Maria Callas, Pier Paolo Pasolini e Medea. L’amore frainteso.

Maria Callas, Pier Paolo Pasolini e Medea. L’amore frainteso.

A 40 anni dalla morte della Callas un docufilm racconta l’amicizia con Pasolini nata sul set. Tragedia degli equivoci.

 

Il rapporto tra Pasolini e Callas nacque e si sviluppò sotto il segno dell’involontarietà e dell’equivoco: a partire da quel lapsus per cui, conversando con amici, lui sostenne di non aver mai sentito la Callas cantare nella “Medea” di Boccherini –intendendo ovviamente Cherubini. All’inizio l’idea di lavorare insieme non piaceva né all’uno né all’altra, anche se Franco Rossellini (co-produttore, con Marina Cicogna, del film) insisteva per ragioni di botteghino e d’amicizia. Per Pasolini, che aveva immaginato una Medea magica e sognante, figlia giovinetta di un re agreste e barbaro, era difficile accettare una diva quarantaseienne, nota ai teatri lirici per i propri nevrastenici capricci, icona del jet set internazionale e in crisi perché Onassis l’aveva appena lasciata preferendole Jacqueline Bouvier Kennedy. Lei, per parte sua, aveva trovato disgustoso “Teorema”, che Franco Rossellini le aveva fatto vedere a Parigi nella speranza di convincerla; quattro anni prima il serissimo Theodor Dreyer le aveva proposto di recitare in una sua Medea, ma il film era saltato (sarà poi ripreso, adattandolo al proprio stile, da Lars von Trier nel 1988) e ora non aveva proprio voglia di dire sì a un regista omosessuale e notoriamente “scabroso”. Tra le carte pasoliniane si trova la sceneggiatura di Dreyer, forse fattagli pervenire dalla stessa Callas, ma Pasolini nel proprio film se ne è tenuto rigorosamente lontano. Insomma Franco Rossellini dovette sudare sette camicie per farli incontrare a Parigi; ma lì, pare, accadde la sorpresa.

I due si piacquero, la Callas firmò. Nel contratto fece inserire una clausola per cui il regista non avrebbe mai potuto riprenderla nuda; la stessa clausola fu adottata, per contagio, dal saltatore triplista Giuseppe Gentile che doveva impersonare Giasone. Ma già la scelta di un Giasone di vent’anni più giovane indica che Pasolini aveva ormai capito come usare la Callas ed era riuscito ad adattarle il film su misura, ristrutturando il primitivo treatment. Via la giovinetta, via la vicenda psicologica d’amore come poteva leggerla in Apollonio Rodio: largo invece all’antropologia e alla storia delle religioni – il film diventa un apologo sulla distruzione della ciclica sacralità contadina per colpa dell’incipiente civiltà razionalista e borghese. La lunga scena della “benedizione” dei campi mediante i lacerti sanguinanti di un sacrificio umano è ispirata al “Ramo d’oro” di Frazer e al Trattato” di Mircea Eliade; a Euripide e a Seneca si sovrappongono abitudini azteche, musiche giapponesi o tibetane; la mitica Corinto è ambientata nel proto-umanesimo della Pisa medievale e il rogo finale è il disperato addio a una Terra ormai completamente smitizzata (“niente è più possibile ormai”).

La Callas, catafratta nei rigidi e pesantissimi costumi di Piero Tosi, è la vestale di quel mondo arcaico; deve solo incedere ed esibire il profilo maestoso, il naso da ceramica cretese (che Pasolini adora e lei detesta) – non ha bisogno di saper recitare nel senso usuale del termine, lo sguardo ieratico le viene naturale perché sul set toglie le lenti a contatto. Pasolini realizza lo snobistico tour de force di avere a disposizione la più grande cantante del mondo e di non farle emettere neppure una nota – è la sua presenza quella che vuole e su quel piano la Callas è superlativa. Paradossalmente, è proprio la diva internazionale (abituata a dominare i teatri con una gestualità da lontano e qui spietatamente indagata dai continui primi piani) ad avere nel film quella funzione del “puro esserci” che altrove Pasolini affidava ai corpi sottoproletari; mentre il giovane e atletico Gentile mostra le ambiguità e i sorrisi melliflui di chi ha appena appreso a usare la cultura come difesa.

La Callas-personaggio è un monumento: sacerdotessa solare, padrona dell’aria e del fuoco, madre assassina e invitta – ma, sotto, Pasolini intuisce che la Callas-persona è una bambina fiduciosa e mai cresciuta, una donna insicura e incolta ma impulsiva e concreta. Lei, a contrasto con la brutalità di Onassis, scopre un uomo estremamente mite e tenero, pazientemente didascalico e ottimo ascoltatore; nasce un’amicizia, tanto più preziosa quanto più inaspettata. Finite le riprese del film continuano a frequentarsi: lui va a trovarla a Parigi e l’accompagna a una festa di vip a Cap Ferrat, poi d’estate al mare a Tragonissi; lei lo segue in Africa, in Mali. Una volta sistemati gli equivoci artistici, nasce ora più profondo un equivoco privato e sentimentale. Lui, costretto in Medea a rappresentare la violenza del sacro ma senza sesso, si sfoga nell’orgia di corpi del suo “Decameron” napoletano; ma intanto si compiace con lei di regressioni romantiche, gioca a fare il fidanzatino con timidi baci e mano nella mano, quasi a sfidare i tanto detestati e rimpianti valori borghesi. Lei per lui è l’esotismo della grande borghesia che lo conferma nel disprezzo per la piccola; e si entusiasma come un antropologo nello scoprire, in quel mondo dorato, una ragazza spersa dalla voce miracolosa. La Callas invece ci crede davvero, si illude che Pasolini si sia innamorato e che voglia sposarla; la madre del poeta la appoggia in quella folle chimera. Lui, alla fine del film, le ha regalato un anello con corniola alla presenza di molti invitati che gridavano “viva gli sposi”, tra il serio e il faceto; della vicenda si impadroniscono i tabloid popolari di tutto il mondo, i giornali di destra ci danno dentro col sarcasmo (“Si sposeranno le due signore?”). A lui la provocazione non dispiace, lei forse non se ne accorge nemmeno.

Lui la ritrae stilizzata, senza un’ombra di carnalità; si corrispondono in un epistolario elementare ma lui, come al solito, la verità la dice in poesia. Scrive dei versi che raccoglierà col titolo “La città santa”; e la Città è quella dei Padri (forse Parigi, che nella contemporanea sceneggiatura su San Paolo ha identificato con Gerusalemme). La tesi di quei versi è semplice: per me amare una donna è impossibile perché la donna presuppone che l’uomo assuma un ruolo di Padre, mentre io quel ruolo non l’ho mai conosciuto né voglio conoscerlo, per me al posto di quel riconoscimento c’è un vuoto; dunque il tuo sesso è un vuoto che solo i Padri, i fondatori di città (come il tuo orribile Onassis) possono riempire. Più chiaro di così. Ma sono versi difficili da decifrare, che la Callas forse nemmeno capisce. Lui, stretto alle corde dalle proprie ossessioni, si difende con la crudeltà intellettuale, quasi la prende in giro facendo del famoso anello supposto matrimoniale solo uno scherzo del vento; lei lo vede allontanarsi con dolore ma è pur sempre la più forte, quella coi piedi per terra. Si getta alle spalle la delusione e sprofonda nel lavoro, nella musica che non l’ha mai tradita. Nel 1971, mentre Pasolini soffre come un cane per il matrimonio di Ninetto, lei gli scrive ancora: senza più equivoci questa volta, lamentandosi (come la più matura e disincantata dei due) che dal fondo dell’angoscia lui non abbia sentito il bisogno di confidarsi con lei. Nemmeno più l’amicizia dunque, solo il ricordo di un film cerebrale, innovativo, misterioso e solo parzialmente riuscito.

                                                                 

Walter Siti

 

(articolo apparso nel “Venerdì di Repubblica” del 15 settembre 2017)