territoriali dell’Asse fossero viste dagli altri imperi come un pericolo estremo per i loro interessi geopolitici, ma non credo che la differenza ideologica li preoccupasse tanto quanto il costo in termini di difesa degli imperi e degli interessi economici globali consolidati. Per le potenze dell’Asse era difficile capire perché i britannici e i francesi si opponessero così tanto al fatto che altri avessero un impero, dal momento che loro stessi disponevano di vasti territori coloniali. Fu l’aggressione territoriale contro Stati membri della Società delle Nazioni, non considerati un potenziale spazio coloniale, a spingere l’Occidente in prima battuta al contenimento e alla deterrenza, e successivamente alla dichiarazione di guerra.

Come ha scritto Robert Conquest, il Novecento è stato il secolo delle “idee assassine” e la Seconda guerra mondiale è stata sicuramente la guerra più ideologica mai combattuta nell’età moderna, dopo le guerre di religione del XVI-XVII secolo. A suo avviso quale fu il ruolo delle ideologie totalitarie nel determinare l’ampiezza, l’andamento e la ferocia di quel conflitto?

A mio avviso, al ruolo dell’ideologia come causa della guerra è stato dato troppo peso. E’ possibile convivere con ideologie rivali, come dimostrò la firma del patto tedesco-sovietico nell’agosto 1939. L’ideologia di entrambe le parti fu mobilitata in guerra per mantenere le popolazioni interne impegnate nel conflitto (ad esempio la Carta Atlantica  e le Quattro Libertà di Roosevelt), ma la lotta era in realtà volta ad annullare l’imperialismo territoriale delle tre potenze dell’Asse, potere a cui nessuna delle tre sarebbe stata disposta a rinunciare dopo averlo acquisito. Credo che il calcolo geopolitico fosse più importante delle differenze ideologiche. Altrimenti, come si spiegherebbe la capacità dell’Impero britannico, dell’Unione Sovietica e degli Usa di collaborare insieme? L’ideologia contò molto di più nella guerra fredda che seguì la vittoria del 1945.

I Paesi dell’Asse nella sua interpretazione sembrano quasi destinati a unirsi per perseguire una politica imperiale, ma non ritiene invece che sia stata, nei fatti, un’alleanza occasionale e non molto coordinata tra Stati condizionati dall’essere i reietti della Società delle Nazioni, alla ricerca di una rivincita egemonica nell’arena internazionale e che avevano come unico punto in comune, oltre allo spirito revanscista, l’ostilità alle democrazie occidentali e al comunismo?

E’ vero che le tre potenze dell’Asse non costituivano un Asse in senso proprio, ma di recente gli storici hanno iniziato ad esplorare più da vicino i legami tra di esse. Le tre nazioni erano infatti unite dall’ostilità verso l’Occidente e i valori liberali occidentali e dalla paura del comunismo, ma condividevano anche l’idea che per mano loro sarebbe cambiata la mappa geopolitica del mondo. Considero il Patto Tripartito del settembre 1940 un momento decisivo, spesso trascurato dagli storici, in cui i tre Stati definirono la loro visione di un nuovo ordine globale. Il problema era trovare un mezzo di cooperazione strategica, mancando il controllo dei mari o la possibilità di condividere le risorse economiche e militari. Ne risultò che l’Asse era una coalizione fragile. La potenza navale occidentale e la legge “affitti e prestiti”, utilizzata dagli Usa per aiutare gli alleati ancora prima di entrare in guerra, invece, furono essenziali per tenere insieme una coalizione antifascista anch’essa potenzialmente fragile. Si potrebbe inoltre sostenere che anche gli Alleati combatterono guerre molto separate, geograficamente e strategicamente. Nessun sostegno diretto venne dato all’Unione Sovietica che dovette combattere tre anni da sola contro il grosso delle armate tedesche. Anche gli Usa combatterono nel Pacifico senza alcun aiuto, se si eccettua un limitato sostegno australiano. Il Mediterraneo non rivestiva grande interesse per Stalin e fu accettato solo con grande riluttanza da Roosevelt come teatro di guerra per gli Usa. A nessuno dei partner della Gran Bretagna piaceva l’idea della campagna italiana. Al momento dell’invasione della Francia nel giugno 1944, le forze sovietiche erano già pronte ad entrare nell’Europa orientale senza l’aiuto degli Alleati. Il fattore chiave fu in effetti la legge “affitti e prestiti”. La potenza industriale americana contribuì a sostenere lo sforzo bellico sia britannico che sovietico, sebbene nessuna delle due potenze fosse disposta ad ammetterlo dopo la fine della guerra. Il crollo della cosiddetta “Grande Alleanza” nel 1945-46 non fu quindi una sorpresa. La retorica della collaborazione mascherava la realtà di tre diverse visioni della guerra e del mondo nel dopoguerra.

E’ possibile affermare che oggi l’imperialismo non è più praticabile nelle tradizionali forme territoriali, anche se continua a rimanere in vita attraverso nuove pulsioni?

L’imperialismo territoriale, del tipo praticato dalle potenze europee a partire dal XVI secolo, è terminato drammaticamente non solo nel 1945, ma anche negli anni Sessanta, quando i principali imperi sopravvissuti alla Seconda guerra mondiale furono liquidati. L’impero è oggi usato in senso metaforico per descrivere il comportamento delle moderne potenze egemoniche (Russia, Usa e Cina), ma è fuorviante paragonarlo all’imperialismo di un’epoca precedente, che prevedeva l’assoggettamento delle popolazioni indigene e il loro sfruttamento economico. Questo vale anche per l’espansione di Putin in Ucraina, che è guidata dal nazionalismo e dall’irredentismo russo ma non, vorrei dire, da un rinnovamento di un vecchio modello di impero.

         Fulvio Cammarano                           Richard Overy