Matsuo Basho (1644-1694), La via breve per una vita illuminata.
- Vecchio stagno:
una rana si tuffa –
rumore dell’acqua.
- Affaticato,
mentre cerco albergo –
i fiori del glicine.
- Passa la primavera
cinguettano gli uccelli –
negli occhi dei pesci lacrime.
- Erbe estive,
tracce del sogno
dei guerrieri.
- Vaso da polpi:
il sogno è effimero,
sotto la lune d’estate.
- Addormentato sul cavallo
nel mezzo sogno dell’alba, luna lontana –
il fumo per il the.
- Se li prendessi nella mano
si scioglierebbero in lacrime –
calda brina d’autunno.
- Ammalato in viaggio –
nel mio sogno corro
qua e là per campi secchi.
dagli “Haiku”, 1684-1694, di Matsuo Munefusa (detto Basho).
Da quando furono introdotti in Occidente a metà ‘800, gli haiku hanno goduto di straordinaria fortuna; ottemperando sia alla norma classica della concisione che a quella romantica dell’ispirazione improvvisa, sono stati letti come sintesi dell’idea stessa di lirica; a questo si aggiunga la loro apparente facilità, per cui ciascuno può pensare “posso farlo anch’io”. Contrariamente a questa vulgata, l’haiku ha invece una storia complessa e una rigorosa disciplina formale: dev’essere composto da 17 sillabe (5+7+5) e contiene obbligatoriamente un riferimento alla stagione (esistono canoni che “stagionalizzano” animali e oggetti: per esempio la rana del n. 1 è primaverile mentre la luna del n. 6, quando non sia specificata come “estiva”, è sempre la luna piena autunnale). L’haiku deriva dal renga, un gioco letterario di corte in cui diversi partecipanti si scambiavano poesie “a catena”; l’evoluzione lo ha poi isolato e vi è prevalso uno stile basso o francamente comico –mantenendo però la caratteristica di pratica sociale, con scuole di haiku e presenza massiccia di componimenti d’occasione.
Basho gli ha dato dignità artistica e profondità speculativa, introducendovi elementi del buddhismo zen cui si mescolano echi di taoismo, più la sacralizzazione scintoista della natura. Se si riconosce il vuoto come realtà ultima, la brevità fulminante dell’haiku e il suo carattere ellittico diventano via privilegiata di illuminazione; il testo non vale tanto come prodotto quanto come traccia di una raggiunta consapevolezza –quasi che le parole fossero il residuo finale di una performance in cui contano il distacco dagli interessi mondani, la sobrietà e la leggerezza, la serena comunione col Tutto e perfino l’eleganza della calligrafia, il gesto pacificato del pennello. Estetica, etica e meditazione non sono distinguibili; Basho inserisce molto spesso i suoi haiku all’interno di diari di viaggio –un viaggio materiale e spirituale insieme, compiuto secondo lo stile di vita dei monaci mendicanti, in cui gli haiku rappresentano i punti alti di condensazione e accettazione.
Il n. 7, per esempio, è talmente ellittico da risultare incomprensibile senza il contesto del viaggio: Basho, dopo lunghi anni di vita solitaria, torna alla casa dei suoi –la madre nel frattempo è morta, le erbe che lei coltivava sono state bruciate dalla brina; il fratello gli porge in uno scrigno alcuni capelli della madre, così fragili che si scioglierebbero in lacrime se lui li toccasse; il dolore privato diventa pianto delle cose, conciliazione degli opposti (la “brina calda”). Nel n. 3 il trascorrere, o il partire, della primavera (il verbo “yuku” ammette entrambi i significati) rattrista le creature: il verbo “naku” attribuito agli uccelli significa cantare, ma attribuito agli uomini significa piangere –gli occhi liquidi dei pesci hanno lacrime umane; forse si allude a un addio che Basho e il suo amato compagno Sora rivolgono ai discepoli che non li accompagneranno nel viaggio. La figura retorica del “mitate” consiste nella sovrapposizione di due immagini; nel n. 5 il “takotsubo” è sia il tipico vaso che si usa per catturare i polpi, sia la buca che i soldati usano come trincea. Basho si trova ad Akashi, luogo di una famosa battaglia; il sogno effimero dei polpi, ignari del destino che li aspetta appena trascorsa la breve notte d’esatte, si sovrappone alla tragedia dei soldati intrappolati nelle buche.
Uno dei segreti di Basho è la capacità di armonizzare il punto di vista universale con le minuzie del quotidiano, coniugando poesia aulica e linguaggio comune; quando arriva a Hiraizumi, al n. 4, ricorda i versi del poeta cinese Du Fu sulla caduta della fortezza, ma a lui importa la continuità con il presente –l’ideogramma che significa “tracce” è omofono a un altro che significa “dopo”: le rovine degli antichi sogni di conquista suonano come l’erba folta che esiste ora, secoli dopo quel sogno. Il presente si confronta con la Storia, la comprende e la vince. La lunga durata del “vecchio stagno” del n. 1 è scossa dal tuffo istantaneo della rana, e l’incrocio di questi due tempi fa risaltare l’eterno; del movimento non resta che un rumore, come il destino dell’uomo si perde in una vuota eco. Si potrebbe continuare con ciascun haiku: per esempio con l’ultimo, dettato ai discepoli pochi giorni prima di morire –dove Basho, ormai debole e un po’ delirante, vede se stesso correre qua e là in una spoglia pianura invernale (o forse è il suo sogno che ha ancora voglia di viaggiare, l’ambiguità della sintassi consente entrambe le letture).
La grande economia di mezzi stilistici sfrutta al massimo il potenziale della lingua, i polisensi e le sovrapposizioni. Se la traduzione evita gli abbellimenti inutili, si riesce a capire quanto lontani siano questi testi da ogni impressionismo sentimentale o simbolismo corrivo (“ammirevole è chi / non deduce dal lampo / la vanità delle cose”). Comunque, come in ogni grande poesia, resta una contraddizione tra testo e dottrina: se la dottrina insegna il distacco dal mondo, i versi ne fanno sentire la nostalgia. “L’esistenza è rugiada”, scriverà un secolo dopo un altro maestro di haiku, “lo so, solo rugiada./ Eppure, eppure…”.
Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 21 dicembre 2014, p. 60