L’ultimo segreto delle icone russe
Torna in libreria (Marsilio) il saggio di Pavel Florenskij, “Le porte regali”, che rivela due opposte forme di spiritualità nell’Europa orientale e occidentale. Un’analisi di Massimo Cacciari.
Tra le vere opere di Elémire Zolla sta certamente quella di averci fatto scoprire l’opera di Pavel Florenskij, promuovendo prima l’edizione di “La colonna e il fondamento della verità” presso Rusconi nel 1974 (prima traduzione nel mondo) e poi, presso Adelphi nel 1977, di “Le porte regali”. Opere fondamentali per il pensiero teologico e filosofico del Novecento, scaturite dall’irripetibile humus della apocalisse russa a cavallo della Rivoluzione. Non posso non ricordare con emozione anche il mio incontro con esse (e l’influenza determinante che ebbero per alcuni miei lavori, come “Icone della legge” e “L’angelo necessario”, precedenti il largo sviluppo di studi su Florenskij che negli ultimi trent’anni è maturato soprattutto in Italia, fino al recentissimo e importante volume collettivo curato da Silvano Tagliagambe, “Il pensiero polifonico di Pavel Florenskij”, presso l’University Press della Facoltà teologica della Sardegna).
La ristampa di “Le porte regali”, dopo molte adelphiane, avviene ora a cura e con una post-fazione di Grazia Marchianò, nell’ambito dell’edizione delle Opere Complete di Zolla, presso Marsilio. Occasione preziosa per approfondire ancora il valore epocale di questo saggio. Esso va ben oltre all’illuminare i fondamenti teologici dell’arte dell’icona russa del XV secolo, e del sommo Andrei Rublev in particolare, a partire dai suoi modelli bizantini (chiarendo così, retrospettivamente, anche aspetti decisivi di tutta l’arte paleocristiana). “Le porte regali” impongono una drammatica comparazione tra forme di civiltà, sulla differenza che sembra avere per sempre diviso la spiritualità dell’Europa orientale da quella occidentale. Una comparazione che in Florenskij diviene perentorio giudizio, quasi ad assumere la forma dell’aut-aut. Da una parte, l’opera che rivela, che apre il Velo e permette di intuire il Realissimo; dall’altra parte, l’Occhio sovrano del poietes, dell’artista-poeta, che dispone la sua materia secondo la sua prospettiva. Da una parte, l’opera che fa tutt’uno col culto; dall’altra, la creazione che si pretende libera, e che per Florenskij è invece incatenata, come i prigioni della Caverna platonica, alla rappresentazione delle apparenze, delle ombre del Reale. L’icona vive sulla soglia, trova il proprio luogo appunto sull’iconostasi che distingue lo spazio dei fedeli dal sacro in sé inaccessibile. Nel mostrare l’abissale differenza tra i Due, l’icona è segno a un tempo dell’Invisibile stesso. Custode del mistero nel momento in cui lo esprime. Il mondo della sua immagine è puramente metafisico; l’immagine dell’icona è mundus imaginalis in sé, non in relazione a quello dell’esperienza sensibile.
E’ questo un destino dell’immagine e dell’immaginare da cui l’Occidente sembra separarsi per sempre con la grande svolta segnata da San Francesco, Cimabue, Giotto, Dante: qui la Luce taborica dell’Icona si incarna nella sofferenza, nel dramma storico delle figure fino a esserne inghiottita. E tuttavia Florenskij, grande teorico anche dell’arte dell’avanguardia russa, sa bene quale poderosa nostalgia per l’icona, per il suo pathos anti-soggettivo, anti-romantico, rinasca proprio nel Novecento! Le forme fondamentali in cui una civiltà si esprime difficilmente muoiono, scompaiono, piuttosto, e altrettanto imprevedibilmente possono in altri modi risorgere. Ciò fa di “Le porte regali” un testo imprescindibile anche per la filosofia dell’arte contemporanea.
Non si intenderebbe però l’importanza filosofica del grande saggio florenskijano se non lo si leggesse alla luce dell’idea di Verità svolta nel suo capolavoro, “La colonna e il fondamento”. Non si conosce vera-mente se non divenendo uni-sostanziali all’altro, non semplicemente simili. Non vi è verità nella semplice corrispondenza tra forme dell’intelletto e l’apparire delle cose. Anzi, l’errore è già contenuto nel chiamare “cose”, e così reificare, gli essenti reali di cui facciamo esperienza. Conosciamo vera-mente soltanto il vivente che amiamo e di cui, amandolo, vogliamo partecipare in toto. La Verità integra, eterna, luminosa, sovra-luminosa si rivela soltanto quando, usciti dalla caverna dell’Io, amiamo il vivente amando Dio che è Amore. Questa idea di Verità, che ha origini neo-platoniche, e che Zolla pone giustamente in relazione con le grandi metafisiche dell’Iran, sembra essersi separata per sempre da quelle dominanti nell’Occidente, tutte, per Florenskij, nient’altro che rappresentazioni del nostro esserci storico (e perciò memoria o oblio di eventi temporalmente determinati). E tuttavia, di nuovo, come intendere nelle sue radici il nostro stesso destino se non comparandolo al paradigma che Florenskij gli oppone? Due civiltà, eppure entrambe appartenenti all’Europa o Cristianità. Un agon, una lotta nello stesso cuore? Questo mi sembra certo: che cessando tale lotta, cesserà di battere questo cuore. Evento che molti segni affermano già essersi compiuto.
Massimo Cacciari
L’articolo è stato pubblicato nella “Repubblica” del 22 giugno 2018. Ripeto che nella tradizione bizantina e poi russa l’icona non è un ritratto realistico, ma un’immagine ideale e atemporale, un’epifania del divino che deve portare a una trasfigurazione dello spettatore.
Gennaro Cucciniello