Olivetti Confidential
La giornalista Meryle Secrest ha dedicato un libro all’industriale italiano e ai suoi tanti nemici in America. Una vera spy story, fino alla sua morte e a quella di Tchou, con cui progettò il primo personal computer della storia.
Questo articolo, scritto da Maurizio Crosetti, è stato pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 6 novembre 2020, alle pp. 52-53. Non è inutile sottolineare, alla luce di questo libro, che quasi negli stessi anni, nel 1962, moriva misteriosamente in un incidente aereo a Bascapé, nei pressi di Milano, Enrico Mattei, patron dell’Eni, anche lui inviso a molti in Occidente e sulla cui morte tanto si è scritto.
Gennaro Cucciniello
Se Adriano Olivetti non fosse morto d’infarto quel giorno in treno nel 1960? E se il suo più stretto collaboratore, l’ingegner Mario Tchou, non si fosse schiantato per caso in auto contro un furgone, appena un anno dopo? La storica americana Meryle Secrest pone queste due pesantissime domande in un libro che non può non fare rumore, anche se è trascorso così tanto tempo. “Il caso Olivetti” (Rizzoli) riapre una vecchia storia e la illumina di luce nuova. Senza tanti giri di parole, qui si ipotizza che Olivetti e Tchou possano essere stati addirittura ammazzati dalla Cia. Perché Adriano e Mario avevano avuto la grandiosa (e pericolosa) idea di inventare il primo personal computer al mondo, ed erano troppo “comunisti” per non spaventare gli americani e l’Ibm che a quell’idea stava lavorando. Che poi Olivetti e Tchou fossero aperti al contatto con l’Urss e soprattutto con la Cina può aver loro scavato la fossa.
Sembra un giallo questa inquietante storia di spionaggio e controspionaggio industriale ai tempi della Guerra Fredda, ma è anche un saggio sociale su una formidabile utopia: rendere il mondo un posto migliore, non a dispetto del lavoro ma grazie ad esso. Sullo sfondo di un epilogo tragico, che segnò anche l’inizio della fine dell’industria Olivetti, Meryle Secrest racconta l’epopea di Camillo e Adriano, l’idea di un capitalismo illuminato che voleva creare una comunità virtuosa attorno all’azienda e lavoratori più felici. Ma è anche l’incredibile avventura di quella che poteva essere la Silicon Valley italiana e non fu.
Era un sabato, e Adriano era salito sul treno Milano-Losanna. Non arrivò mai a Montreaux. Aveva appena 58 anni e ancora tante idee rivoluzionarie per la mente. Prima di partire telefona al suo amico Franco Ferrarotti, il famoso sociologo, poi si siede in fondo a un vagone di seconda classe (gli Olivetti sono sempre stati gente morigerata). Un ragazzo, testimone diretto, dirà che Olivetti era pallido e a tratti paonazzo in viso. Adriano dimentica il cappotto nel vagone ristorante, torna indietro trafelato, lo recupera, poi ha un infarto e muore. Tra le ipotesi c’è anche quella di un dardo avvelenato del tipo che, a quel tempo, usavano gli agenti della Cia per armare una loro speciale pistola.
Ingegneri bizzarri. Neppure la morte di Mario Tchou convince la scrittrice. Tchou, un mezzo cinese, dirigeva il laboratorio di elettronica dell’Olivetti, settore che all’epoca era poco più che clandestino. Gli ingegneri che lavoravano con lui erano visti come soggetti bizzarri e strampalati: la meccanica regnava ancora sovrana e tutto il resto sembrava una stravaganza. Ma Tchou sapeva che in quelle ricerche c’era il futuro che avrebbe cambiato il mondo. Forse ne aveva già parlato con i cinesi, in quell’8 novembre 1961 quando, appena trentasettenne, salì sulla Buick chiara guidata da Francesco Frinzi, autista giovane ma esperto. L’auto percorre l’A4 da Milano a Torino ed esce allo svincolo di Santhià per raggiungere Ivrea, sede dell’Olivetti. Sul cavalcavia dello svincolo la Buick si scontra frontalmente con un autocarro OM Leoncino: l’ingegnere muore sul colpo.
Che il destino di Adriano Olivetti e di Tchou fosse pieno di ombre lo si sospettò subito. Nel giorno dei funerali dell’imprenditore i ladri rovistarono nel suo studio per cercare chissà cosa. Poco prima di morire, Adriano aveva acquistato la statunitense Underwood, che era stata la principale azienda di macchine per scrivere e da ufficio al mondo. La nascita di un colosso italo-americano, sebbene in tempi finanziariamente non facili, aveva preoccupato non poco l’Ibm. Bastava per togliere di mezzo il più visionario tra i capitani d’industria che l’Italia abbia avuto? Forse sì, dice Meryle Secrest.
La ricostruzione proposta dal saggio è accuratissima e incrocia personaggi misteriosi, doppiogiochisti, probabilmente spie che lavorarono per Adriano o lo incontrarono negli anni della Seconda Guerra mondiale, in cui lui fu una specie di piccolo Schindler nostrano, e poi all’epoca del grande gelo tra le superpotenze. Qui si scopre che l’Ibm aveva prodotto le macchine a nastri perforati che Hitler usò per schedare gli ebrei, e che Olivetti fu sempre considerato “troppo rosso” da avversari e finti amici.
Il romanzo delle due morti misteriose mette in gioco tanta vita e racconta formidabili invenzioni. Le macchine per scrivere da scrivania e portatili, compresa la mitica Lettera 22, le calcolatrici, la telescrivente inventata da Massimo Olivetti, fratello di Adriano, fino alla ricerca e allo studio che avrebbero portato a presentare al mondo il P101, ovvero il primo personal computer della storia: accadde nel 1965 a New York, e Adriano non fece in tempo a vivere quella vertigine.
Un computer per la Luna. La sua scomparsa, peraltro, gli risparmiò l’ostilità che gli americani scaricarono sui cervelloni di Ivrea, provando a convincerli che la meccanica e non l’elettronica, e neppure l’elettromeccanica, sarebbe stata la protagonista del futuro. Un errore commesso in malafede, perché molti sapevano perfettamente che elettronica e computer “ridotti”, non più cioè quegli stanzoni pieni di enormi scatole che dal pavimento salivano fino al soffitto, avrebbero trasformato la società. Ne era consapevole anche la Nasa, che usò il P101 per mandare i primi uomini sulla luna. Ma quando la General Electric acquisì la divisione elettronica dell’Olivetti, invece di un lancio in orbita fu un funerale. Negli Usa non credevano negli italiani, e non faceva comodo credervi. Noi eravamo almeno dieci anni avanti, in questo angolo di Piemonte, il Canavese, mica in California.
Maurizio Crosetti