Mussolini, la guerra, le ragioni della sconfitta, anzi della disfatta.

Mussolini, la guerra, le ragioni della sconfitta, anzi della disfatta.

 

Nel “Corriere della Sera” di domenica 16 maggio 2021, a pag. 37, è pubblicato il commento di Marco Mondini al saggio “La guerra di Mussolini” di A. Carioti e P. Rastelli, Solferino editore.

 

Il 28 novembre 1940 Giuseppe Bottai visita Taranto. Sono passare due settimane da quando una ventina di aerosiluranti britannici hanno raggiunto indisturbati la base navale, messo fuori combattimento tre corazzate e annientato ogni speranza italiana di ottenere il controllo del Mediterraneo. Lo spettacolo è deprimente. I comignoli delle navi affondate affiorano a fior d’acqua, e dappertutto si avvertono paura e abbandono. “Paradossale risultato” –confessa Bottai nel suo diario- “d’un regime fondato sul principio dell’unità di comando e d’organizzazione”. Immagine emblematica del fallimento di quella che avrebbe dovuto essere la prova suprema dell’Italia fascista. Ma le umiliazioni per mare e per terra (di lì a poco l’armata del maresciallo Graziani verrà fatta a pezzi in Africa settentrionale, mentre i Greci entreranno in Albania) sono il frutto di errori lontani. Ed è proprio alle ragioni della disfatta, quelle immediate e quelle profonde, che Antonio Carioti e Paolo Rastelli dedicano il loro libro, “La guerra di Mussolini” (prefazione di Marcello Flores, Solferino, pp. 473, € 17): l’atlante di una sconfitta annunciata.

Seguendolo ci si orienta tra i mille segni funesti che anticipano, ben prima del 10 giugno 1940, la rovina di una dittatura di dilettanti e parolai, in cui l’avventura della guerra viene tentata (nemmeno pianificata) per ragioni di puro prestigio o puntiglio personale.

Ricorda Carioti nella prima parte del volume (“Gli eventi”) che nel maggio 1940 Mussolini confessa a Galeazzo Ciano come la guerra a fianco di Hitler sia necessaria perché nel 1915 “ci siamo già abbastanza disonorati”: l’Italia non può sottrarsi un’altra volta agli obblighi di un’alleanza, per quanto scellerata. L’antimito dell’italiano inaffidabile e l’ossessione di fare bella figura hanno più peso della realtà di un Paese che è marziale solo nelle veline della propaganda. Ma a ragionare così non è un capo di governo né un capo delle Forze armate. Il cosiddetto Duce si rivela per quello che è sempre rimasto: un agitatore populista, convinto che gli slogan urlati alle folle possano sovvertire i rapporti di forza reali.

Immergersi nell’anatomia del disastro significa però anche ricordare che tutti sono complici. Gerarchi e ministri, imprenditori e generali (da Badoglio in avanti), per tutta la durata del regime hanno tenuto in piedi per convenienza, pochezza o incompetenza la finzione di un’Italia grande potenza. Per vent’anni Mussolini ha proclamato al mondo che il fascismo avrebbe rifatto gli italiani, trasformandoli in una nazione imperiale e guerriera. Ma, alla prova della guerra totale, la roboante Italia in camicia nera si rivela molto più fragile della tanto vituperata Italietta liberale. “Troppo pochi, troppo vecchi, troppo tardi”, come sintetizza efficacemente Paolo Rastelli nella seconda parte, dedicata alle cause militari della sconfitta.

L’Italia non ha la struttura industriale per affrontare un conflitto moderno. Aerei, carri e artiglierie sono obsoleti e non si riesce a rinnovarli in tempo. Lo Stato Maggiore non ha sviluppato una dottrina efficace e, per dirla tutta, nemmeno si capisce chi comanda davvero. Mussolini (lo ricorda Emilio Gentile in una preziosa intervista in appendice al volume) è consapevole che la guerra è un azzardo: occupa da anni i principali ministeri e non ignora l’impreparazione generale. Ma, in fondo, ritiene che la prova della guerra non potrà fare che bene a un popolo imbelle che disprezza e che vuole rifare da capo. Non è il primo che lo pensa.

 

   Marco Mondini