Questo è il testo della relazione con la quale, l’8 maggio 1996, ho presentato al pubblico di Mestre-Venezia il libro “Istituto “Stefanini”. Vent’anni di sperimentazione. Verso dove? (1975-1995)”, Venezia, Supernova.
Scuola di metodo e di piacere, disciplina mentale e pensiero divergente.
Il lavoro collegiale dei docenti sperimentatori. Quando abbiamo creato questa esperienza di sperimentazione scolastica eravamo un gruppo ideologicamente disomogeneo, con tinte diverse di marxismo, variegato cristianesimo, azionismo liberale, agnosticismo. Eravamo anche divisi tra visioni stataliste e comunitarie. Allora questo mi sembrava un limite, un intralcio; si è rivelato, invece, uno stimolo fecondo. Intanto ha favorito il confronto rispettoso delle idee ma soprattutto ci ha fatto concentrare sugli aspetti più propriamente culturali e didattici dell’esperienza. Ci siamo addestrati, pur tra tante e faticose contraddizioni, a rivedere –nella collaborazione comune- i propri atteggiamenti educativi: è questo un processo molto difficile, che costa molte energie, ma che sarà impossibile eludere se nel futuro si vorrà superare la dimensione individuale e artigiana del lavoro docente. Programmare un lavoro nuovo, discuterne le linee generali, prepararlo reperendo e costruendo il materiale didattico idoneo, verificarne via via la riuscita sottoponendolo all’esame critico proprio, dei colleghi, degli studenti, in classe e nelle riunioni collegiali, impone sì una disciplina di lavoro, uno sforzo, un impegno, anche una tensione psicologica non comuni ma, alla fine, si rivelano gratificanti anche in corso d’opera e costituiscono poi la forma più concreta e funzionale di auto-aggiornamento didattico (lavori di gruppo, verifiche, valutazione), culturale (allargamento dei propri interessi, qualificazione delle conoscenze), scientifico-professionale (ristrutturazione dello statuto e dei metodi della propria disciplina).
Processo di autonomia e di riforma. Le indicazioni ministeriali (“Progetto Brocca”) invitano i docenti a imparare a fare tante cose (le più varie), a governare tanti processi contraddittori –in regime di autonomia realizzata degli Istituti scolastici-, ma come arrivarci se restiamo chiusi, rinserrati, nella frontalità rigida (docente-classe), senza possibilità strutturali di organizzare i modi dell’apprendimento con flessibilità, agilità, anche creatività, che riescano a combattere la routine, un senso di espropriazione e di inappartenenza? Occorrono modifiche profonde nel curriculum, nello spazio-tempo della scuola (logistica e calendario), nell’organizzazione del lavoro. Noi insegnanti dello “Stefanini” siamo entrati in crisi, verso la fine degli anni Ottanta, per tanti motivi (fine dell’assegnazione alla sperimentazione per comando, raddoppio improvviso dei corsi, massiccio e ingovernato turn-over, conflittualità radicale col Ministero, dissensi tra noi sul concetto e sui metodi dello sperimentare) ma anche e soprattutto per una improvvisa e inusitata rigidità ministeriale che ha eliminato in modo drastico tutte le ideazioni originali e flessibili del nostro progetto (compresenze, ricerche pluri-disciplinari, il nesso Arte-Musica, collaborazioni laboratoriali), ha impedito le necessarie correzioni che stavamo apportando, ha negato i momenti della programmazione settimanale e, alla fine, ha distrutto anche le possibilità, teoricamente stimolanti, delle classi pluri-indirizzo: unione in una sola classe di studenti di indirizzi diversi, il che avrebbe potuto favorire un confronto fecondo –su basi tendenzialmente unitarie di linguaggio e di metodologia di ricerca- tra la consapevolezza delle ragioni storiche filosofiche letterarie scientifiche dei processi conoscitivi (fornite dall’Area Comune) e le capacità di gestione pratica di quelle tecniche, settori d’indagine, forme espressive (fornite dagli Indirizzi). Ed è così venuta a mancare anche un’altra, interessante possibilità: i momenti continui di confronto tra cultura umanistica a respiro storicistico e cultura scientifica a impianto prevalentemente teoretico.
I rapporti tra docenti e studenti. Oggi discutiamo con grande difficoltà tra di noi, le distanze si sono allargate, le diffidenze sono cresciute. Oggi i nostri rapporti con gli studenti sono difficili, variegati e disomogenei. C’è disagio. Veniamo da quattro anni di autunni che hanno visto con periodicità sospetta gli studenti occupare le scuole, proteste seguite con simpatia ambigua dai mass-media, lasciate lentamente logorare dalle autorità di governo, senza risultati concreti. C’è un movimento studentesco dalle molte forme e presenze, con esigenze naturalmente frammentate e contraddittorie, prigioniero alla fine di parole d’ordine (“l’infelicità”) utopistiche (che non potranno mai realizzarsi, neanche in minima parte, creando inevitabilmente frustrazioni e impotenza), senza una seria politica di alleanze, segnato più dalla volontà di far spettacolo che da volontà di ricerca culturale. Noi insegnanti in modo anche acritico abbiamo espresso simpatia e, ad ogni occupazione, sono nati nostri documenti di analisi e proposte, magari minimali ma concrete, mai seriamente prese in considerazione dagli studenti; e ci sono stati documenti studenteschi mai seriamente considerati dai docenti. Poi, con buone motivazioni, il Comitato Scientifico della sperimentazione ha sottolineato, nel PEI (Progetto Educativo d’Istituto) gli obiettivi di fondo della formazione nella nostra scuola e che sono alla base di tutti i curricula: -un cittadino consapevole dei valori della nostra Carta Costituzionale e dell’unità della nostra nazione; -un lavoratore e/o uno studente universitario competente, dotato di grammatiche e di metodo; -un consumatore intelligente; un produttore e fruitore culturale avvertito e non facilmente seducibile dal magismo incantatorio dei media.
Il fascino e l’eccezionalità dell’insegnare. I perni attorno ai quali costruire una seria ipotesi di lavoro sono, secondo me: Scandalo, Lentezza, Profondità, Criticità, Responsabilità. Il nostro lavoro è un piacere dentro la scontentezza. Amo insegnare ma non amo la scuola. Sono frasi che si sentono nel nostro ambiente. Ma non pensiamo mai che la scuola è uno dei pochi “luoghi sociali” rimasti che consentano di riflettere in libertà, in gruppo e dove ci si può ancora appassionare alla vita; dove si possono costruire proposte culturali organizzate, documentate, non dilettantesche, potenzialmente interdisciplinari e quindi autentiche; dove ottenere una crescita intellettuale di massa senza passare per la selezione; dove si possono cercare le vie della ricerca con pazienza, provare e riprovare e -se si fallisce- correggersi e ricominciare.
Lo Scandalo. L’incontro-scontro tra le generazioni è simile a quello che avviene tra due culture diverse. Sono avventure, percorsi di passaggio all’interno delle culture reciproche, ed entrambi –studenti e docenti- scopriamo a volte la nostra fragilità ma anche delle bellissime utopie e ci sforziamo di tradurle in realtà. Non ci riusciamo, ma ci proviamo. Per questo è centrale il dialogare, il sapersi parlare, il volersi ascoltare. E io docente mi devo anche “lasciar giocare” dall’errore per porre in discussione il mio insegnamento, come atteggiamento problematico sul piano del metodo e come apertura reciproca alla conoscenza. Dobbiamo continuare ad illuderci di poter fornire strumenti, suggerire autonomia di riflessione, allenare alla fatica e al piacere dell’esperienza intellettuale. Continuare a credere di poter distribuire inquietudini, sollevare dubbi, dare schiaffi alle coscienze perché s’interroghino, scavalchino i pregiudizi. Pensare che la classe è una comunità in permanente agitazione, dove l’interscambio delle idee è vivo, dove si litiga, ci si confronta, si passano le informazioni. E si è sconfitti, e si impara dalla sconfitta: il professore imparerà a migliorare la sua condotta quotidiana e la sua programmazione, lo studente a correggere la sua pigrizia. E questo costa fatica per tutti.
La Lentezza, La Profondità. “Una pensosa leggerezza”, l’ha definita Italo Calvino nelle sue “Lezioni americane”. La scuola è al centro di una contraddizione imbarazzante: mentre si sta esaurendo il ruolo della famiglia tradizionale come cardine pedagogico (i genitori non vogliono più incarnare un ruolo autoritario) sembra che la scuola debba assumere sempre più una centralità psico-educativa. Nello stesso tempo però essa si svuota di un importante significato formativo per l’immiserirsi delle prospettive di inserimento lavorativo e sociale. I ragazzi cercano in vario modo la possibilità di appartenere, cercano il rapporto e lo scontro con l’Autorità, sole esperienze che danno identità e consapevolezza di crescita, la cura dei legami, la pedagogia dell’affettività. La scuola però non è costruita per ascoltare il disagio di un adolescente ma solo per contenerlo e decifrarlo in termini di capacità di apprendimento e di adattamento al modello organizzativo della sua didattica. E’ forse un bene che sia così. E’ un trauma necessario per crescere. Ma allora bisogna riuscire a sviluppare in forme più compiute l’attrazione per un’autorità che esprima il fascino e l’incanto della persuasione quale forma alta dell’insegnamento e la Lentezza Profonda ne è un aspetto importante.
Non dovrebbe essere centrale il culto del Programma quantitativo (arrivare fin là, finire qua) ma la capacità di selezionare e di scegliere, uno studio che esalti il gusto dei dettagli e degli incroci, il gioco dei contrasti e dei chiaroscuri, le intersezioni di “frontiera”, il reticolo delle relazioni per accostare processi intellettuali diversificati, costruire legami concettuali e linguistici, irrobustire le grammatiche logiche. Offrire stimoli e suggestioni per entrare il più possibile nella psicologia quotidiana (fantastica e insieme materialmente elementare) di un’epoca studiata, e coglierne le sfumature, e scoprire della realtà i lati più nascosti, i significati meno limpidamente espressi con le parole. Usare e intrecciare il cinema, il teatro, l’arte e l’iconologia, la musica, le tecniche…
Le recenti polemiche politiche e culturali sulla TV-spazzatura hanno riproposto vari problemi, e per noi docenti uno è sicuramente interessante. Sembra che siamo a un bivio: occorre allenare i giovani a uno stile affermativo, basato su moduli discorsivi brevi, condito da battute e mimica efficace; oppure è necessario abituarli ai ragionamenti con moduli discorsivi lunghi, con interpretazioni e sintesi inadatte ai tempi e alle sopraffazioni del dibattito televisivo? Al di là dell’ironia facile sulle difficoltà di far elaborare ai ragazzi pratiche comunicative comunque efficaci e corrette, sottolineerei che si debba vigilare sempre per evitare eccessiva seriosità, presunta vocazione a missioni elevate, paura degli altri o l’assurda preoccupazione di piacere a tutti, l’impazienza rispetto alla realtà. La cultura, lo ripeto, solo tramite la lentezza viene acquisita e solo con la lenta formazione e sedimentazione delle idee viene prodotta.
La Criticità e la Responsabilizzazione. Quando noi cominciammo a pensare a un progetto sperimentale di rinnovamento teorico e metodologico del fare-scuola quotidiano sapevamo benissimo di dover conciliare, pur tra contraddizioni, tre diverse esigenze: valorizzare l’individualità dello studente-adolescente, garantire l’uguaglianza delle opportunità, fornire un rigoroso livello di qualità. Questi obiettivi, se isolati e ipervalorizzati/idolatrati, possono risultare divaricanti fino alla distruzione dell’esperienza. Privilegiare il primo (valorizzare l’individualità) ci porterebbe ad essere “un divertimentificio” insulso e alla fine violento e disgregato. Evidenziare solo le esigenze del secondo (l’uguaglianza delle opportunità) ci trasformerebbe in una scuola di recupero ghettizzato. E queste due soluzioni, da sole, comunque configurerebbero il dato d’una Scuola di Stato che rinuncia a conseguire gli obiettivi prefissati dai piani di studio, che oggettivamente accetta una sua rovinosa dequalificazione; sarebbe l’anticamera dell’abolizione del valore legale del titolo, la fine della scuola pubblica. Esaltare asetticamente il terzo (l’alta qualità) porrebbe le premesse di una scuola d’élite sociale. Solo una sintesi equilibrata dei tre obiettivi può consentire –tenendo conto delle ragioni motivazionali del soggetto che apprende- di definire con precisione le ragioni culturali dell’oggetto di conoscenza (strutture conoscitive e letteratura scientifica delle discipline, metodologie di ricerca, possibili intrecci interdisciplinari).
Sulla scuola, e sulle categorie che la strutturano, si sono sempre sviluppate contrapposizioni vivaci. A riprova –nei giorni scorsi- sono apparsi due articoli illuminanti. Nel “Corriere della sera”, un paio di settimane fa, Ernesto Galli della Loggia ha riproposto l’ideale dell’insegnamento come “processo dall’alto”, fondato sul binomio “autorità-costrizione”, col corollario del principio dell’ubbidienza, tipicamente cattolico. L’altro ieri, su “Repubblica”, Umberto Galimberti ha voluto sottolineare che non si realizza apprendimento senza un coinvolgimento emotivo, ha richiamato la necessità del carisma e degli insegnanti quali “poeti della scuola”, ha citato San Paolo (“si entra nella Verità solo con l’Amore”). Sono due estremizzazioni interessanti, con del vero in entrambe, e tra le quali occorre trovare punti di realistico compromesso. Sono convinto che la scuola debba diffondere certamente conoscenze, debba insegnare cose –nozioni –operatività (dall’ortografia alla cronologia storica fino al calcolo infinitesimale) ma deve anche formare il carattere dei giovani, aiutarli a maturare. E’ essenziale, perciò, che si pratichi il principio di responsabilità, tipicamente protestante. Gli studenti devono essere giustamente colti, anche eruditi; ma devono essere soprattutto responsabili, abituati a prendere decisioni, appunto, sotto la loro responsabilità individuale. Occorre incoraggiarli ad assumere iniziative, a gestire se stessi, con maestri che sappiano guidarli senza costringerli. Nel novembre 1986, presentando i nostri materiali di lavoro al Convegno di Milano sul Biennio Sperimentale, scrivevamo: “Uno studente liberamente attivo e nello stesso tempo soggetto a norme, responsabile ma non intimorito, capace di affermarsi nella sua individualità e di essere tenuto alla buona convivenza della comunità. Vogliamo strutturare una vita della scuola in cui l’autorità si regga sul consenso e non escluda la discussione e la critica, favorendo l’eguale rispetto di ognuno per tutti con la progressiva acquisizione di forme di auto-disciplina”.
Cosa fare? Io non penso ad una gestione della scuola di tipo gerarchico-aziendalistico, con una sorta di ridicolo management che tenti di razionalizzare il lavoro con una rigida divisione delle mansioni, con uno staff dirigenziale che definisca il progetto di obiettivi e servizi dell’Istituto e che si preoccupi di venderlo al meglio sul mercato, con i docenti in un ruolo di subalterna esecutività. Penso invece all’autonomia dell’Istituto come a un progetto culturale e organizzativo capace di coinvolgere e valorizzare l’intera professionalità dei docenti e l’iniziativa degli studenti; un sistema di responsabilità diffuse e coordinate che procedano dal basso (gruppi di lavoro per classe, interclasse, discipline, aree culturali, indirizzi) fino agli organi collegiali di vertice (collegio dei docenti e consiglio d’istituto) e al preside, coordinatore e non fonte della progettualità, né da solo, né insieme ad un gruppo di insegnanti da lui cooptati. Questo dovrebbe accompagnarsi alla trasparenza assoluta di tutte le deliberazioni degli organi istituzionali della scuola.
Dovremmo caratterizzarci, inoltre, per un’applicazione del “Progetto Brocca” attenta a usare tutte le articolazioni del Progetto (vedi l’Area di Ricerca) che ne allentino la rigida frontalità, aumentino la flessibilità dell’uso dello spazio-tempo della scuola (modularizzazioni, compresenze, lavori per progetto, attività elettive), non compromettano le possibilità di programmazione comune delle abilità trasversali, consentano di coinvolgere gli studenti nella “ricerca culturale attiva”, aiutino le possibilità di “recupero in itinere” e, con corsi mirati, delle carenze settoriali e gravi della formazione.
Per il sovraccarico del curriculum in particolare, sul quale c’è polemica anche in Europa, dovremmo impegnarci a fornire modelli di indicazione dei livelli minimi di prestazione, senza limiti per la ricerca dell’eccellenza; precisare una distinzione più netta tra contenuti fondamentali e contenuti complementari (quindi graduando e differenziando i programmi); pensare a un modello di orario settimanale diverso.
Un’attenzione particolare va garantita, nella vita quotidiana, a tutti quegli elementi che possono rendere più efficace e gratificante l’esperienza di lavoro: tutte le aule attrezzate come se fossero laboratori, ricchezza e qualità degli strumenti integrativi, psicologia degli spazi, efficienza amministrativa.
Infine, va ridefinita l’identità del nostro Istituto sia in relazione all’ambiente sociale e alla mappa delle istituzioni educative della città e della provincia (bacino di utenza, tessuto produttivo, iniziative culturali, rapporti con gli Enti locali) sia pensando all’interpretazione che la città elabora e formalizza della nostra linea educativa, della nostra produzione e riproduzione culturale, delle nostre deprivazioni, disfunzioni, scadimenti. Si sta determinando una sorta di sfiducia nei nostri confronti, un progressivo squilibrio tra gli indirizzi, un abbassamento significativo dei livelli di ingresso. Questo processo va meglio conosciuto, studiato, governato. Farei un’ultima proposta: in accordo con due-tre scuole sperimentali consolidate, legate a noi da anni di collaborazione (il liceo classico “Ariosto” di Ferrara, il liceo scientifico “Buonarroti” di Pisa, l’ITIS di Bollate (Milano)), costruire e sperimentare un progetto di curriculum per un modello di Liceo Linguistico e Liceo Scientifico europei. Due anni per studiare e mettere a punto l’ipotesi. Avvio della sperimentazione nel 1998-99.
prof. Gennaro Cucciniello