Màrio de Andrade (1893-1945), “L’utopia romantica”

Màrio de Andrade (1893-1945), “L’utopia romantica”

 

Ce ne andavamo zitti per la via

e il calore dei roseti ci esaltava tanto

che un desiderio d’esempio mi ispirava

e tu mi accettasti tra i santi.                                                                 4

 

Raccattare dal suolo un mozzicone,

fumarlo senza sapere per che bocca passò,

la terra mi allappava la lingua e una saliva secca

posando sulle mie labbra umide rinacque.                                     8

 

Tutti i boitatàs mi bruciavano la bocca

ma quando ripresi a guardare, o dolce amica,

gli operai passavano tutti dalla mia parte

tutti con fiori rubati nello scollo della camicia…                             12

 

Il sole al tramonto, di nuovo aurorale e nativo,

faceva in senso inverso un nuovo giorno;

le notti diventarono luminosamente diurne,

e i giorni massacrati si nascosero nel cavo di

una notte senza fine.                                                                              17

 

Nòs iamos calados pela rua

e o calor dos rosais nos salientava tanto

que um desejo de exemplo me inspirava,

e voce me aceitou por entre os santos.                                            4

 

Erguer do chao um toco de cigarro,

fuma-lo sem saber por que boca passou,

a terra me erricava a lingua e uma saliva seca

poisando nos meus labios molhados renasceu.                             8

 

Todos os boitatàs queimavam minha boca

mas quando recomecei a olhar, o minha doce amiga,

os operarios passavam-se todos para o meu lado,

todos com flores roubadas na abertura da camisa…                  12

 

O sol no poente, de novo auroral e nativo,

fazia em caminho contràrio um dia novo;

e as noites ficaram luminosamente diurnas,

e os dias massacrados se esconderam no covao

duma noite sem fin.

da “Poemas da amiga”, in “Remate de males”, 1929-30

 

Boitatàs” (qui al v. 9) è parola composta: da boi che in lingua tupì significa serpente (o da mboi, cosa) più tatà che significa fuoco; quindi “cose (o serpenti) di fuoco”. L’origine è probabilmente nel fosforo bianco che si liberava dalla putrefazione delle ossa dei grandi animali e che, essendo infiammabile, serpeggiava come lingue di fuoco nella foresta. In brasiliano moderno i “boitatàs” sono i fuochi fatui, ma anche serpenti favolosi che sputano fiamme contro chi osa danneggiare le foreste. Nel verso successivo l’invocazione “o mia dolce amica” è un riferimento alle “cantigas de amigo” della tradizione galego-portoghese del XII-XIII secolo. In due versi consecutivi si passa da un termine indigeno a una citazione colta: come non ricordare che Oswald de Andrade (amico di Màrio, suo coetaneo e paulistano come lui) nel “manifesto antropofago” aveva sostenuto la necessità di fagocitare e digerire il meglio della letteratura europea contaminandolo con la forza selvaggia della tradizione indigena (“tupì or not tupì”)?

Il gruppo dei giovani modernisti, negli anni Venti, aveva rivendicato la “differenza” nazionale e promosso anche in poesia una lingua parlata che non nascondesse le peculiarità del portoghese brasileiro; qui, per esempio, il voce (v. 4) col verbo alla seconda persona e non alla terza come usualmente in Portogallo, e l’uso del gerundio al v. 8, o l’assenza dell’articolo (queimavam minha boca) al v. 9. Il nazionalismo in Màrio de Andrade fa però tutt’uno col socialismo progressista e terzomondista; questa poesia si chiarisce se rapportata al confuso momento della politica brasiliana: il segretario del Partito Repubblicano Paulista, Jùlio Prestes, riformista e modernizzatore, era stato eletto alla presidenza della Repubblica ma non entrò in carica perché nel 1930 ci fu il colpo di stato di Getulio Vargas –ambiguamente rivoluzionario all’inizio, decisamente dittatoriale pochi anni dopo. In una poesia del 1932 Màrio de Andrade scriverà: “ho puntato su Jùlio Prestes / e invece è uscito Getulio”. Tra il ’29 e il ’30 ancora gli intellettuali progressisti potevano sognare che gli operai passassero “tutti dalla loro parte” in un’euforia romantica e anarchica, tutti con fiori rubati nello scollo della camicia (v. 12). La speranza rivoluzionaria acquista il fascino di un evento cosmologico (come nelle cosmogonie degli indios): il sole risorge al tramonto e percorre il cielo in senso inverso, le notti diventano luminosamente diurne mentre i giorni “massacrati” dallo sfruttamento sono ricacciati nel fondo buio dell’oblio storico (la metrica, che comincia con endecasillabi e settenari, trova un ultimo verso lunghissimo per sigillare il seppellimento).

Ma torniamo ai boitatàs: perché i fuochi fatui tupì gli bruciano la bocca proprio dopo che ha fumato il mozzicone raccattato da terra? L’idea di ravvivare con la propria saliva la saliva secca di uno sconosciuto appartiene a uno slancio anti-borghese di umiltà e solidarietà, contro i pregiudizi di proprietà e privacy ma vicino invece al comunismo primitivo e spontaneo degli indigeni (“tutti sono buoni là dove il bianco non penetrò mai / … / tutto sarà in comune e noi faticheremo come gli altri e per tutti”). Il fuoco del mozzicone e del boitatà riprende e intensifica il “calore” dei roseti (v. 2) che già lo aveva esaltato durante la passeggiata e lo aveva spinto all’emulazione (emulazione di santi laici, come Gandhi e Lenin che aveva ricordato in un testo del ’28). Ad “accettarlo” tra i santi è la dolce amica a cui le poesie del ciclo sono dedicate; l’atteggiamento della donna sembra di delicata ironia, come chi maternamente sorrida dell’esaltazione ma la intenda e in qualche misura la appoggi –anche lei complice dell’utopia di rinnovamento (“nuovo” ripetuto ai versi 13-14) non solo politico ma anche spirituale.

Le “cantigas de amigo” medievali erano poesie d’amore infelice e di lontananza, poste in bocca a ragazze abbandonate; qui De Andrade ribalta lo schema, è lui che ha sofferto perché lei non ha corrisposto al suo amore. Nelle altre poesie del ciclo è chiaro come l’amore ci sia stato, non privo di accenni francamente carnali (“ieri eri così bella / che il mio corpo arrivò”); ma qualcosa non ha funzionato ed è stata la donna a volerlo trasformare in amicizia. Ungaretti (che ha conosciuto De Andrade durante il soggiorno brasiliano diventandone amico) sottolinea la “melodiosa malinconia” che caratterizza qui il tema tragico “dell’incompiutezza d’ogni appagamento carnale”. La bocca qui non serve per i baci ma per sentirsi fraterni ad altre sconosciute bocche; il sesso deluso si sublima in speranza universale –in una fratellanza in cui la “sorellanza” (“non crediatela mia amante, è mia sorella!”) della donna amata è un’armonica in più. Il breve ciclo di dodici testi si chiude con un appellativo (“Sinhà”) che è un ultimo tratto di sincretismo culturale: è la “Signora” della tradizione cortese ma anche il nome affettuoso che gli schiavi davano alle giovani padrone. La passeggiata silenziosa e un po’ triste si è ampliata musicalmente aprendosi a un sogno condiviso; viceversa, la fantasticheria ingenuamente rivoluzionaria si impasta con le contraddizioni dell’ombra.

 

 

Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 16 novembre 2014, p. 54