Le lettere di Mary Wollstonecraft Shelley
L’epistolario racconta una donna geniale, nascosta dietro il mostro-mito di Frankenstein. L’amore appassionato per il poeta.
Nel “Venerdì di Repubblica” del 31 luglio 2015, alle pp. 100-102, è pubblicato un articolo di Valentina Della Seta su una raccolta di lettere di Mary Wollstonecraft Shelley mai pubblicate in Italia. Dopo la morte del poeta Shelley, suo marito, nel 1822, Mary torna a vivere a Londra dove morirà nel 1851. Le Edizioni della Sera hanno pubblicato nel 2017 l’ultimo suo romanzo, “Il segreto di Falkner”, curato e tradotto da Elena Tregnaghi. Un testo ponderoso, ricco di descrizioni naturalistiche e psicologiche, che miscela un’eroina affascinante e di impeccabili virtù, Elizabeth, il suo padre adottivo Falkner –che appunto nasconde un segreto doloroso-, una lunga serie di viaggi su e giù per l’Europa (e oltre) e altri personaggi che si uniscono all’intreccio in una catena di agnizioni. In questo romanzo emergono tutte le caratteristiche tipiche dell’autrice: l’eroe byroniano, la scrittura romantica, la ricerca della penetrazione psicologica. Questa diventa però appassionante quando racconta di abusi che colpiscono vari personaggi da bambini, uomini che ne risentiranno pesantemente in età adulta: narrazioni che mostrano da un lato la propagazione della catena della violenza, dall’altro una comprensione dell’animo infantile, all’epoca non comune. Mary propugna i valori familiari ma anche la parità femminile (quasi manda la sua eroina da sola in America per una missione impossibile), anzi sostiene proprio la famiglia e l’amore come doti femminee in grado di salvare il mondo.
Gennaro Cucciniello
Si intitola “I miei sogni mi appartengono” la raccolta di lettere di Mary Shelley mai pubblicate in Italia che escono adesso per “I pacchetti” di L’orma editore (introduzione, traduzione e note biografiche a cura di Marco Federici Solari, pp. 60, € 5. Il libro, come gli altri della collana, si può affrancare e spedire per posta).
Mary Shelley ha avuto una vita straordinaria. Prima dei vent’anni, tra il 1816 e il 1818 (era nata nel 1798), ha scritto il romanzo “Frankenstein”, mito moderno ormai radicato nell’immaginario collettivo, considerato tra le altre cose come la prima opera di fantascienza della storia e da cui sono state tratte infinite riduzioni per il cinema e il teatro –l’ultima nel 2011 per il National Theatre di Londra, diretta da Danny Boyle e interpretata da Benedict Cumberbatch e Jonny Lee Miller, che si alternavano sera dopo sera nei ruoli di Victor Frankenstein e della Creatura.
E’ leggendario anche il racconto della notte che portò alla nascita del libro. Ne scrisse Mary Shelley nell’introduzione all’edizione definitiva di Frankenstein nel 1831: “Nell’estate del 1816 visitammo la Svizzera e diventammo amici di Lord Byron”, scrive. Mary e il poeta Percy Shelley, sposato, erano partiti da Londra per allontanarsi dai creditori e dallo scandalo della loro storia d’amore. Viaggiavano con il figlio William di pochi mesi e la sorella acquisita di Mary, Claire Clairmont (che a Londra era stata l’amante di Byron e adesso era incinta di lui). “Ma quella si rivelò un’estate umida e inclemente, e una pioggia che non finiva mai ci confinava spesso in casa per giorni”, continua. Mary Shelley non può sapere che si trovano nel mezzo di quello che verrà ricordato come il terribile anno senza estate. La compagnia passava il tempo a leggere racconti gotici dell’orrore: “Ognuno di noi scriverà una storia di fantasmi, disse Lord Byron; e la sua proposta fu accolta da tutti”.
Ma se i poeti presenti nella stanza non ne trarranno nulla di compiuto, Mary Shelley e John William Polidori, giovane belloccio e ambizioso che seguiva Byron come medico personale, avranno l’idea per due degli archetipi fondanti dell’immaginario horror contemporaneo: da una parte la creatura mostruosa di Frankenstein, dall’altra Il vampiro, scalcinato e ingenuo come può essere un libro scritto in tre giorni, ma che ha dentro il germe di quello che poi diventerà il Dracula di Bram Stoker (1897).
C’è da dire che Byron e i suoi amici erano, per l’epoca, la cosa più vicina a delle celebrità come le conosciamo oggi. Byron era oggetto di culto e pettegolezzi nei salotti di tutta l’Europa, riceveva per posta dichiarazioni d’amore e proposte di matrimonio, e si portava dietro la fama che gli aveva dato il commento di Lady Caroline Lamb, una delle sue amanti abbandonate: “Mad, bad and dangerous to know” (letteralmente, ma non rende: pazzo, cattivo e pericoloso da frequentare). Va ricordato anche solo per togliere la polvere dall’idea che può dare il racconto di fatti avvenuti quasi duecento anni fa. Questi ragazzi, un po’ come la Marie Antoinette di Sofia Coppola, vivevano a colori e sapevano di farlo. Le lettere di Mary sono l’occasione per infilarsi nelle pieghe di una vicenda nota, e illuminarne dettagli non ancora conosciuti.
Ecco cosa scrive Mary all’innamorato poeta Shelley: Clifton, 27 luglio 1815. Mio amato Shelley, quello che ti sto per scrivere non è frutto di una fisima ingenerata da un momento di abbattimento, ma è una richiesta seria e precisa che ti chiedo di adempiere: non dobbiamo più stare lontani! Mi rende infelice: mi ritiro nella mia camera e non c’è il mio dolce amore, ceno e Shelley non è da nessuna parte, anche se ho tonnellate di dettagli da raccontare… Per farla breve, o torni o vengo io (…) Domani è il 28 luglio, non dovremmo proprio essere separati in questo giorno, e la tua assenza qualche lacrima me la strapperà”.
E poi Mary scrive da Ginevra il 17 maggio, un mese prima della famosa notte di Villa Diodati: “Durante la canicola meridiana leggiamo libri in latino e in italiano, e al tramonto passeggiamo nel giardino dell’albergo, guardiamo i conigli, soccorriamo i maggiolini caduti in terra e contempliamo i movimenti di miriadi di lucertole che popolano il muro a sud del parco. Come sai, siamo appena scappati dal buio di Londra e dell’inverno”.
In quel momento non sa che il buio e l’orrore le stanno dando la caccia. Nel 1817 perderà Clara, la figlia di Shelley di quasi un anno che muore durante un viaggio verso Venezia. Nel 1819 a Roma muore, dopo aver contratto la malaria, anche il primogenito William. Nonostante il dolore acutissimo, forse Mary è uno di quei casi rari in cui il proprio marito (con Percy Shelley si erano sposati a Londra alla fine del 1816) resta in cima ai pensieri d’amore anche dopo la nascita dei figli.
Purtroppo anche il marito poeta muore. Nel 1822, durante una traversata in barca nel golfo della Spezia con l’amico Edward Williams. Mary scrive all’amica Maria Gisborne: “Pisa, 15 agosto 1822. Il mio malumore cresceva. Lo pregai per lettera di invertire la rotta: “Il sentimento di una qualche disgrazia imminente mi ossessiona”, gli scrissi. Le mie paure si concentravano su nostro figlio. Il timore che il pericolo incombesse su Shelley non mi passò mai per la testa. Mentre Jane e Claire si dedicavano alle loro passegiate serali, io facevo la ronda sulla terrazza, oppressa dall’angoscia, anche se di fronte a me si stendeva il panorama più bello del mondo. Il Golfo della Spezia è suddiviso in molte piccole baie di cui la nostra era la più incantevole”.
E poi nello stesso anno scrive a un’amica italiana: “Sono stata fortunata ad aver messo senza paura il mio destino nelle mani di un essere superiore, un luminoso spirito cosmico, custodito in un tempio terreno, che mi ha fatto toccare le vette della felicità. Sono stata così felice che non cambierei la mia condizione di vedova di Shelley con quella della donna più agiata del mondo, e sono certa che col tempo ritroverò la pace, e la mia mente e il mio cuore non saranno più preda di un’angoscia senza nome”.
In una lettera successiva alla stessa amica fa un lungo resoconto dei giorni terribili in cui Shelley e Williams erano dispersi. Come scrive Marco Federici Solari: “Si tratta di un piccolo capolavoro narrativo, carico di sogni, presagi e suspense, in cui Mary conferma tutte le sue doti di grande scrittrice gotica e horror, riuscendo a trasformare in accorata e appassionante comunicazione agli altri i materiali incandescenti del suo dolore immenso”.
Mary non si sposerà più. Tornerà a vivere a Londra con il figlio Percy Florence (nato nel 1919), continuando a scrivere e a curare l’opera del marito. Di lei ci resta, oltre a Frankenstein, l’idea di un nuovo modo di vivere, nuovo per il suo tempo e valido ancora oggi. Come scrive il curatore nell’introduzione a “I miei sogni mi appartengono”: “La felicità come un dovere, l’amicizia come una religione e l’esistenza tutta come un esperimento di libertà, coraggio e responsabilità”.
Valentina Della Seta