Il destino dell’Italia è quello di essere umile
Le volontà egemoniche non appartengono alla storia del nostro Paese. Come insegnano i grandi. Da Dante a Machiavelli, da Guicciardini a Leopardi.
Nel numero de “L’Espresso” del 14 agosto 2016, a pag. 23, è stato pubblicato un articolo di Massimo Cacciari che ho letto con estremo interesse. Come al solito si possono non condividere interamente le sue tesi ma si devono apprezzare la profondità dei concetti, la solidità dei pensieri, la passione dell’argomentare. Mi ritornano in mente le notazioni di F. Cassano nel suo saggio, “Paeninsula. L’Italia da ritrovare”, Laterza, 1998: “A guardarla sulla carta geografica la penisola italiana ha delle caratteristiche particolari. Essa non si lancia verso il vuoto dell’oceano, non si libra in mari freddi, non si allontana mai troppo dalle coste altrui. Essa non ama separarsi del tutto e cercare la propria differenza in una purezza incontaminata, preferisce tenersi a contatto, poggia una mano sulla ringhiera. Non c’è l’orgoglio e la solitudine, non ci sono la fierezza e il silenzio, foreste impenetrabili, coste scoscese e inespugnabili. Anche quando ci si raccoglie in un eremo, questo non è lontano dal sistema urbano, dalla disseminazione vociante delle città (…) Gramsci aveva scritto che “la funzione internazionale e cosmopolita degli intellettuali italiani è causa ed effetto dello stato di disgregazione in cui rimane la penisola dalla caduta dell’impero romano al 1870”. E se invece questo cosmopolitismo non fosse solo un limite, se in esso si riflettesse un valore che piuttosto che disprezzare occorrerebbe riscoprire e potenziare, se in questa eredità cattolico-romana ci fosse il riflesso di una vocazione geopolitica della penisola all’apertura, qualcosa che precede e spiega l’impero romano e la Chiesa cattolica, una spinta a contenere dentro di sé il mondo, un’idea universalistica della civica, una critica del nazionalismo che viene da quei confini deboli, da quell’antico rimescolio di storie, nomi e colori (Bianchi, Nigro, Russo, Verdi) che il mare ha depositato sulle nostre rive lunghe?”. Buona lettura.
Gennaro Cucciniello
Non si agita soltanto sulle vette della nostra storia letteraria ma vive anche sulle piane del nostro senso comune un invincibile sentimento di “amo et odi” per il Paese “là dove il sì suona”. E’ bella l’Italia (“Suso in Italia bella giace un laco…”), eppure “prava” (“In quella parte della terra prava / italica…”); è il “giardin de lo imperio”, eppure straziata da discordie di ogni tipo, “nave senza nocchiere”, tutta che piange, come la sua Roma “vedova e sola”.
Un conflitto tra nostalgia e condanna, tra una bellezza che ci si ostina a credere presagio di meravigliose sorti e l’attuale miseria del suo stato, tra l’immagine della “nobilissima regio” che abitiamo e l’impotenza politica che l’affligge. Autori e epoche, da Dante in poi, hanno avanzato le loro diverse diagnosi su questo stato di perenne crisi in cui sembra versare l’idea stessa di Italia, ma la “dominante” è una sola: la sua bellezza non salva, e tuttavia ad essa non possiamo cessare di volgere il nostro amore e le nostre speranze. “Italiam fugientem…” così la scorgeva il padre Enea avvicinandosi attraverso dolori inenarrabili alla terra che gli dèi avevano destinato. Italia che fugge –patria che tanto desideriamo, quanto sembra attenderci oltre l’ultimo orizzonte. Siamo così certi che sia questa una condizione assolutamente negativa, da superare e basta? Che in ciò consista il nostro limite fatale? Non aver una “solida” patria, non essere una nazione, animata da un solo spirito, vivere “dispersi” per tante città e tanti luoghi, senza “capitale”, manifestare tante usanze e consuetudini, ma non un ethos comune. Certo, quando tutto ciò dà vita al più freddo egoismo, al cinismo per cui “non è infamante la colpa ma la punizione” (Leopardi), che Italia fugga è solo un vizio, un male radicale, che condanna. Ma ancor più ci ha afflitto e impedito il “volo” continuare a pensare che l’Unità costituisca il rimedio, che il Modello sia quello di Francia con Parigi, di Prussia con Berlino, di Albione con Londra, il grande mito dello Stato.
“Italia che fugge…”, una patria “libera” dall’ossessione della patria potestas, una patria da ricercare sempre, di un amore che si alimenta amando, mai alla mèta, mai sicuro di sé, mai quieto possesso. Se la nostra destinazione, ciò cui la nostra storia ci destinava, fosse stata, e magari ancora fosse, di inventare e costituire una matria? Accogliere in sé i distinti, riconoscerne la singolarità e federarli. Attraverso vincoli di amicizia. La grande cultura italiana, maestra d’Europa, nasce nel segno di questa parola-chiave: si veda il Dante del “Convivio” e del “De vulgari eloquentia”. E amici si può essere soltanto tra liberi, coscienti che la stessa potenza di ciascuno dipende dalla solidità e operatività del rapporto con l’altro. La patria potestas sottomette per natura, e i popoli se ne dimostrano ogni giorno di più insofferenti; disiecta membra di piccole comunità locali possono magari distruggerla, ma senza nulla creare; la vivente complessità di luoghi, città, idiomi federati insieme –non potrebbe essere questa, invece, l’idea che germoglia sotto la maschera dell’Italia “che manca”? Complessità della città mediterranea, pensiero meridiano. Non potrebbe l’Italia “che manca” far balenare agli occhi (se ancora ne dispone) dell’Europa proprio una tale idea?
Immaginazione soltanto? Può darsi –ma è il nostro passato a ispirarla. E lo studio del passato diventa sedentaria erudizione quando non ispira a pensare in nuove forme il presente e ad agirvi. Certo, con tutta la consapevolezza dell’irripetibilità, e tutta la necessaria ironia. Un mosaico di popoli e tradizioni è l’Italia, anche molto dopo la “conquista” romana; già all’alba della nostra storia esistono città dove queste distinte genti si incontrano e si assimilano, dove i culti si meticciano. Così nasce Roma stessa, concordia discors, asilo per “gente oscura e umile” proveniente da ogni luogo, “di una folla di gente d’ogni sorta, senza distinzione alcuna di liberi e servi” (Livio). Nessuna unità di sangue, di razza, ma costruzione razionale di un patto, di un foedus capace di riconoscere e tutelare ciascuno “salvando” così l’intero. Anche i più aspri conflitti vanno regolati verso una tale fine: l’Enea virgiliano rimane il vinto di Troia, e perciò mai arrogante, desideroso, anzi, di far partecipare lo sconfitto alla sua stessa vittoria. Vittorioso davvero è chi “debella i superbi”. L’Italia –così nei grandiosi versi danteschi- è rappresentata tanto dagli eroi troiani quanto da quelli che li combatterono: per la “salute” di questa “umile Italia” “morì la vergine Cammilla / Eurialo e Turno e Niso di ferute”.
I grandi disegni provvidenzialistici, le volontà egemoniche volte ad “interrare” le differenze, la boria intellettuale di chi pretenderebbe di porre la storia sotto il segno esclusivo della Ragione, sono tratti alieni all’umile Italia. I suoi grandi dipingono l’effettuale: per quanto doloroso cercano di dire il vero, e il loro dire ha l’aspro suono dell’esperienza vissuta, del mestiere di vivere. Da Dante all’umanesimo tragico dell’Alberti, a Machiavelli, e forse ancor più a Guicciardini, al Leopardi, ma anche al Manzoni, è tutta una lezione di disincanto, di spes contra spem, di disprezzo feroce contro ogni retorica, ogni chiacchiera vana su quei “valori” universali e eterni, che mai vengono lucidamente analizzati e tantomeno realizzati. Il genus italicum è una formidabile lezione sull’ipocrisia di politici e clerici, pur senza alcuna concessione al culto del “popolo” e della sua naturale “bontà” (la storia manzoniana della “colonna infame”!). Esso sa disilludere e demistificare ma sa anche immaginare. Senza questa doppia virtù, senza questa Italia, l’Europa potrà sopravvivere soltanto nel segno della sua unica moneta ma in hoc signo non vincerà su nessun campo.
Massimo Cacciari