L’amore cristiano può essere dionisiaco? Un esempio che prende spunto dalla “Divina Commedia” di Dante

Questo articolo è stato pubblicato, il 15 agosto 2008, sul bollettino del Circolo Culturale “Palazzo Tenta 39” di Bagnoli Irpino (AV), “Fuori dalla Rete”

 

 

 

 

 

L’amore cristiano può essere dionisiaco?

 

Negli ultimi anni le Letture di Dante di Roberto Benigni, nelle piazze e in televisione, hanno avuto un grande successo di pubblico. Io le ho molto apprezzate per la vivezza dell’interpretazione, per la profondità di alcune intuizioni, per la capacità di rendere comprensibili a molte persone concetti difficili e complessi senza banalizzarli. Non credo esista un fenomeno simile in altri paesi europei e americani. Bruno Ganz non legge Goethe nei palasport, Al Pacino non declama Melville al Madison Square Garden, i sonetti di Shakespeare recitati da Kenneth Branagh non muovono folle da stadio. Il merito è anzitutto di Dante. Gli italiani hanno il privilegio di poter leggere la Commedia divina scritta nel 1300 e di comprenderla tutta, mentre gli inglesi devono farsi tradurre l’Amleto e i francesi annaspano persino sulla lingua seicentesca di Molière. L’altro merito ovviamente è di Benigni, che ha l’astuzia spettacolare di far precedere alla lettura un’ora di satira politica ma anche la passione autentica di far seguire una lettura critica dantesca di assoluta qualità e chiarezza, senza furberie, ammiccamenti o, peggio ancora, attualizzazioni.

In particolare mi impressionò molto, a suo tempo, l’analisi e la recitazione benignesca del XXXIII canto del Paradiso. L’ultima cantica della Commedia  –la più vertiginosa- suggerisce al lettore un’esperienza interessantissima di scandaglio linguistico e di riflessione teologica, con un poeta grandissimo che sta concludendo il suo viaggio da astronauta nei cieli, dopo la speleologia infernale e l’alpinismo del Purgatorio (per dirla con il Sermonti). La visione di Dio appare a Dante come un’estasi di fuoco (“Ne la profonda e chiara sussistenza / de l’alto lume parvemi tre giri / di tre colori e d’una contenenza;/ e l’un da l’altro come iri da iri / parea reflesso, e il terzo parea foco / che quinci e quindi igualmente si spiri”). Qualche anno fa per i miei studi avevo consultato un libretto di un monaco teologo e mistico medievale scozzese, Riccardo, priore dell’abbazia di San Vittore a Parigi, I quattro gradi della violenta carità (ed. Dehoniane, Roma, 1990), libro scritto verso la metà del XII secolo . Vi si narra, in forme bellissime di lirismo amoroso, dell’aspirazione “di un piccolo misero essere umano che, preso da divina follia, mette le ali e, superando le barriere della sua finitezza, ascende verso la luce di quel Bene assoluto –Dio- che gli si è rivelato nella bellezza di uno sguardo, nella profondità di un sorriso, nel fantasma di un corpo”. Propongo ai lettori-soci del nostro Circolo una breve sintesi di questa meditazione per suggerire una via particolare di contatto col Paradiso, opera in cui Dante non fa biascicare preghiere, non fugge dalla responsabilità e dalla fatica stessa del pensare; anzi vi sviluppa un rigoroso e vigoroso esercizio di autocontrollo, intensità di sentimento, coscienza del limite, slancio appassionato dell’anima verso un Dio personale che ci ama e che ci chiama all’esperienza del trasumanare (uscire dalle ristrettezze della condizione umana) e dell’indiarci (penetrare nella condizione divina) (Paradiso, canto IX, vv. 73-81). Il mio invito è a uno studio personale dell’opera dantesca, lungo negli anni, silenzioso, per ritrovare davvero se stessi e gli altri –l’Io e il Tu-, scandito a voce alta, memorizzato con dolcezza e ostinazione, perché questa storia –raccontata da Dante-, “quel subitaneo mutar di desideri fa pensare che non si tratti solo di vane fantasie…” Non ci si deve stupire se in questa opera, come in altre sublimi pagine della meditazione monastica cistercense del medioevo, cielo e terra si fondano in unione bellissima: siamo nell’epoca dei Trovatori e di Abelardo ed Eloisa, dei romanzi di Tristano e Isotta e di Lancillotto e Ginevra. Le fredde e luminose aule di scrittura dei monasteri, la pace del chiostro si riempivano di sentimento che, congiungendo cielo e terra, sembravano allora dominare l’uomo e il tempo, producendo testi che sono veri pilastri indistruttibili della cultura cristiana. Il primo segno del cristianesimo fu proprio quello di trasformare tutti i pesi –il peso della legge, del comando, del dolore, della sventura, dell’incertezza, dell’analisi, del dubbio, dell’angoscia, dell’inquietudine- in qualcosa di sovranamente leggero: leggero come il respiro e il battito di una piuma. Chi non conosce la leggerezza, diceva Aelredo di Rievaulx, non conosce nemmeno la fede cristiana.

 

1- Amore di Dio.

Cominciamo il viaggio. Un giovane, un essere umano deve poter e saper esprimere desiderio, affetto, tenerezza. Deve poter passare da un desiderio anche oscuro che ispira passione, tormenti, dolorosa mestizia a un estatico delirio religioso che ci innalza verso la bellezza dell’immensamente bello, puro, inattingibile. E’ possibile oggi, in questo nostro mondo così desacralizzato? La nostra morbida tenerezza sensuale, il nostro debole-quasi malato aver bisogno dell’altro, i nostri affetti impuri e belli  possono trasformarsi -anche se purificati- nell’amore che potremmo provare per Dio? E se Dio è l’altro trasfigurato? Che differenza vera può esserci tra l’amore di oggi, terreno-finito-parziale, e l’amore dell’Eternità? Nell’amore non è già tutto qui? Dio non è già dentro di noi? Oggi non sappiamo altro di Lui: non portiamo in noi scintille illuminate del Suo Essere (conoscenza, dono delle lingue, profezia, fantasia), né lo conosciamo, né riusciamo a contemplarlo, né lo realizziamo con le nostre azioni. Lo incontriamo soltanto nell’amore che ci colma in ogni momento del desiderio e dell’esperienza. Ma se l’amore è il presente assoluto, sarà anche l’assoluto futuro? C’è possibilità di differenza tra il puro amore divino (che ignora la passione e anticipa il futuro) e la tenerezza terrena (che si slancia verso Dio e le creature e si identifica con loro nell’estasi)?  “Forte come la morte è l’amore, dura come l’inferno la passione: le sue torce sono torce di fuoco e di fiamma”. I due amori hanno la stessa struttura, le stesse manifestazioni, gli stessi gradi: l’amore che ferisce, che lega, che rende languidi, che fa venir meno, che t’immalinconisce e ti esalta. Un amore ardente e impetuoso, che penetra nel cuore e infiamma i sentimenti e trapassa l’anima. La passione nasce dal dolore e si mescola alla gioia; essa è ossessione e carcere per l’anima, è concentrazione, è passività, è odio nascosto, può diventare malattia-follìa-morte; ma è anche -e insieme, inestricabilmente insieme- visione, intelligenza, conoscenza, verità dell’altro, dell’amato. E amandolo non ci si sazia. E si ama l’essere amato o l’illusione d’amore? L’amore non ha più fine, è insaziabile e tutto divora. San Paolo nella Prima lettera ai Corinzi sottolineava la sobrietà, la misura, la quiete, la mitezza di questa forza che tutto sopporta e ci conduce verso il futuro.

2- Dalla Terra a Dio.

La creazione dell’uomo è a immagine e somiglianza di Dio, che è Trinità. Tutto parte da lì. L’anima vuole il Padre ma anche il Cristo e lo Spirito. Nell’anima dell’uomo è impressa una forma che lo rende somigliante a Dio. Carattere fondamentale di questa somiglianza è la libertà: di scegliere fra il bene e il male. Col peccato originale, l’uomo si è rivolto verso il carnale, il terrestre. Ma ora vuole ricongiungersi con Dio. La letteratura mistica parla delle fasi dell’ascesa dell’anima verso Dio. Essa vi è paragonata a una mendicante che è vissuta in campagna, abituata a cibi e a modi rozzi e che viene portata nel salone del Re. Viene scacciata violentemente ma lei corre continuamente alla porta per rientrare, insistente, affannata, piangente, sperando e sospirando; guarda dentro, guarda in alto, prega che le aprano la porta. Finalmente, d’improvviso, per miracolo, supera ogni ostacolo, arriva alla tavola apparecchiata, vi si siede.

Sta lì seduta, piena di desiderio, guarda Dio che la vede mentre lei non lo vede; e a Lui offre tutta se stessa, tutto ciò che è, tutto ciò che può, tutto ciò che sa, e le sue gioie e le sue sofferenze. “Dove sei, Signore, dove sei? Dove posso toccarti? non ti trovo. E dove, Signore, non sei? Come sei bello, Signore, come sei bello! Io so che tu sei con me. Ma poiché tu sei con me, perché anch’io non sono con te? Cosa lo impedisce? Cosa si frappone?”

L’anima è stanca di vivere, stanca di promesse, di segreti oscuri, di specchi e di enigmi e di riflessi. Vorrebbe starGli sempre faccia a faccia, gli occhi negli occhi. Vive di desiderio mentre Dio si avvicina e si sottrae. Così si slancia di continuo verso il Dio nascosto mentre una dolcezza segreta e sussurrata le tocca appena il cuore. Scossa dai sospiri e svegliata dal suo piangere, non può dissimulare la malinconia né calmare il fuoco doloroso. Non sa più prendere decisioni né affidarsi alla ragione: ignora l’ordine, trascura la misura e si affligge pensando alla dolcezza che le arriva lentissimamente, per quanto Dio sia veloce, il più veloce. E poi, d’improvviso, una felicità disperata. “Cos’è questa velocità che cresce in modo così violento e dolce, al punto che mi sento distaccare da me stessa ed attrarre verso qualcosa che ancora non comprendo? All’improvviso mi sento rinnovata e trasfigurata, provo un benessere che non posso esprimere a parole. Il mio spirito esulta. L’intelligenza diventa limpida, il cuore è illuminato, mi pare di trovarmi in un altro luogo e non so dove”.

3- La rivelazione di Dio.

Così l’anima giunge finalmente all’Amore. Dio si rivela. L’anima si scioglie e si liquefa nella sostanza di Dio come una piccola goccia d’acqua versata in molto vino, sembra che vi si perda completamente prendendone il gusto e il colore; o come il ferro, immerso nel fuoco, diventa incandescente e vi si confonde; e come l’aria inondata dai raggi del sole si trasforma in luce. E’ veloce il tocco di Dio. L’invasione avviene in rari momenti, non nella continuità, e per lo spazio di un istante. Dio-Amore appare e scompare.

“Appena il Verbo, rispondendo all’appello delle veglie e delle implorazioni, alle lunghe pene e alla pioggia delle lacrime, si presenta, subito fugge alla presa dell’anima che crede di tenerLo. E, se accorre ai nuovi pianti, si lascia afferrare ma non trattenere; e sfugge ancora a mani che tentano di chiudersi su di Lui. E se l’anima si dà una volta di più alle suppliche e alle lacrime, ritorna, ma per scomparire di nuovo”.

E le due sostanze poi non si fondono: l’uomo non diventa Dio, quella goccia d’acqua non è veramente vino, quel ferro non è fuoco, quell’aria non è luce. Forse tutto è solo un lieve gioco di Dio con le tenere e desolate anime nostre.

L’anima viene assorbita in Dio; si trasforma, cambia sostanza. La metamorfosi, questa volta, è assoluta. Dio s’è disposto a riceverla, a farla sua, a compenetrarsi in essa. La durata? L’estasi non è misurata col tempo. In questo momento, fuori dal tempo, tutto è fuoco e liquefazione. In questo momento, fuori dal tempo, l’anima conosce il mistero dell’amore.

“Quando il ferro è gettato nel fuoco, dapprima lo si vede scuro e freddo. Ma quando dimora nell’incendio del fuoco, a poco a poco diventa caldo, a poco a poco perde il colore scuro e, man mano che diviene caldo, prende in sé la somiglianza del fuoco, sino a liquefarsi tutto, e venire completamente meno a se stesso e passare del tutto in un’altra qualità. Così dunque l’anima -assorbita dal rogo dell’ardore divino e nell’incendio dell’intimo amore- dapprima si scalda, poi diviene incandescente, si liquefa, e infine perde completamente la condizione originaria”.

E’ questo l’ultimo grado dell’amore?  Dove il ferro diventa per sempre fuoco, la goccia d’acqua si scioglie per sempre nel vino, e il vento si è fatto musica e luce? Si può andare più oltre?

 

 

4- L’anima ritorna nel corpo.

Nell’ultimo grado dell’amore tutto si capovolge. L’anima, che in Dio era morta a se stessa, ora rinasce: ma -nello stesso tempo- cade, precipita, divenuta nuovamente umana. Si svuota, si umilia, assume la condizione del profugo, del perseguitato, del servo. Se prima si era identificata con Dio ebbro della sua gloria, ora si riconosce nel Cristo ricoperto di piaghe, sofferente, compassionevole, agonizzante. E se prima, nell’estasi, aveva cessato di muoversi, immobile, ora è presa da frenesia attiva: ora è desiderio fraterno, carità operosa, insaziabilità, furore. Ora non le resterà che essere plasmata secondo il modello di Cristo nella sua umiltà. Nel Cristo che ha assunto la carne, ha patito, è stato servo dell’uomo e, col suo amore per l’umano, ha mostrato l’eccellenza dell’amore. L’anima non è misurata e virtuosa, non compie opere buone, ma è posseduta da una specie di ebbrezza e di follìa che le fa violare qualsiasi regola e misura. Essa torna quasi ad opporsi a Dio, delusa dalla Sua lontananza, umiliata dalla sua relegazione sulla terra e -per ritorsione- ama gli uomini ora, e vede in essi una pallida eco del Suo amato lontano e ora irraggiungibile. Tutto è finito.

 

Scrive Citati che la concentrazione meravigliosa, la densità e la compattezza delle immagini, il gioco dell’invenzione e delle variazioni, le domande ansiose e che non aspettano risposta di Riccardo, di S. Bernardo, di Dante, non renderanno ciò che ho scritto leggero e incandescente ma spero che vi suggeriscano una lunga e attenta lettura di queste opere e una riflessione su questi temi. Era convinzione diffusa tra i monaci, maestri spirituali dell’epoca medievale, che l’amore terreno e quello divino discendessero dalla stessa fonte. Descrivevano, perciò, i due amori; e vi ritrovavano la stessa struttura, le stesse manifestazioni, i medesimi gradi: l’amore che ferisce, che lega, che rende languidi, che fa svenire. Così ci accorgiamo che questi monaci sapevano già tutto anche del nostro cuore, nessun sentimento umano sfuggiva loro, nessuna passione terrena era loro nascosta. Quando Riccardo spiega che la passione nasce dal dolore: quando descrive l’ossessione e il carcere, che essa costituisce per la nostra anima; quando racconta la concentrazione, la passività, l’insaziabilità, l’odio nascosto; quando descrive come essa diventi una malattia, una follia e una morte, noi moderni capiamo che tutta la narrativa amorosa dell’Occidente sta nascosta in queste poche pagine, a partire proprio dall’episodio di Paolo e Francesca nel canto quinto dell’Inferno di Dante. Non è stato perciò difficile per me, lettore ateo, appassionarmi alla lettura e allo studio di questi temi. Molte culture per necessità hanno creduto in Dio per darsi un orizzonte di senso, per poter sopravvivere oltre l’inesorabile morte biologica. Forse Nietzsche più di tutti si è avvicinato al nocciolo della questione quando ha spostato la domanda: non più se Dio esiste o non esiste, ma se Dio è ancora vivo o invece è morto. Quando nel Medioevo la letteratura era inferno purgatorio paradiso, l’arte era arte sacra, persino la donna era donna-angelo, Dio c’era, perché se tolgo la parola Dio non capisco nulla di quell’epoca, come abbiamo visto nei testi precedenti. Ma possiamo dire la stessa cosa oggi? Il nostro mondo ruota ancora intorno a Dio o intorno ad altre parole come economia, tecnica, consumo di merci, distruzione della natura? In questo caso Dio, che un tempo esisteva, ora è davvero morto. Di Lui si può raccontare solo la sua storia. La conclusione la lascio a S. Agostino che in una pagina bellissima delle sue Confessioni scrive: “Tenterò di raggiungerti dove puoi essere raggiunto e di aderirti dove aderirti è possibile, o mio Dio, mia dolce sicurezza e mio bene. Rinuncerò anche alla mia memoria, alla memoria di me, pur di avere la beatitudine di poter salire al tuo cospetto. Ma se rinuncio alla memoria di me come potrò avere memoria di te?”

Un tema così affascinante, il legame strettissimo tra amore celeste e amore terreno e che vincola in modi apparentemente così moderni il trascendente e l’immanente, è stato risvegliato nelle nostre coscienze anche dalla recente pubblicazione dei “Trattati d’amore cristiani del XII secolo”, editi dalla Fondazione Valla Mondadori, oggetto poi di articoli di commento da parte di P. Citati (Repubblica, 19 giugno 2008, Quando l’anima si perde in Dio, pp. 46-7) e di G. Montefoschi (Corriere della Sera, 14 giugno 2008, L’ossessione della carne nell’amore cristiano, p. 37).

 

                                                                  Gennaro Cucciniello