L’Illuminismo del Kazakistan
Intorno all’anno Mille l’Asia centrale fu una culla di civiltà, una crocevia di traffici, una sede di raffinate elaborazioni culturali.
Selvaggia e immensa è la steppa kazaka. Selvagge le tribù che la abitano. In più punti del suo straordinario libro, “Il grande gioco” (Adelphi), Peter Hopkirk ritorna con questo refrain sul Kazakistan prima della conquista russa, avvenuta tra gli anni Venti e Cinquanta dell’Ottocento: terra inospitale, per molti versi, che diventa componente fondamentale dell’impero sovietico e che, dopo la sua caduta, appartiene a quel gruppo di nuove nazioni che formano oggi uno dei maggiori terreni di competizione tra le grandi potenze. Perché “non è un segreto che in questi territori si trovi –scrive Hopkirk- una delle prede più ambite nel XXI secolo: gli immensi giacimenti di petrolio e di gas naturale”.
In questo nuovo grande gioco, il Kazakistan appare come un luogo associato, è cronaca attuale, a un regime instabile e violento, soggetto a rivolte come quelle represse nei giorni scorsi, poco incline alle migliori pratiche della democrazia, prono a strategie pensare altrove, a Mosca, a Pechino.
Ma non è sempre stato così. C’è stato un lungo momento in cui il Kazakistan è stato parte di un variegato mondo dell’Asia centrale che ha espresso una grandissima civiltà, in tutti i sensi –culturale, sociale, economica. Un universo vasto che non si limitava al solo Kazakistan, ma si estendeva dal Caspio alle regioni adiacenti il Pakistan settentrionale, alla provincia cinese dello Xinjiang (che rimase a stragrande maggioranza turca e musulmana fino all’avvento del potere comunista nel 1949), all’Afghanistan, al Khorasan, in persiano “la terra dove nasce il sole”. Uno spazio di enorme diversità topografica. Luogo delle steppe erbose kazake, la più grande prateria del nostro pianeta. Dell’interminabile serie di deserti come il minaccioso Taklamakan, “un deserto così secco che le sue sabbie conservano torsoli di mela per tremila anni”, nota S. Frederik Starr. Delle gigantesche catene montuose che includono alcune tra le vette più alte del mondo, come il Pamir o il Karakorum.
Eppure, nonostante le differenze, questo universo centro-asiatico fu culla di una società per molti versi unica, espressione di una medesima koiné, pluralistica ma omogenea. L’epoca? Quel lungo segmento temporale che va dal 750 d.C. circa, quando il califfato omayyade di Damasco viene travolto dall’ondata abbaside, al lungo declino cominciato alla metà del XII secolo e culminato con la violenza mongola di Gengis Khan.
Date di comodo, che però scandiscono il tempo del cosiddetto Illuminismo musulmano. Animato dalla spinta religiosa islamica, senza dubbio. Ma unito da due grandi lingue veicolari, l’arabo e il persiano: potenti strumenti di trasmissione culturale che consentirono la diffusione di opere e di conoscenze provenienti dal pensiero greco, latino, persiano, indiano, cinese; in grado di imprimere dinamismo ai flussi di uomini di scienza, matematici, medici, letterati, poeti.
Tra i motori principali di questa civiltà ci furono le città, che funzionarono da grandi empori con la formazione di una qualificata classe di mercanti che animò i principali tracciati di scambio dell’epoca che conosciamo come Vie della Seta. Un cosmo eccezionale, con le città-oasi e le metropoli-faro di Balkh, Mery, Otrar, Shiraz, Samarcanda, Bukhara, Nishapur, Herat, Kabul. Centri dalle misure fantasmagoriche per quel tempo, capaci spesso di raggiungere, ciascuna, le centinaia di migliaia di abitanti e alcune sfiorare il milione; e con le quali potevano rivaleggiare, a cavallo del Mille, solo le metropoli cinesi. Imparagonabili con le città europee di allora, al confronto minuscole, isolate, trascurabili.
Fu attraverso le città asiatiche che transitarono i prodotti più ricercati, a irrorare uno spazio che andava dalla Cina al mare del Nord e al Mediterraneo: pepe, spezie, prodotti farmaceutici, cotone, tessuti di lino, sete pregiate, profumi, porcellane, ambra, oro, avorio, carta, argento, lapislazzuli. E, con le merci, viaggiarono idee e uomini. In una manciata di decenni compaiono sulla scena personaggi straordinari. Ne citiamo qualcuno. Il matematico Al-Khwarizmi (790-850 ca), ad esempio, considerato uno dei padri dell’algebra e dal cui nome proviene la parola algoritmo. L’enciclopedico Biruni (973-1048), il cui sapere spaziò da un campo all’altro dello scibile: dalla matematica (fu uno degli studiosi favorevoli all’importazione dall’India dei concetti di zero e di numero negativo), alla chimica (basandosi sull’opera di Archimede, fu il primo a misurare la durezza dei minerali e il loro peso specifico), agli studi sociali, comparativi e antropologici. Per Starr “il più grande studioso della società vissuto tra Tucidide e i tempi moderni”. In filosofia questo mondo raggiunse il suo apogeo con Ibn Sina, il nostro Avicenna (980-1037 ca), esponente di un ambiente cosmopolita, individualista, profondamente umanista, scettico, irriverente, profano. Le cui influenze avrebbero condizionato in maniera decisiva non solo la cultura musulmana, ma quella cristiana ed europea. E non è uno scandalo sostenere che senza l’Illuminismo musulmano non ci sarebbero stati la rinascita occidentale del XIII secolo né il Rinascimento.
Questi sono solo alcuni nomi che illuminarono l’Asia centrale. Punta dell’iceberg di un coacervo di genti di cultura e costumi differenti, come scrisse lo storico francese Maurice Lombard “catturati in una rete di relazioni urbane che costituì l’elemento essenziale di questa civiltà a carattere sincretico”. Età eroica che deve fare riflettere sui caratteri di questa parte del mondo considerata spesso, a torto, un luogo esotico ma periferico, pericoloso, arretrato. La cui storia racconta invece un destino completamente diverso: di una regione che fu per un certo numero di secoli il perno non solo dell’attività scientifica, intellettuale e culturale, ma anche sociale ed economica dell’intero spazio eurasiatico. Ponte tra Oriente e Occidente, crocevia di civiltà.
Amedeo Feniello
L’articolo è pubblicato ne “La Lettura” del 23 gennaio 2022, supplemento culturale del Corriere della Sera, a pag. 45.