L’igienista dentale, le puttanelle, i lenoni, gli onorevoli e il satiro Priapo.
“Su issu’ poggiuolo il mascelluto, tronfio a stiantare, a quelle prime strida della ragazzaglia e’ gli era già ebbro d’un suo pazzo smarrimento, simile ad alcoolòmane, cui basta annasare il bicchiere da sentirsi preso e dato alla mercé del destino. Indi il mimo d’una scenica evulvescenza, onde la losca razzumaglia si dava elicitare, properare, assistere, spengere quella foja incontenuta. Il bombetta soltanto avea nerbo, nella convenzione del mimo, da colmare ( a misura di chella frenesia finta) la tromba vaginale della bassàride. Una bugia sporca, su dalla tenebra delle anime. Dalle bocche, una bava incontenuta. Kù-cè, Kù-cè, Kù-cè, Kù-cè. Cuce il sacco delle sue vantardige un gradasso: capocamorra che distribuisce le coltella a’ ragazzi, pronto sempre da issu’ poggiuolo a dismentire ogni cosa, a rimentire ogni volta” (p. 14) (…)
“Tanto meno poi la potrebbe accodarsi, dico la funeraria priapata di codesto cervellone, a’ moltiplicati moduli d’una reticenza pensosa, d’uno stanco desiderio della solitudine propria, d’un disdegnoso dispregio delle mandre e delle dignità molli e corrotte, curuli e plebee, d’un già valido senno, d’un fraterno lutto, d’un rancuroso delirio persecutivo, d’una fantasiosa girandola di turpitudini senili: in che poco a poco s’avviluppò, e declinò e lenta si spense” (p. 16) (…)
“Questo qui, Madonna bona!, non avea manco finito di imparacchiare quattro sue scolaresche certezze, che son qua mè son qua mè, a fò tutt mè a fò tutt mè. Venuto dalla più sciapita semplicità, parolaio da raduno communitosi del più misero bagaglio di frasi fatte, tolse ecco a discendere secondo fiume dietro al numero: a sbraitare, a minacciare i fochi ne’ pagliai, a concitare ed esagitare le genti: e pervenne infine, dopo le sovvenzioni del capitale e dopo una carriera da spergiuro, a depositare in càtedra il suo deretano di Pirgopolinice smargiasso, addoppiato di pallore giacomo-giacomo, cioè sulla cadrèga di Presidente del Conziglio in bombetta e guanti giallo canarino. Pervenne, pervenne” (pp. 17-8) (…)
“La nube fumogena delle frasi celò a tutti, nella caciara dei retori e degli apologeti, nonché lo zelo redditizio degli obbedienti ma il sopravvenire del destino: che già n’era sopra, ferocemente, da dritta: gli ascose a tutti infino all’ultimo la prora terribile, il tagliamare aguto di quel caccia che fu battezzato “Nemesis”. Che consegna ad abisso qualunque si addà mentire a la ragione, mentire a sé stesso. Alla barra, guà’! ci sta il Lgos: ch’è altro e di più sagacia armirato non fosse il tubino, il fàss tutt mè, il son chè mè: pilota e bagnasuga del cavoletto. Lui, il lungimirante, impose prima (curtello a la cintola), di poi avea l’aria d’implorare da tutti, guaiolando, come un canin pestato, il silenzio” (p. 22). (…)
“Ma te ti dimandi mai, o a vespero o a mattutino, quanti di noi fussino o in facto sono e’ ladri? quanti i lor complici? quanti gli assassini e predoni? quanti i concessori? quanti i bari? quanti i simoniaci e compromettitori, agli uffizi e a le chiese? quanti i maquero, sive parasiti a le poarine? quanti soltanto anche i poltroni, i giuggioloni, i pavoni beati a passeggio in sul Vittorio Emmanuele? quanti i bevitori di bitter? quanti i cik-cik, ma dicano in brache large e ‘n camicia porpurina d’aver udito sparo a Bezzecca? Dico quanti percentualmente?
Tu te fumi, pùf pùf, dandoti di grand’arie per questo. E allor che vai a bottega di tabacchi, o entri, pavone, il caffè, là dove c’è la tu’ nicchia ad accoglierti, con il nimbo di fil di ferro già predisposto a nimbare la santità gloriosa d’i’ccervellone d’un tanto piccio, be’ te tu t’ha mai noverato tutti l’omìni che vi stanno? E zerbinotti di poche castella, e di meno voglia a murarne? E chi gioca, mesto, le dame: e chi scaracchia: e chi si gratta i ginocchi: e chi non dice nulla, e t’isguarda, perché la Sibilla non dice se non dimandata e remunerata ad anticipo, e anco quel poco per ambage. Ed è all’ore di luce e di lavoro: che in sull’opere si batte ferro: e che il capo maestro garrisce i giovani d’in sul palco lassù” (pp. 25-6) (…)
“Ora tutto ciò è Eros, non Logos. Non nego alla femina il diritto ch’ella “prediliga li giovini, come quelli che sono li più feroci” (Machiavelli, “Il Principe”) cioè i più aggressivi sessualmente; ciò è suo diritto e anzi dirò suo dovere. Non nego che la Patria chieda alle femine di adempiere al loro dovere verso la Patria che è, soprattutto, quello di lasciarsi fottere. E con larghezza di vedute. Ma li giovini se li portino a letto e non pretendano acclamarli prefetti e ministri alla direzione di un paese. E poi la femina adempia ai suoi obblighi e alle sue inclinazioni e non stia a romper le tasche con codesta ninfomania politica, che è cosa ìnzita. La politica non è fatta per la vagina: per la vagina c’è il su’ tampone appositamente conformato per lei dall’Eterno fattore e l’è il toccasana dei toccasana; quando non è impestato, s’intende. Talune gorgheggiavano e nitrivano gargarizzandosi istericamente (…) Questi accenni denunciano il mio pensiero: Eros nelle sue forme inconscie e animalesche, nei suoi aspetti infimi e non ne’ sublimati e ingentiliti, ha dominato la tragica scena. Vent’anni. Logos è stato buttato via di scena dalla Bassaride perché inetto a colmare la di lei pruriginosa necessità. Ma la funzione di Logos non è quella di satisfare alle vagine, ma di predisporre l’andamento generale del laborioso incedere umano (…)” (pp. 42-3).
“Ma su molt’altre, mogli o figlie di futuri profittatori, di cogerenti dell’Idea, sull’ovario di molt’altre il Priapo-Imagine agì con distribuzione reale di doni e di favori tangibili, e tatti. A traverso “gli speciali meriti politici” o i “delicati incarichi” o la già acquisita “influenza” dei loro protetti, dalla cornucopia inesausta del Verbo sterile sgrondolò fuori per esse dono di susine e di rotolanti noci e corbezzoli e pomi con giuggiole, mellìache, pere e peronzoli e castagne delicatissime e fichi: materassi nuovi, automobili, quartieri e quartierini, pellicce e renards e renardini, ori, villeggiature, crociere gratuite e bidets di lapislazzuli (…) (p. 61).
“Sul palco, sul podio, la maschera dello ultraistrione e del mimo, la drammaticità falsa de’ ragli in scena, i tacchi tripli da far eccellere la su’ naneria: e nient’altro. Ne consegue l’esibizione fisica; dico la sibizione del corpo, del proprio e tronfio, e di quello delle “giovani generazioni”, la cui moltiplicata bellezza è veduta ed esibita come propria” (pp. 187-8).
Carlo Emilio Gadda, “Eros e Priapo. Da furore a cenere”, Garzanti, 1967
Sanno dire i miei lettori di chi parla, a chi si riferisce il nostro grande scrittore?
Gennaro Cucciniello