Liberiamoci dalla nostalgia del fascismo
Nel suo ultimo saggio lo storico Francesco Filippi indaga i motivi per cui molti italiani sono ancora sensibili alle sirene autoritarie. E avverte: “Superata la pandemia del Covid-19, dovremo imparare la normalità”.
Nel quotidiano “La Repubblica” di domenica 24 maggio 2020, alle pp. 32-33, è riprodotto un articolo-intervista di Paolo Griseri che commenta l’uscita dell’ultimo saggio di Francesco Filippi, “Ma perché siamo ancora fascisti?”, Bollati Boringhieri. Forse è utile una precisazione: il 25 giugno 1943, un mese esatto prima della caduta ufficiale del fascismo, il segretario nazionale del PNF, Carlo Scorza, dichiarava con soddisfazione che il partito fascista aveva ben 4.770.000 iscritti, l’11% della popolazione italiana di allora, neonati compresi. E c’è da riflettere anche sul giudizio sferzante di Churchill: “Strano popolo, gli italiani. Un giorno ci sono 45 milioni di fascisti, il giorno dopo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure il censimento non riporta l’esistenza di 90 milioni di italiani”.
E dunque: ma perché siamo ancora fascisti? Un enigma mai chiarito di questo nostro Paese che riesce ad essere sempre tutto e il suo contrario. Le risposte a questa domanda sono molte e il libro di Filippi non ne trascura alcuna. Dalla necessità di garantire la continuità di uno Stato in cui il fascismo era ovunque alle diverse letture della lotta partigiana. Un punto decisivo, quest’ultimo, visto che a prevalere dopo la guerra non sarà lo schema di Gramsci e Gobetti ma quello di Croce, secondo il quale il regime fascista era stato un incidente e non il frutto delle dinamiche degli anni Venti. Ma soprattutto: l’attenzione politica ha ridotto l’esperienza del fascismo italiano ai suoi ultimi anni, quelli di Salò, rimuovendo il ventennio. Nei suoi vent’anni di regime il fascismo ha costruito, invece, un’intera classe dirigente: non solo a livello politico ma anche nelle strutture dell’amministrazione, dell’economia e della cultura.
Sulla forza di penetrazione dell’ideale fascista nella società italiana è possibile leggere E. Gentile, “Modernità totalitaria”, Laterza 2008 e A. Tarquini, “Storia della cultura fascista”, Mulino, 2011.
Gennaro Cucciniello
Il fascismo? Una narrazione tragica. La lezione? “Stare molto attenti a come si passa dalla cronaca alla storia. Un ammonimento che vale anche oggi, all’uscita del confinamento. Quel che ci racconteremo su questi due mesi di blocco sarà decisivo per capire se l’uscita dall’epidemia ci consegnerà un’Italia più autoritaria o più solidale”. Francesco Filippi è stato definito “storico della mentalità” per quella sua capacità di indagare l’animo profondo della società italiana. Lo ha dimostrato nel suo primo testo di successo, “Mussolini ha fatto anche cose buone”, lo conferma in quello nuovo, “Ma perché siamo ancora fascisti?”, in questi giorni in libreria per Bollati Boringhieri.
Filippi, prima dell’epidemia la società italiana mostrava segni di attenzione, almeno in alcune sue componenti, alle sirene autoritarie, se non proprio fasciste. Questi due mesi ci hanno cambiato anche in questo?
Dipende da come ce li racconteremo questi due mesi. E io non so prevedere il futuro. Mi occupo del passato, sono uno storico. Queste settimane hanno certo stressato il nostro concetto di democrazia. Non poteva essere altrimenti. Di fronte a un grave allarme, a uno stato di necessità, a un momento emergenziale (il più grave in Italia dai tempi della seconda guerra mondiale) è inevitabile che i diritti di uno Stato democratico siano compressi. Ora, nella fase due, si gioca tutto: nei prossimi mesi i cittadini italiani dovranno dimostrare la capacità di riconoscere che quella della circolazione limitata, del coprifuoco totale non può essere la normalità. Dovremo anzi imparare a rifare la normalità, dimenticare i riflessi d’ordine di questi mesi.
Sul riflesso d’ordine si gioca la nostalgia del fascismo in Italia?
Considero significativo il fatto che una parte consistente delle leggi fasciste del Ventennio non siano state abolite nella Repubblica. Perché l’idea d’ordine che garantivano era comunque utile a un certo discorso pubblico. Fino al paradosso che in alcuni campi l’applicazione delle leggi fasciste rimase molto severa anche in democrazia.
Pensa alla censura?
Esattamente. La censura sui film esercitata negli anni ’50 e ’60, utilizzando proprio le leggi fasciste, fu durissima. Un caso, non l’unico ma certo istruttivo, di una specie di ultrattività del fascismo, che sopravvive e continua ad operare anche dopo la sua morte ufficiale.
Che cos’è il fascismo oggi?
Il fascismo in senso storico è morto con Mussolini. E’ cominciato nel 1919 ed è defunto nel 1945. Sono rimaste in Italia formazioni politiche che si rifacevano a quel periodo, come l’MSI di Giorgio Almirante che ha avuto trasformazioni e che ha eredi ancora oggi. Ma il fascismo, aveva ragione Umberto Eco, non è una filosofia. E’ piuttosto una retorica, un modo di raccontare la società. Un modo di vedere che riemerge quando il racconto democratico viene meno, mostra la corda. Allora, in quei momenti, si mitizzano i racconti del passato e riemerge la nostalgia del fascismo.
Quando è accaduto questo?
Diverse volte nella nostra storia. L’operazione nostalgia ha cominciato ad avanzare in modo più evidente con la fine della prima repubblica. Con tangentopoli e la fine dei grandi partiti di massa c’è stata una specie di liberi tutti. Abbiamo gettato il bambino con l’acqua sporca, la vigilanza contro le derive autoritarie insieme alla corruzione della fine degli anni ’80.
Fu quell’ubriacatura a farci perdere il senso del limite, a sdoganare anche il fascismo?
Fu soprattutto la sottovalutazione del fascismo, un errore che ha attraversato la cultura italiana del ‘900. Benedetto Croce ne parlava come di una malattia, una battuta d’arresto nella storia dell’Italia risorgimentale. Un racconto auto-assolutorio: se siamo stati malati non eravamo pienamente consapevoli di quel che facevamo. Se era una malattia, passata l’influenza siamo tornati sanificati. Il problema del fascismo non c’è più.
Perché questa impostazione è un errore?
Perché se è una malattia, il fascismo è una malattia cronica della democrazia. Non lo si sconfigge una volta per tutte. La democrazia va curata continuamente, come dimostra la deriva autoritaria anche in Paesi di solida tradizione democratica dove, ad esempio, si viene meno al principio fondamentale di tutela delle minoranze.
L’ultimo capitolo del libro è sulla difficoltà dell’Italia a fare i conti con il fascismo. Al contrario della Germania che ha avuto il coraggio di guardare in faccia il suo passato. Come si spiega lo strabismo italiano?
I conti con il fascismo sono molto difficili da fare e volutamente nessuno li fa. Nel dopoguerra il presidente tedesco Richard von Weizsaecker parlò della sconfitta del nazismo come di una liberazione. Termine molto forte per un popolo che aveva pagato la guerra con milioni di morti. Gli italiani, al contrario, si sono ritagliati il ruolo di comprimari. Anche nei film gli ufficiali tedeschi erano i cattivi, quelli italiani i loro aiutanti. Una scelta auto-assolutoria.
Qual è il motivo storico di questo atteggiamento?
In Germania fino all’ultimo giorno della guerra c’era un esercito che difendeva il nazismo. Poi arrivarono gli alleati e si occuparono di eliminare il nazismo dalla società tedesca. Da noi non andò così. Il fascismo cadde il 25 luglio del 1943 e per due anni ci furono tre diversi governi nel territorio: la repubblica di Salò, il CLN e il regno del Sud. Defascistizzare l’Italia era complicato. Chi era fascista? Chi aveva la tessera del partito? Tutti! La defascistizzazione non ci fu. Avrebbero dovuto realizzarla i tribunali dove i magistrati erano fascisti o i prefetti che arrivavano dal Ventennio. Così non se ne fece nulla. I tedeschi hanno eliminato in modo meticoloso i termini, come Reich, riconducibili al periodo nazista. A Roma il fascismo sopravvive ancora nella toponomastica, come dimostra l’esistenza di via dell’Amba Alagi.
Sopravvivenze, indulgenze, nostalgie autoritarie. Teme il ritorno del fascismo in Italia e in Europa?
Quel che è accaduto cento anni fa non si ripeterà. Non rivedremo la camicia nera per le strade. Ma che ci sia il pericolo di una deriva autoritaria è indubbio. L’autoritarismo esercita il suo fascino. Guardi che cosa accade nell’Ungheria di Orban. Dove sono state utilizzate le leggi di emergenza contro la pandemia per incarcerare gli oppositori politici. La Storia, diceva Marc Bloch, grande storico e partigiano, non si ripete, Ma fa le rime.
Paolo Griseri Francesco Filippi