Lucio Piccolo, “Vie del silenzio”, dalla raccolta “La seta”. Un’audace, adolescenziale ipotesi interpretativa.
Questo è un testo scritto nel marzo del 1992, in una prova di concorso di scrittura, in classe e della durata di cinque ore, da un mio studente del quarto anno del Liceo Scientifico Sperimentale “L. Stefanini” di Venezia-Mestre. L’esercitazione dimostra che un ragazzo di diciassette anni può essere capace di un’analisi acuta e paziente, ricca di interessanti osservazioni, impreziosita da personali suggestioni e strutturata su solide basi metodologiche. Non ci sono notizie e valutazioni sull’autore (biografia, ideologia, poetica) e sulla raccolta poetica perché il testo è giunto agli studenti senza alcuna informazione e introduzione. Tanto più importante perciò risulta la personale “fatica del concetto” che l’autore ha dimostrato e che sottopongo ben volentieri al giudizio dei lettori. Il lavoro si conclude frettolosamente perché le cinque ore previste erano passate.
Questa analisi, scritta nel lontano 1992, si è raccordata, quasi per miracolo, alle sensazioni che ho provato, qualche giorno fa, aggirandomi negli spazi della mostra che Ferrara-Arte ha dedicato a Jean Siméon Chardin, pittore francese del ‘700. Quei piccoli quadri, raccontando un mondo rarefatto e silenzioso, intessuto di gesti sospesi e di vuoti in un’atmosfera di raffinata sobrietà, mettendo in scena oggetti poveri e quotidiani, costruiscono –come scrive A. Ottani Cavina- una drammaturgia del silenzio, dove anche il pittore trattiene il respiro, “perché il miracolo possa durare, al confine fra sogno e realtà”. E già i fratelli Goncourt, nell’Ottocento, parlavano –a proposito del cromatismo di Chardin- di “un’armonia complessa delle consonanze”. In ogni quadro si avverte la presenza di una mente luminosa che ha costruito intellettualmente una scena, con una fortissima volontà di ascesi e di concentrazione. Chardin racconta le cose più semplici (addirittura il marginale, ciò che sfugge quasi a tutti), sorprende le cose che non appaiono, in un pulviscolo di emozioni che avvolge gli oggetti. E mi sono ricordato di un pensiero del regista francese Eric Rohmer: “Il silenzio non mi pesa assolutamente. Perché quel silenzio, quello dei campi o di una strada lontana, offre un tessuto sonoro di una ricchezza sui generis, rivelatrice del luogo, dell’odore che emana”. Ebbene queste cose, e altro, ho provato rileggendo il bel lavoro di questo mio sorprendente ed originale studente.
prof. Gennaro Cucciniello
Vie del silenzio: su plaga lontana
di cielo quando in fuochi il giorno avanza
fugge remoto pur nella speranza
che non lo colga volo di campana.
Poi lento scende nella meridiana
sosta ed a filo della lontananza
lascia che giunga esile risonanza
marina d’onde o trillo di fontana.
Cerca ginestre e timi e sull’estrema
altura della valle anche gli piace
che gli sfiorino il volto echi di flauti.
Va nella notte con i passi cauti
all’accesa lanterna e sulla brace
soffia dei sogni che riluce e trema.
Dati tecnici. E’ un sonetto in versi endecasillabi, con le quartine in rima ABBA-ABBA e le terzine in CDE-EDC. Numerose sono le assonanze; esemplare è quella tra la rima A e la rima B, ma il tessuto interno ne è fittissimo. La rima in A (lontana, campana, meridiana, fontana). La rima in B (avanza, speranza, lontananza, risonanza). La rima in C (estrema, trema). La rima in D (piace, brace). La rima in E (flauti, cauti). Le assonanze sono: silenzio-cielo (in inversione)-lento (1°, 2° e 5° verso); tutte le rime A e B delle quartine; giorno-remoto-volo-volto (2°, 3°, 4° e 11° verso); nella-della-cerca-estrema-accesa-lanterna-trema (3°, 5°, 6°, 9°, 10°, 12°, 13°, 14° verso); valle-anche-piace-brace (10°, 13° verso); colga-sosta (4°, 6°); flauti-passi-cauti (11° e 12° verso). Per ultimo segnalerei la consonanza tra piace-brace-riluce (10°, 13° e 14° verso).
Per quanto riguarda gli accenti, tutti i numerosi bisillabi sono piani. E ciò (metrica+accenti), sommato anche al grande numero di monosillabi (37 i primi, 34 i secondi, su un totale di 90 parole) caratterizza notevolmente la poesia da un punto di vista ritmico-melodico, rendendola piacevole, ritmata, non pesante.
Il titolo, ripetuto nella frase introduttiva, è protasico, una metafora della poesia: e di giorno io accompagno il poeta nei suoi vagabondaggi. Da outsider. Con lui scopro particolari luoghi di magia e di poesia. Ma potrei scoprirne di terribili, di sconvolgenti, se il poeta non avesse avuto il pudore di occultarli e di celarli alla vista. Il silenzio ha paura della società diurna, o forse è la società diurna che lo teme e si sforza di allontanarlo. Ma, di notte, la società si trasforma… Il poeta, però, ci mostra un silenzio che si prende cura degli uomini e li affida al suo fratello sonno, e a noi si chiudono gli occhi e ci addormentiamo col suo mesto sussurro a coccolarci. Certo che è molto rassicurante come quadro; peccato che non sappiamo, o meglio il poeta non ci vuol far sapere, cosa faccia il nostro amato silenzio quando è fuori. Chissà, potremmo volergli anche più bene.
Tra le figure retoriche presenti il più efficace è l’enjambement che, presente alla fine di ogni verso, contribuisce a legare potentemente la poesia e a renderla leggera, delicata, uniforme. Ma quella veramente più diffusa è l’ellissi, alla quale, da un certo punto di vista, è dedicato il testo. E poi, quale figura migliore può nominare il silenzio, che, fratello d’Amore, non vuole parlare per sé; infatti, chiamandolo, lui si allontana. E anche le antitesi sono presenti, anche se in maniera latente, sfuggente, eccetto quell’avanza-fugge dei vv. 2 e 3, che del resto è l’unica a trovarsi in un ambito di forti contrasti tra luce e ombra: dopo, le sfumature saranno innumerevoli, addolcendo le antitesi. Ci sono anche dei chiasmi, il primo dei quali è morfologico e di grande interesse formale: nell’ottavo verso, con trisillabi agli estremi (marina, fontana), poi due monosillabi (di, di), due bisillabi (onde, trillo) e il monosillabo centrale, un’unica lettera, la O, simmetrica per definizione. Un altro chiasmo è fra “passi cauti” e “accesa lanterna” dei vv. 12 e 13, sostantivo-aggettivo / aggettivo-sostantivo, e –come il primo- serve a porre sullo stesso piano e a legare con delicatezza i due termini. Finalmente tra il v. 13 e il v. 14 rilevo una discordanza grammaticale che, spiegata forse con le assonanze, slega trema affidandola a lanterna e lo stesso fa con riluce e brace. Io la interpreto così: è la notte, caotica, oscura, priva di regole, con il fuoco sopito, il movimento furtivo, le ombre indistinte e non ben delineate prodotte dalla tremula luce della lanterna, quest’atmosfera un po’ misteriosa, col fumo che nasconde le cose nelle tenebre, (una situazione cara ad Ermes?), è questo che modifica anche la logica successione delle frasi. E di notte il silenzio va, ma non possiamo seguirlo, cullati come siamo dalle sue dolci parole che ancora ci ronzano nelle orecchie e che, nell’oblio, sopiscono ogni curiosità e ci fanno dormire.
Analisi linguistico-concettuale. Procederò per scanning senza separare i vari ambiti, cercando almeno in parte (ed invano, credo), di mantenere l’unità che rende grande e magica questa poesiola. Interessante è il rapporto quadruplice tra campana < lontana < fontana ; ma, ancora prima di cominciare con la prima strofa, già il mezzo verso di protasi ci colpisce e ci dà indicazioni con la sua assonanza silenzio – lento. Ecco il dato fondamentale. Noi ci scostiamo dalla natura e da noi stessi a causa della velocità, ci propone il poeta.
Ed infatti il silenzio fugge dal giorno e dalla campana, sua figlia, dal tempo dell’uomo, innaturale, frenetico, scandito dai suoi manufatti (e pensare che il tempo citato rimane pur sempre quello delle campane, lentissimo e “naturale” se lo si guarda con gli occhi di J. Le Goff, lentissimo a confronto col nostro degli orologi mostruosi). E se il tempo “campanaro” è troppo frenetico per il silenzio, vien da pensare che il silenzio sia quasi morto da noi. All’avanzare del giorno col suo fuoco solare il silenzio risponde con una fuga e una speranza, inascoltata. La prima strofa, quindi, rappresenta la prima parte del ciclo, in cui il logos è troppo forte, e l’unica cosa da fare è allontanarsi ed aspettare, lo sperare che cambi, un atteggiamento passivo. E’ l’inverno. Il “su plaga lontana” (nota di spazio del primo verso) indica la provvisorietà della situazione ed inoltre testimonia come il silenzio sia effettivamente una forza o un personaggio che non si fonde con l’ambiente, bensì vi si sofferma. La plaga lontana di cielo è statica, a contrasto con l’energia e la forza del silenzio. Ed è il “quando” (nota di tempo del secondo verso) che introduce l’altra forza, quella del giorno, grande, meccanismo inarrestabile, forza universale cosmica penetrante. Al confronto il silenzio è forza piccola, che si insinua, più affine alla notte. Ma proprio perché la notte si oppone al giorno, essa non è come il silenzio. Ne è la madre, così come, nella visione dell’autore, il suono è figlio del giorno e l’eco è la fusione dei due. E il silenzio teme il suono che accompagna la luce, non essa in quanto tale. E lui è privato, appartato in un angolo, rispetto alla notte che tutto abbraccia. Il quando, che scandisce il tempo, è il terzo elemento di cui il silenzio ha paura ma l’amore che il silenzio prova per gli uomini è più forte e alla fine avrà il sopravvento.
L’antitesi tra “il giorno che avanza in fuochi” e (il silenzio che) “fugge remoto” è la più marcata, e questo perché è il giorno il momento in cui si ha la fase di maggiore attrito. E il silenzio fugge, remoto, tanto remoto quanto lontana è la plaga di cielo, e quanto lontana lui vorrebbe che fosse quella campana che tanto dolore potrebbe procurargli mentre lui, così debole, è ancora in volo proiettato verso la zona franca. Ma è proprio nel momento in cui l’inverno è più rigido e spietato che la primavera comincia ad essere, poiché se la morte è nella vita e comincia con lei nel momento del parto, è vero anche il contrario, e la vita nasce nella morte, l’inizio nella fine, la notte nel giorno.
Ed infatti, la seconda e la terza strofa costituiscono il secondo momento del ciclo, in cui il giorno comincia a declinare; e nel momento in cui il giorno stesso viene a compromesso con se stesso, anche contraddicendosi, allora il silenzio piano piano si fa più vicino, e comincia ad incontrare ciò che del giorno è a lui più vicino, anche se non può sfiorare nemmeno queste presenze, queste ombre. E il ciclo è dato anche dal contrasto di velocità dell’azione. Quando il giorno avanzava potente, implacabile, il silenzio fuggiva furtivo e lontano, ma ora, dal lento scendere del silenzio e dalla inarrestabile trasvolata del giorno, simmetricamente il lieve suono della risacca marina e l’esile filiforme trillo di fontana, si può intuire, con un’altra di quelle ellissi nascoste, la condizione del giorno, che langue, che agonizza, che svanisce. Tanto che il silenzio è già più forte di lui, poiché è lui (il silenzio) che lascia che esili suoni lo raggiungano. Suoni che comunque non sono propriamente del giorno, perché provengono dall’azione dell’acqua e del mare, legati alla notte, fratelli del silenzio (legame ribadito dall’assonanza fra onde del v. 8 e notte del v. 12). Interessante è qui anche l’assonanza fra colga del v. 4 e sosta del v. 6: può far pensare che nel momento in cui il silenzio fosse preso al “lazo” dal suono delle campane (suono, tempo, frenesia, società etcc) esso verrebbe bloccato, disperso, disintegrato. Sarebbe la sua morte, ma il silenzio non può morire. Con lui morremmo tutti noi, perché è lui che rappresenta uno dei termini che bilanciano l’equilibrio. Ecco perché, proprio nel momento in cui il suono sta per ferire il silenzio, lui scompare, per riformarsi altrove, campione della notte.
In questo è illuminante il gioco delle rime, con la campana che, nella speranza del silenzio, dev’essere lontana e la fontana che invece, pur rimanendo un manufatto umano, creato dal giorno, è meridiana, anche perché ciò che produce la sua musica non è il suo essere percossa in qualche modo, bensì il fresco flusso dell’acqua al suo interno. Gli aggettivi poi ribadiscono questa tesi, poiché nella prima strofa ci sono lontana e remoto, aggettivi “estremi” se così si può dire, mentre nella seconda sono lento, esile, meridiana, più dolci, più “intermedi”.
Nella terza strofa continua lo zoom cominciato col precedente “campo lunghissimo” su di un piano immateriale, che guardava il cielo il sole, e il silenzio, più veloce del suono; ora il campo si è ristretto, ora il silenzio si avvicina, entrando quasi in contatto con le voci della città e del mare. Ora il silenzio è un uomo, un viandante (lo zoom si accompagna alla materializzazione della scena) che scende la collina tra fiori colorati, e li cerca, cerca il contatto con la terra, con la natura, ora che esse, non più violentate dalla luce bensì accarezzate dalle ombre sono vicino a lui e lo accolgono, loro simile. E l’ellissi è ancora presente, col calare del sole che accompagna il restringersi del campo visivo, e col cammino del silenzio che da lento si fa più bramoso. Ora il silenzio non solo lascia ai suoni del mare e della fontana di mantenersi a filo della lontananza, ma trae addirittura piacere dal quasi-contatto con gli echi dei flauti, che molto più della risacca o dell’acqua della fontana sono vicini alla notte e a fauni e a satiri, compagni e amici di Dioniso. Molte delle assonanze mi sembrano piene di fascino: per esempio tra filo (v. 6), trillo (v. 8) e sfiorino (v. 11), dove il trillo è filiforme, non squillante, sfiorante il viso, leggero tocco delicato; o tra scende (v. 5) e ginestre (v. 9) che rende bene il contrasto tra la forza attiva e il silenzio che invece è assenza di qualcosa, col silenzio stesso che fende le alte erbe e i fiori. Egli ora non ha più bisogno di insinuarsi perché sta diventando il signore che permette e che trae diletto. E’ lui, non curvo viandante ma uomo eretto che entra tra le ginestre creando sentieri che si rinchiudono dietro di lui. Ed anche flauti-passi cauti dei vv. 11 e 12 è interessante: sono i primi fauni, i seguaci di Ermes, coloro che di notte vivono e agiscono, che rispettano il silenzio e che, ora che esso è giunto calando sul mondo, e il sole se n’è andato, escono piano piano a muoversi furtivi, a suonare echi di canti.
E’ arrivata l’ultima fase del ciclo. E’ il momento in cui è passato il crepuscolo e la notte è appena nata. E’ il momento più magico, dove tutto può essere, è il momento in cui si sogna con la brace silenziosa del camino (che ha sostituito il fuoco ardente del sole), dove il silenzio soffia i sogni dell’oblio. Questo è il sigillo che chiude definitivamente il giorno, lasciando spazio alle energie notturne, ai poteri e alle ombre vaganti che usciranno dal camino, come la candela che con un soffio viene spenta e sopraggiungono le tenebre del caldo tepore. Ed è qui che noi, come bambini, affaticati dal cammino dietro al silenzio, maratoneta instancabile, e sopraffatti dal sonno al quale lui ci ha affidati, fatichiamo a distinguere bene le parole.
Nella poesia manca l’ultima fase, la parte del sonno profondo e delle oscure azioni notturne, caos totale. Manca il momento in cui è l’irrazionale a dominare, manca la parte che chiude il ciclo, che dà l’idea della realtà. Quasi che il poeta fosse spaventato dalle implicazioni che quest’ultima fase comporta. Quasi che il poeta volesse lasciarci bambini, a sognare i sogni belli e dolci, non facendoci vedere come anche la notte, come il giorno, nel pieno della sua potenza sia capace di cose terribili, pur inondata di silenzio. Come se Piccolo volesse, dell’irrazionale, mantenere l’aspetto giocoso e più innocente, così come non aveva trattato del mattino, quando la notte profonda lascia ancora tracce sul volto. Cosa farà di notte il silenzio mentre noi dal sonno veniamo cullati dolcemente? Dove starà andando? Farà in tempo a tornare prima che il giorno lo trovi e lo uccida?
Vuole risposte il nostro poeta?
Stefano P.