Michelangelo Buonarroti, “Pietà Rondanini”, 1555-1564, Milano, Museo del castello Sforzesco
L’opera.
Michelangelo entra in coma e muore il 18 febbraio 1564. Dall’inventario post-mortem dei beni dello scultore stilato da un anonimo impiegato del Tribunale di Roma risulta questa frase: “Un’altra statua principiata per un Cristo ed un’altra figura di sopra, attaccate insieme, sbozzate e non finite”. Questa è sicuramente la nostra Pietà.
Scrive Giorgio Vasari che, durante gli ultimi mesi di vita, gli amici diedero al vecchio maestro un blocco di marmo da lui già sbozzato e abbandonato, “ché ei potesse passar tempo scarpellando”. E questo dettaglio, umile e commovente, è confermato da una lettera, indirizzata al Vasari, di don Miniato Pitti, frate domenicano: “L’altra mattina venne qui alla nostra chiesa Michelagnolo Bonarroti con due giovani, che lo servono. Va chinato et con fatica alza il capo et anchora attende del continuo a scarpellare, standosi in casa”. Due brevi ricordi di Daniele da Volterra, pittore e discepolo di Michelangelo, chiariscono ancora meglio il rapporto che il vecchio, grande nostro artista aveva con la sua ultima opera: “Egli lavorò tutto il sabato che fu inanti a lunedì che ci si amalò, et la domenica, non ricordandosi che fussi domenica, voleva ire a lavorare”, scriveva il 17 marzo 1564. E l’11 giugno aggiungeva altri particolari: “Io non mi ricordo se in tutto quello scritto io messi chome Michelagnolo lavorò tutto il sabbato della domenicha di carnovale, e lavorò in piedi, subbiando sopra quel corpo della Pietà”. Quei due corpi in uno, perciò, sono l’ultima testimonianza del suo pensiero, il suo testamento spirituale.
Un critico, il Tuena, ragiona sulle varie ipotesi che si possono costruire sulla nascita di questa opera meravigliosa. “Tratto forse da un antico rocchio di colonna che giaceva nel suo studio, la genesi di questo gruppo è avvolta nell’incertezza. Le ipotesi possibili sono più d’una: si può per esempio ipotizzare che, una volta abbandonata la Pietà Bandini, Michelangelo abbia deciso di lavorare a un nuovo gruppo, che sostituisse il precedente, per la sua sepoltura; oppure si può supporre che in origine il marmo contenesse solo la figura del Cristo e che solo in un secondo momento abbia aggiunto la Madonna che sorregge il corpo senza vita del Figlio, o che il frammento di braccio, evidentemente sovradimensionato rispetto alla figura del Cristo, appartenga a una scultura di molti anni precedente; o ancora che la Pietà dovesse essere accostata ad altre figure, angeli o astanti. Ma i dati certi sono che Michelangelo vi lavorò con assiduità e passione, nel suo laboratorio illuminato da candele di sevo di capra schietto, riscaldato da poco fuoco e affumicato da bracieri tiepidi, dove per anni, sulla superficie del marmo, vennero a stratificarsi depositi, polveri, gocce di sudore; poi, che il vecchissimo artista, quando il suo stato di salute gli impediva di stare in piedi sullo sgabello e scolpire la parte superiore della statua, si sedeva e lisciava per ore con lo smeriglio o con le mani callose le gambe asciutte di Gesù”.
Descrizione.
Il gruppo, così come oggi lo vediamo, è una versione successiva a quella originaria –iniziata forse nel 1552- e conosciuta soltanto attraverso alcuni schizzi michelangioleschi conservati presso il Christ Church College di Oxford. In primo piano, a sinistra, è visibile parte di un braccio nudo dalla muscolatura abbandonata come può esserlo solo quello di un morto: con tutta evidenza si tratta di quanto rimane di una prima versione del Cristo; poiché le proporzioni di questo arto sono assolutamente normali, ciò significa che in questa prima prova la figura non aveva affatto un fisico così emaciato come quello della versione definitiva, quel corpo esile che piega le ginocchia. Evidentemente, dopo aver scolpito Gesù una prima volta, Michelangelo non ne rimase soddisfatto e decise di scartare questo tentativo: a quel punto però il blocco di marmo si era assai ridotto nelle dimensioni e di conseguenza l’autore fu costretto non solo ad assottigliare le due figure ma anche a raffigurare il corpo del Figlio quasi incassato nel corpo della Madre, la nuova testa del figlio è scolpita utilizzando la spalla destra della madre. Il Cristo, allungato e scarnificato, è fermato dallo scalpello nell’atto di cadere, abbandonato dalle forze umane e sorretto solo dal disperato tentativo della madre di opporsi alla caduta del corpo e alla fine della vita. Quella madre si spinge quasi fino a fondersi col figlio per assorbirne la pena in un ultimo tentativo di abbraccio protettivo o lasciarsi morire con lui”.
Le figure (come nella prima Pietà, quella di San Pietro, ormai tanto lontana negli anni) sono ridotte a due soltanto; ogni estraneo è stato eliminato; madre e figlio sono soli nel momento della morte; ambedue precipitano verso il basso, ma sembra che Maria tenti di trattenere il corpo che scivola inesorabilmente a terra. C’è una scavata, desolata verità in queste due figure strette in un unico blocco. Il gruppo tragico e purissimo mi sembra dominato da un dolore contenuto. C’è, però, un’altra possibile lettura: il torso di Gesù è schiacciato sul corpo della madre fino a fondersi in esso in un’unità ormai inscindibile. Gesù non si abbandona più in avanti, affonda invece nell’abbraccio della madre; entrambi i corpi sono adesso esili e deboli, le teste convergono nella stessa posizione, con lo sguardo rivolto verso il basso. Se guardiamo le due figure da una veduta laterale notiamo che le forme sbozzate e indifferenziate si presentano con l’aspetto di un arco o di una fiamma. Nella dolorosa tenerezza di questo abbraccio si intravedono la solitudine e il pessimismo di Michelangelo che si alzano alla speranza: l’ultima salvezza è nel ricongiungersi dell’umanità (Cristo) al concetto primo e universale della vita (la Madre), forme umane spiritualizzate congiunte dall’amore.
Il primato della scultura.
Michelangelo aveva così argomentato, in una lettera a Benedetto Varchi, la priorità data alla scultura nel sistema delle arti: “la scultura si faceva per via di levare, la pittura invece per via di porre”. Scalpellare via il più del marmo per svelare la figura idealmente circoscritta nel blocco era un duro lavoro manuale, ma insieme era un’operazione intellettuale, di segno neo-platonico: distruggeva la materia per liberare e glorificare lo spirito, l’idea. La scultura era difficile faticosa implacabile: non dava scampo, non permetteva pentimenti. La tensione intellettuale attraverso questa pratica impietosa poteva trasformarsi in slancio religioso. Il lavoro manuale non veniva screditato, al contrario: assumeva un valore in proprio, non era più una prassi dipendente da una teoria superiore. Sostiene l’Argan che questa nuova prassi era l’effetto di una nuova morale della cultura per cui tutto era ricerca e i risultati valevano in quanto contenevano lo spunto del proprio superamento. Nelle prime sue sculture questo concetto non c’era; la Pietà del 1498, quella bellissima che è in San Pietro, fu scolpita con l’ossessione del finito, e così anche il David. Il non-finito della sua scultura non fu istintivo, maturò col tempo e con l’esperienza. Ora in lui, in questi ultimi tempi, non nasceva più un pensiero in cui non fosse scolpita la morte. Questa Pietà Rondanini fu l’estremo quasi delirante abbandono al non-finito, un non-finito che diventa linguaggio infinito.
Il tema dominante è un enigma?
Molti sostengono che il tema centrale di questa opera è la pietà: non più intesa come compianto per la morte di Cristo ma come presentazione al mondo e agli uomini, affinché si vergognino delle loro colpe e dei loro peccati, del corpo di Gesù morto. Questo pensiero, presentato come un frammento, non può essere espresso se non per frasi mozze e per accenti tronchi. Ecco, allora, la giustificazione dei pentimenti creativi e delle distruzioni lasciate in vista. E allora ecco i misteri: perché è conservato il braccio di una terza figura annullata? Il braccio ben modellato che si vede sul lato destro del blocco non appartiene a quella figura magra ed esile che piega le ginocchia; evidentemente è di un Cristo in precedenza scolpito in un’altra postura e con diverse dimensioni o appartiene ad una figura del tutto differente, dalla quale solo in un secondo momento Michelangelo ricava questa straziante Pietà? L’opera è una rilavorazione d’una scultura precedente? Come era già successo col David e col Mosè lo scultore, deciso a trasformare una scultura in un’altra, non solo riesce a utilizzare al meglio i vincoli imposti dalla scultura precedente ma addirittura se ne avvantaggia per arrivare a forme di straordinaria bellezza e poesia come la curva della Madonna che segue il marmo disponibile per aggrapparsi e insieme proteggere con infinita pietà il corpo del figlio morto. Perché i volti sono erosi e consunti, come per dare il senso di un disfacimento già in atto? Il volto di Gesù è quello di Michelangelo-Nicodemo? Il volto della Madre è quello di Maria fuso con Nicodemo? Quale messaggio l’artista, vicino alla morte, consegnò a questi suoi ultimi segni? Cosa graffiava nel marmo in quelle notti insonni con la candela sull’ala del cappello, come scrivono alcuni testimoni?
Conclusione.
Come Donatello nella Maddalena del Battistero di Firenze, così in quest’opera Michelangelo rinnova totalmente la tradizione, chiude definitivamente il Rinascimento, travolge il Manierismo e si protende verso il futuro: c’è l’abbandono completo di ogni rapporto con la realtà visibile, sia pure idealizzata come aveva fatto in tanti suoi capolavori, e c’è invece la totale espressione del proprio mondo interiore. Queste forme corrose e fuse esercitano un fascino enorme su di noi, nel nostro tempo così disincantato e narciso. Alcuni critici hanno scritto di riferimenti alla cultura medievale (le figure allungate, la loro posizione, il tema religioso) e questo può valere solo dal punto di vista iconografico. Ma si sbaglia quando vi si vuol vedere il definitivo rientro dei canoni rinascimentali di armonia e di proporzione a favore del ritorno a un mistico mondo gotico.
Michelangelo aveva vissuto per quasi un secolo, dai giorni di Lorenzo il Magnifico alla conclusione del Concilio di Trento, gli eventi drammatici fondamentali della storia italiana e quelli suoi privati, ne aveva meditato i significati con un’intensa ricerca di spiritualità. Le persone care erano ormai tutte scomparse, non restavano che la solitudine, il dolore e il desiderio della morte. Così il vecchio artista comunica al nipote Lionardo la morte del fedele servitore Urbino: “iersera, a dì 3 di dicembre a ore 4 passò di questa vita Francesco detto Urbino, con grandissimo mio affanno; e àmmi lasciato molto afflitto e tribolato, tanto che mi sare’ stato dolce il morir con esso seco” (1555).
Gennaro Cucciniello