L’enigma Tambroni nella calda estate del 1960

L’enigma Tambroni nella calda estate 1960

Gli scontri di Genova. I morti a Reggio Emilia e in Sicilia. 50 giorni prima delle Olimpiadi di Roma l’Italia prese fuoco. Ora due storici provano a far luce su Tambroni: “Amò più i dossier che i manganelli”.

 

All’epoca, avversari e non solo lo dipinsero come un piccolo Fouché alla marchigiana: ambizioso, camaleontico, complottardo. In seguito incappò in una damnatio memoriae finendo sepolto sotto una frana di cliché. Adesso un libro cerca di ricollocarlo nella giusta prospettiva ripercorrendone ascesa, auge e tracollo in un’Italia che dietro la facciata smart del miracolo economico e del boom già incubava demoni che l’avrebbero ghermita nei decenni successivi.

Rampollo dell’aristocrazia di provincia, classe 1901, Fernando Tambroni Armaroli da Ascoli Piceno si laurea in legge nei primi anni Venti. Studente, si è affiliato ai Popolari di Sturzo, ma nel 1932 prende la tessera del Fascio. “Però sgombriamo il campo da vecchi equivoci: non aderì al regime per convinzione quanto per quieto vivere. Voleva continuare a esercitare l’avvocatura indisturbato”, precisa lo storico Mimmo Franzinelli che con Alessandro Giacone, avvalendosi anche di fonti inedite, ha ricostruito la parabola tambroniana in “1960. L’Italia sull’orlo della guerra civile” (Mondadori, 2020, pp. 312, euro 22). Sì, perché in quell’estate di sessant’anni fa Mina canta Tintarella di luna e a Roma si celebrano le “Olimpiadi del boom”, ma nel Paese tira un’ariaccia.

Il Congresso del MSI. A fine giugno cuore e fegato della Genova partigiana sono insorti contro l’improvvido congresso organizzato dal MSI in una città che è medaglia d’oro della resistenza. Botte da orbi. Altro che blackbloc: davanti alla furia popolare la Celere batte in ritirata, i delegati missini si barricano in albergo. Ma i morti arriveranno qualche giorno dopo, negli scontri che si propagano a Reggio Emilia, poi a Palermo e Catania. Per le forze dell’ordine si tratta di lavare l’onta della débacle genovese. Bilancio: otto manifestanti ammazzati. Della repressione di quella vampata anti-fascista porterà per sempre lo stigma il Dc Tambroni, che da aprile guida un governo monocolore grazie all’appoggio imbarazzante dei missini. Nasce così la leggenda nera del premier democristiano cripto fascista. “In realtà Tambroni, imbeccato dal presidente Gronchi, aveva bussato anche alla porta dei socialisti per formare il governo, ma incassandone un rifiuto”, ricorda Franzinelli. Pochi anni più tardi, a intestarsi il “brevetto” del Centro-sinistra sarà –perfida ironia- il massimo rivale del marchigiano: Aldo Moro.

Arriva “Telesera”. Tambroni aveva scalato il potere dentro una rissa di contraddizioni che finiranno per stritolarlo. Anche con il sostegno del conterraneo Enrico Mattei, spiega Franzinelli, “si era presentato inizialmente come un –seppur spregiudicato- modernizzatore”. Per esempio puntando sulla comunicazione, creando uno smagliante quotidiano, “Telesera”, e mettendosi a libro paga fior fiore di giornalisti di altre testate, scandalistiche e non. Con il contributo di alcuni tra loro, oltre che dei soliti Servizi Segreti, il Tambroni ministro dell’Interno 1955-1959, eleverà ad arte una pratica che nelle trame italiane avrebbe conosciuto spettacolare fortuna: il dossieraggio. Passando di mano in mano, il “tesoretto” dei fascicoli ammonticchiati in epoca Tambroni approderà, via Sifar, nel grembo della P2 di Gelli.

Senonché, specie se li usi per tenere sotto schiaffo anche i compagni di partito, i dossier hanno il brutto vizio di tornarti in faccia come un boomerang. Da spione a spiato. Dopo la crisi dell’estate ’60, ad affossare in casa DC il clericale Tambroni non saranno tanto i gossip che gli attribuivano un legame con la maggiorata Sylva Koscina, quanto le informative che gli vennero puntate contro da Moro. Nei documenti, forniti dall’ineffabile generale dei carabinieri Giovanni de Lorenzo, la disinvoltura investigativa di Tambroni assumeva le tonalità inquietanti della macchinazione antidemocratica, vuoi della tentazione autoritaria. Va in scena perciò il teatrino delle accuse incrociate di golpismo: mentre le sinistre agitano lo spauracchio del colpo di Stato neofascista, Tambroni non molla i comandi, si incista nel rancore e nella paranoia: annusa ovunque congiure comuniste. Quinte colonne rosse perfino tra i gerarchi democristiani. Alla fine saranno proprio loro a staccargli la spina. Il 19 luglio lo convincono a dimettersi.

“Ancora sangue per Dracula?”  Non poteva durare. “Alle riunioni faceva sentire i capi corrente Dc sotto ricatto con allusioni velenose, come se li tenesse in pugno”, racconta Franzinelli. “Ma la verità è che, al di fuori del feudo elettorale marchigiano, tra i suoi non era mai stato amato”. Sin dall’inizio, l’ex dominus Fanfani “aveva avvertito che dietro la cortigianeria di Tambroni non c’era alcun progetto politico, ma solo fame di potere”. Prima che dai tumulti di piazza, l’ascolano azzimato e sempre elegante nei completi Caraceni finì disarcionato dal narcisismo di “una politica manovriera tutta centrata su se stessa”. In disgrazia, le vignette lo raffiguravano vestito da vampiro. Didascalia: “Ancora sangue per Dracula?”. L’arrivismo si confondeva ormai con un’immagine da feroce repressione tutto sommato ingiusta, ritiene Franzinelli: “Fu molto meno brutale di uno Scelba. Al manganello preferì sempre il dossier”.

Triste epilogo. Ma intanto tra i caruggi di Genova si era consumato un salto di qualità del conflitto sociale che negli anni a venire avrebbe avuto conseguenze pesanti. Perché, piegando il governo, la piazza innesca una Grande Paura alla quale, dal Piano Solo in poi, si reagirà con strategie anti-sovversione perlomeno torbide. Ma soprattutto perché, a differenza di quanto riferisce la vulgata, la sommossa genovese non portò la firma di Pci e Psi: “Partiti e sindacati vennero totalmente scavalcati”, sottolinea Franzinelli. Con lo slogan della “Resistenza tradita” si inauguravano forme di lotta e di violenza politica che gli anni ’70 avrebbero perfezionato. Nella calda estate del ’60 si squagliavano insomma le certezze del decennio precedente: sorta dalle ceneri del centrismo, l’effimera ma infausta alleanza coi missini fa esplodere tutte le contraddizioni del comparto democristiano. Mentre le sinistre classiche si scoprono improvvisamente incapaci di controllare le nuove rabbie sociali.

Quanto a Tambroni, il suo epilogo sarà tristissimo. Travolto da scandali finanziari, l’ex premier si rifugia come un animale ferito nella sua tana picena e il 18 febbraio del 1963 un infarto lo stronca nel sonno.

 

Marco Cicala

 

Articolo pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 24 luglio 2020, alle pp. 48-49.