La stenografa degli orrori dei medici nazisti
A 70 anni dal processo di Norimberga esce in Italia la testimonianza di una ragazza americana, allora ventenne, che trascrisse racconti dall’inferno, narrati dai carnefici imputati.
“I prigionieri venivano spogliati completamente ed entravano nel laboratorio uno dopo l’altro. Io dovevo tenergli ferme le braccia, mentre un medico ci strofinava sopra qualche goccia di iprite, il cosiddetto gas mostarda, che provoca terribili ustioni. Poi dovevano aspettare in piedi con le braccia aperte anche dieci ore, forse più, finché le ferite da bruciatura non iniziavano a ricoprire tutto il corpo, progressivamente raggiunto dai fumi del gas. Alcune persone divennero cieche. I dolori e i lamenti erano così tremendi che non era possibile stare vicino alle vittime. Le aree bruciate venivano fotografate. Il quinto o il sesto giorno ci fu il primo morto. Fu dissezionato: i suoi organi interni erano stati completamente erosi. Nei giorni seguenti morirono molte altre persone”.
Parole fredde, impassibili, di Ferdinand Holl, ex prigioniero politico e kapò del campo di concentramento di Neuengamme, a sud-est di Amburgo, che nel gennaio del 1947 testimoniò davanti al Tribunale di Norimberga, in uno dei processi per crimini di guerra agli aguzzini nazisti. Un resoconto riportato con estrema precisione, perché a registrarlo fu Vivien Spitz, la più giovane dei 26 stenografi che dal 25 ottobre 1946 al 20 agosto 1947 si alternarono in aula durante il processo ai famigerati medici del Terzo Reich: rinomati uomini di scienza che avevano torturato e ucciso nei campi di Dachau, Buchenwald, Auschwitz, Ravensbruck, affamando, congelando, infettando, avvelenando, bruciando, soffocando, operando senza anestesia… alla ricerca rozza e abietta di nuove cure. Senza scrupoli. Senza rimorsi. Definendo le loro cavie umane “conigli”, “materiale” di studio. Quello ai medici fu il primo dei dodici “processi secondari” che a Norimberga seguirono il dibattimento principale, del 1945, ai 24 più importanti criminali nazisti (da Goring a Hess a Ribbentropp). Altri processi misero sotto accusa giudici e ministri del Reich, il Dipartimento delle SS, l’azienda di munizioni Krupp… Tutti schiaccianti, ineccepibili, perché i nazisti avevano fedelmente registrato per iscritto, con foto e filmati, gran parte delle proprie atrocità, senza alla fine riuscire a far sparire tutti i documenti: prove che, presentate in tribunale, diventavano inconfutabili.
Oggi, a 70 anni dall’inizio dei processi di Norimberga e in occasione del Giorno della Memoria, il 27 gennaio, Piemme porta in libreria “La stenografa” di Vivien Spitz: il resoconto delle 139 udienze del processo ai dottori che la giovane americana contribuì a fissare per sempre sulla carta. Il libro è basato sulle undicimila 538 pagine trascritte dagli stenografi di quel particolare dibattimento, oggi conservate negli archivi nazionali americani. Aveva 22 anni Vivien, stenografa di Detroit, quando fu assunta dal Dipartimento della Guerra degli Stati Uniti e approdò a Norimberga devastata dalle bombe, dove i corpi erano ancora sotto le macerie, la vita scandita dal coprifuoco, il mercato nero, la mancanza di riscaldamento e dell’acqua calda. La città che aveva ospitato imponenti raduni nazisti, in cui erano state emanate le leggi che privavano gli ebrei della cittadinanza e dei loro diritti, era stata ora scelta come luogo simbolo per riaffermare la giustizia. La Spitz, d’origine tedesca, non riusciva a credere ai resoconti di quel passato efferato: voleva verificare di persona.
Alla fine del processo, quando tornò in America, la sua vita non fu più la stessa: il ricordo delle brutalità registrate nei dettagli, dello sguardo arrogante degli imputati, del dolore impietrito dei sopravvissuti la inseguirono anche nel sonno. Per quarant’anni cercò solo di dimenticare. Finché nel 1987 un giornale riportò il caso di un’insegnante tedesca che, in una scuola di Denver, aveva definito l’Olocausto un’Olo-truffa. Indignata, furente, Spitz iniziò la sua personale campagna per la verità e la memoria. Prese a girare scuole, università, luoghi di culto, ospedali, caserme, raccontando a più di 40mila persone ciò di cui era stata testimone. Per poi arrivare alla stesura del suo libro.
“Questa è una di quelle storie che fanno paura”, scrive nella prefazione il Nobel Elie Wiesel. “Nel conflitto tra il Bene e il Male gli scellerati medici nazisti rivestirono un ruolo cruciale. Crearono l’inferno”. Tra gli esperimenti pseudoscientifici più truci (e inutili), quelli nel campo femminile di Ravensbruck, dove si trapiantavano da una prigioniera all’altra sezioni di ossa, muscoli, nervi (o si amputavano interi arti) per verificare se i tessuti si rigeneravano. Taglio, prelievo, sutura e, dopo qualche giorno, tutto da capo: la sedicenne polacca Barbara Pietczyk fu operata sei volte. Le poche che non morirono rimasero per sempre disabili. Intanto i cerusici di Buchenwald sperimentavano i veleni, per verificare il dosaggio fatale, la rapidità della morte, le forme dell’agonia. “Un giorno fu somministrato veleno a ignari prigionieri di guerra russi, nel cibo”, racconta Spitz. “I medici si nascosero dietro una tenda per osservare le loro reazioni: erano sopravvissuti, così li strangolarono per fare le autopsie”. E perfino il collezionismo museale fu ferocemente perverso: 112 ebrei furono uccisi per completare una raccolta dell’Università del Reich, a Strasburgo, nella Francia occupata, di scheletri di popoli diversi.
Le barbarie pretendevano anche di trovare soluzioni ai drammi di guerra. I piloti tedeschi rischiavano di cadere da grandi altezze senza riserva d’ossigeno? Per verificare i limiti della resistenza umana, duecento prigionieri di Dachau furono rinchiusi in camere che simulavano le condizioni atmosferiche a più di 20mila metri. Ne morì un’ottantina; altri ebbero convulsioni e uscirono di mente. Ancora: malaria, itterizia, tifo, vaiolo, colera erano malattie diffuse nei paesi conquistati dalla Germania? Migliaia di prigionieri furono infettati deliberatamente, per sperimentare ipotetici vaccini: i più perirono, ma si registrarono anche casi di pazzia e delirio…
Non solo: ebrei e zingari andavano eliminati dalla faccia della terra? In mancanza di forza lavoro, si pensò di sterilizzare quelli ancora in grado di sgobbare e ad Auschwitz si studiarono metodi di sterilizzazione di massa. Record: 3-4mila donne al giorno con i raggi X. Ma poi si decise di farle fuori quasi tutte, perché le ustioni provocate dai raggi le avevano rese inabili al lavoro. L’escalation dell’orrore sanitario continuò per tutta la guerra, fino al progetto eutanasia, quando ci si sbarazzò di centinaia di migliaia di disabili, malati di mente, pazienti terminali, bambini e anziani invalidi come “bocche inutili da sfamare”.
Il capo del Consiglio per i crimini di guerra parlò di “prostituzione della medicina”. Ma quello nazista non è l’unico caso di disintegrazione morale della scienza: fu certo il più sistematico ed efferato. Ancora oggi ci sono dottori che partecipano alle torture contro “il nemico”: c’è una medicina che annienta anziché guarire. Il libro di Vivien Spitz serve a ricordarlo.
- I quattro medici dichiarati colpevoli di crimini di guerra e contro l’umanità e condannati a morte per impiccagione: Karl Brandt, medico personale di Hitler; Karl Gebhardt, Joachim Mrugosky, Waldemar Hoven, responsabile medico del lager di Buchenwald.
Antonella Barina
L’articolo è stato pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 23 gennaio 2015, alle pp. 98-101. Vivien Spitz è morta nel 2014.