Lucrezio porta luce dove resiste il buio

Lucrezio porta luce dove resiste il buio

E’ una visione del mondo che anticipa i temi di Leopardi (e come un contemporaneo parla di noi e delle nostre paure)

 

Chi conosce Milo De Angelis sa bene che nel suo immaginario poetico Lucrezio, il poeta latino del primo secolo a.C., occupa il posto d’onore. Molto per tempo De Angelis ha riconosciuto fraterni i poeti-filosofi presocratici, i latini più inquieti, quindi scrittori come Leopardi, Rebora, Campana, Pavese. E’ la sua tradizione individuale: una ipotetica linea di autori che non conoscono conciliazione o redenzione alcuna, ma segnati viceversa dall’attrito, dalla combattività o ancora dal tragico. Poeti tutti per cui la vita, il rapporto con la realtà, il semplice fatto di esistere, costituiscono una sorta di casus belli.

Proprio per questo il nostro poeta Lucrezio è il riferimento più importante. L’autore del “De rerum natura” (Della natura delle cose) rappresenta infatti per lui un autentico compendio di tutto quello che uno scrittore può essere: per ampiezza di visione (quella di uomini smarriti che devono fronteggiare una natura ostile e temibile, di una vita che non ha inizio né fine, e dunque senza senso), per concretezza sensibile e per acume analitico, per reattività e vividezza espressiva, ma soprattutto per la capacità di mettere in gioco, attraverso la reazione elementare tra la parola e la cosa, l’idea tutta della costituzione della realtà. Non solo, dunque, nella sua visione estremamente contrastata e drammatica della natura delle cose (“oserei affermare / senza alcun dubbio che l’universo, con tutti i suoi disastri / non è stato creato per noi dagli dei”; Leopardi non è lontano, si vede bene), ma anche e soprattutto nella capacità, che il poeta latino possiede in sommo grado, di farla scaturire, come fosse una frizione iniziale o una prima scintilla, dalla fisica stessa della poesia, vale a dire dal travaglio di gestazione della parola, dalle tensioni e reazioni su cui, come tanti piccoli big bang, s’impianta il discorso poetico; e allora dalla sua struttura molecolare, o se si preferisce atomica, visto che nel poema lucreziano di atomi appunto si tratta.

C’è nel “De rerum natura” una singolare, specialissima virtù di risonanza, come una vibrazione, tattile persino, per cui nel particolare e nel minimo si sentono risuonare, per un processo di rifrazione reciproca, le grandi costellazioni, cioè la dimensione cosmica, che sia tutto o nulla, che sia buio o polvere di stelle. Le parole non nascono da dentro, ma arrivano al poeta da fuori e da lontano. Si pensi per un momento alla poesia di De Angelis, al ronzio e alla singolare traiettoria di certe sue immagini, di certe congiunture ritmiche e musicali, e si vedrà che qualcosa della lezione dell’antico maestro è arrivata fino a lui.

In più di una sua poesia De Angelis ha ricordato l’atto perfetto del tradurre da parte di qualche suo compagno di scuola. E viene da chiedersi che cosa a sua volta lo abbia tenuto inchiodato sui versi di Lucrezio fin da quegli anni ormai lontani. Nel leggerli, nel farsene attraversare e conquistare, nel mandarli a memoria e già allora, sui banchi di scuola, nel cominciare a tradurli. Il brivido sacro del contatto con la realtà, il senso del mistero, che nel caso di Lucrezio è anche biografico (di lui infatti non si sa praticamente nulla)? Certo, si tratta di una lunga, lunghissima fedeltà, che ha avuto finalmente il suo coronamento con la traduzione integrale del “De rerum natura” (nella collana dello Specchio Mondadori). Non è cosa da passare inosservata. Insomma, sia l’entità (si tratta di un poema lungo un po’ più della metà della Commedia dantesca), sia la necessità e l’integrità di questo lavoro dicono di per sé qualcosa. Il modo stesso in cui il libro viene titolato intende rimarcare il fatto che si tratta di una relazione poetica significativa: Milo De Angelis, “De rerum natura di Lucrezio”. Si potrebbe richiamare, come operazione almeno un poco simile, la traduzione dell’”Eugenio Onieghin di Puskin in versi italiani” fatta a suo tempo da Giovanni Giudici (anche se va detto che De Angelis per lunga consuetudine conosce il latino di gran lunga di più di quanto Giudici non conoscesse il russo). Come chiamarla? Traduzione d’autore? Forse sì, anche se in un ambito assai slittante qual è quello del tradurre ogni definizione finisce per risultare equivoca.

Nelle pagine introduttive il poeta chiarisce come la sua traduzione degli esametri latini sia “imperniata su un verso “lungo” –dalle 14 alle 26 sillabe- che da una parte tenta di mantenere intatta la densità del ragionamento lucreziano e dall’altra cerca di abbreviarsi nelle parti più liriche, giostrando sulle varie combinazioni possibili di endecasillabi e settenari”. E proprio questa qualità ragionativa si deve a tutta prima sottolineare. Se De Angelis, almeno per una riduzione a luogo comune della sua poesia, è un poeta d’illuminazioni improvvise e irrelate, viceversa in questo suo Lucrezio ha portato la massima attenzione alla tenuta dell’argomentazione e del racconto, e di conseguenza alla coerenza dei passaggi logici, alla sintassi, all’articolazione complessiva del discorso poetico. Solo un esempio, come invito alla lettura di questo solitario e originalissimo classico latino in lingua italiana: “Tanto più che tutta la nostra vita si affanna nell’oscurità./ Come dei bambini che tremano in mezzo alle tenebre cieche / e hanno paura di tutto, anche noi in piena luce temiamo talvolta / cose che non ci dovrebbero preoccupare, proprio come quelle / che i bambini nel buio temono e immaginano imminenti”.

 

                                                                  Roberto Galaverni

 

Questo articolo è stato pubblicato, alle pp. 8 e 9, ne “La Lettura”, supplemento culturale del Corriere della Sera dell’8 maggio 2022, nella sezione “Il dibattito delle idee”.