Il 2016 è il cinquecentesimo anniversario della prima edizione dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto.
Nel 1516, cinquecento anni fa, vide la luce la prima edizione dell’”Orlando furioso”, quella che i filologi chiamano “l’editio princeps” del poema. Ariosto stesso ne vigilò oculatamente la stampa: si racconta che il poeta sfilasse personalmente i fogli dal torchio man mano che venivano impressi e di sua mano apportasse correzioni, aggiustasse un apostrofo, emendasse una grafia. Era la fine di un lavoro iniziato dodici anni prima. Dopo questa prima edizione Ariosto ne realizzò un’altra nel 1521 e un’altra ancora –la definitiva- nel 1532, quella che tuttora si legge più diffusamente e che in tutto il secolo XVI fu coronata da un’immensa fortuna, arrivando a contare 155 edizioni, un vero primato, senza tener conto delle tantissime traduzioni. Nel 1533 il poeta morì.
Nel 2006 un filologo, Marco Dorigatti, che da molti anni era professore di letteratura italiana a Oxford, con la collaborazione di Gerarda Stimato, ha approntato la prima edizione critica dell’”Orlando furioso” secondo la “princeps” del 1516 (Olschki, pp. 1071, € 80). C’è una prima domanda. Quanto è differente l’edizione del ’16 da quella del ’32? Scrisse a suo tempo Dorigatti che la prima era un’opera a se stante, alternativa alla successiva, e non tanto sul piano letterario quanto su quello linguistico. Era infatti tessuta in una lingua molto ferrarese, infarcita di dialettalismi e di latinismi, con una forte e riconoscibile carica espressiva. Dal ’16 al ’32 il passaggio è netto. Le venature padane si stemperano in una lingua più consona all’uniformità fiorentina, dettata da Pietro Bembo, il cui fondamentale “Prose della volgar lingua” è datato 1525. L’idioma al quale i letterati dovevano attenersi diventava quello dei trecentisti, in particolare quello di Petrarca e di Boccaccio.
Riporto due esempi ponendo a confronto alcuni versi delle due edizioni:
1516 Di donne e cavallier li antiqui amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto.
1532 Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto.
1516 La corazza havea indosso e l’elmo in testa,
cinta la spada, et imbracciato il scudo.
1532 Indosso la corazza, l’elmo in testa,
la spada al fianco, et in braccio avea lo scudo.
1516 Angelica gli rese pienamente
conto di sé dal dì ch’esso da lei
a cercar fu mandato in Oriente
lontan soccorso alli suoi casi rei;
disse che Orlando da tutta la gente
ch’è tra li Franchi alberghi e i Nabattei
le havea servato il fior virgineo salvo
come ella sel portò dal materno alvo.
1532 Ella gli rende conto pienamente
dal giorno che mandato fu da lei
a domandar soccorso in Oriente
al re de’ Sericani e Nabatei;
e come Orlando la guardò sovente
da morte, da disnor, da casi rei:
e che ‘l fior virginal così avea salvo
come se lo portò del materno alvo.
Nel 2016 il poema compie dunque cinque secoli. A Ferrara una mostra ricorda il grande capolavoro del nostro Rinascimento. La mostra –a palazzo dei Diamanti dal 18 settembre 2016 all’8 gennaio 2017- si intitola: “Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi” e riunisce dipinti, sculture, strumenti musicali, manoscritti, libri e manufatti di ogni genere. Un viaggio affascinante alle sorgenti dell’immaginario del poeta tra battaglie, tornei, amori e magie, riprodotti nelle opere di maestri come Paolo Uccello, Mantegna, Leonardo, Raffaello, Michelangelo, Tiziano. Sul “Venerdi di Repubblica”, del 16 settembre 2016, pp. 18-25, sono pubblicati articoli di Melania Mazzucco, Lorenzo Jovanotti Cherubini, Licia Troisi, Elisa Manisco. Ne riproduco alcune parti.
Gennaro Cucciniello
Incantesimi, castelli stregati, cavalli alati, eroi mutanti: il poema sembra una moderna saga fantasy.
Ogni italiano ha sentito nominare il gran poema di Ludovico Ariosto, l’Orlando furioso, di cui quest’anno ricorre il 500° anniversario. Molti ne hanno letto svogliatamente qualche brano nell’antologia scolastica – per lo più la scena della pazzia del conte che, tradito dalla bella Angelica, si spoglia nudo e si accanisce a sfasciare alberi e piante. Pochissimi, però, lo hanno letto davvero si intende: dall’inizio alla fine. Né sono stati invogliati a farlo.
Perfino quando la Rai divulgava a puntate e in bianco e nero i capolavori della letteratura italiana e mondiale (dai Promessi sposi ai Fratelli Karamazov fino al Mulino del Po) nessuno ne azzardò una riduzione. Trama improbabile e dispersiva? Troppi personaggi? Troppa violenza esagerata? Troppo fantastico? La versione televisiva del celebrato spettacolo teatrale di Luca Ronconi passò sul piccolo schermo solo nel 1975. Ma anche il nostro cinema non ha mai creduto nell’intrattenimento colto e insieme popolare: gli spettatori italiani che avevano affollato le sale per Excalibur non colsero il richiamo del film fantastico-cavalleresco di Giacomo Battiato, I Paladini, imperniato sulla vicenda di Ruggero e Bradamante (1983). Da allora, salvo un’opera-movie statunitense da Vivaldi con Marilyn Horne nel ruolo di Orlando, più nulla. I cavalieri di re Carlo e i loro omologhi saraceni spariscono, inghiottiti nelle elitarie contrade dell’accademia.
E’ un’eclissi che grida vendetta. Per secoli l’Orlando furioso è stato uno dei pochi libri italiani che tutti avevano letto – non per dovere o studio ma per diletto, cioè per il motivo principale per cui in fondo si dovrebbe dedicare una parte del proprio tempo alla lettura. Le edizioni, le traduzioni in tutte le lingue e le ristampe (anche pirata) non si contano. Come i seguiti, i rifacimenti, le continuazioni delle avventure di un singolo personaggio, marginale nell’opera magna ma eletto a protagonista nell’opera derivata (oggi nella narrativa globale si preferiscono i termini inglesi sequel, remake, spin off) – che qualsiasi poetastro si sentiva autorizzato a comporre. Perfino l’onomastica italiana ne fu mutata, e città e campagne, corti e bordelli conobbero un profluvio di Doralice, Olimpia, Isabella, Ginevra. Né si contano i quadri ispirati ai personaggi del poema (per lo più femmine nude in pericolo), che i pittori di tutta Europa dipinsero dalla sua pubblicazione e fino alla fine dell’Ottocento. Il mondo dell’Orlando furioso – un patrimonio inesauribile di personaggi, avventure, sogni, follie- ha accomunato per secoli ricchi e poveri, dotti e illetterati, aristocratici e calzolai. Nelle contrade più remote pastori e pecorai sapevano recitarlo a memoria, e improvvisare varianti della storia per il diletto dei viandanti. Ancora negli anni Settanta tutti sapevano chi fossero Atlante, Medoro, Fiordiligi. In meno di tre decenni ogni ricordo si è perduto. I duelli di Rinaldo, Mandricardo, Bradamante, Marfisa e infiniti altri, i viaggi, le magie, gli incantesimi, le ricerche insensate, le folli fughe, non hanno lasciato impronte nel nostro immaginario collettivo di italiani –in cui galleggiano, nel migliore dei casi, frantumi sparsi di versi. Ridotti a citazioni ironiche (“ecco il giudicio uman come spesso erra!”) o parole entrate nell’uso comune (gradasso, rodomonte) di cui si è dimenticata la fonte. Le invenzioni di Ariosto hanno fecondato il genere fantastico (oggi si preferisce dire fantasy), e perfino lo splatter e il pulp –ma pochi tra quanti esaltano i sanguinolenti duelli delle serie tv oggi in gran voga ricordano l’archetipo da cui sgorga il piacere inverosimile dell’avventura.
Sicché meritati e dovuti appaiono i molti eventi, le presentazioni, i reading e le mostre che sono stati organizzati in tutta Italia per celebrare i 500 anni dell’Orlando. Il culmine sarà giustamente a Ferrara, città nella quale tutto ebbe inizio: con la mostra che si inaugurerà a Palazzo Diamanti il 24 settembre. L’intuizione dei curatori è feconda, perché capovolge la prospettiva. La mostra, scandita in sezioni tematiche, non inseguirà la fortuna del poema nella storia della cultura italiana ed europea, ma risalirà a ritroso fino alla sua origine. A specchio del libro, sarà un viaggio imprevedibile nel mondo reale e immaginario dello scrittore. A raccontare la genesi della sua opera saranno oggetti, manoscritti, disegni, quadri. Vedremo “Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi”. I personaggi della corte estense, i suoi amici e protettori, le battaglie combattute dai condottieri suoi contemporanei, gli strumenti musicali, i tarocchi… La sfida è affascinante e va vissuta come un gioco.
Ognuno provi a chiedersi cosa vede quando chiude gli occhi e pensa: Orlando furioso, e compili il suo elenco. Il mio? La Durindana, i cavalli Brigliadoro e Rabicano, l’anello fatato e la lancia magica di Bradamante, le armature lucenti, gli elmi, le ampolle col senno perduto degli uomini, le navi sbattute dalle tempeste… Li troverò alla mostra?
In massima parte sì. Mi incanterà l’olifante d’avorio, prezioso reperto dell’XI secolo, che il paladino Orlando suonò troppo tardi a Roncisvalle, prima di essere disfatto dai Mori (in verità dai Baschi ma il conflitto cristiano-musulmano è più intrigante per l’epica popolare e su esso si fonda la narrativa romanza). Mi incanteranno la spada di Boabdil, ultimo re moro di Spagna (nonché capostipite del narratore del torrenziale romanzo di Salman Rushdie, L’ultimo sospiro del moro), le armature da giostra, le selle, i cimieri. E la straordinaria sfera dell’obelisco di Sisto V: oggetto enigmatico e suggestivo che si riteneva contenesse le ceneri di Giulio Cesare (forse a questa pensava Ariosto quando inventò le ampolle del senno perduto, ma non sapeva ancora che la sfera era vuota: l’apertura avvenne dopo la sua morte). Il raffinato disegno a penna di Marco Zoppo, Busto di donna guerriera, custodito nella collezione del British Museum, che pare proprio il ritratto di Bradamante o Marfisa. Ma siccome fu schizzato decenni prima della composizione del poema, fa domandare chi ne sia stata l’altera modella –se una donna davvero esistita, oppure un fantasma sognato dall’artista. E poi i manoscritti e i libri magnifici di fine Quattrocento, identici a quelli che ci ostiniamo a leggere ancora in epoca digitale (poiché il libro di carta è un oggetto imperfettibile, e perfino prima dell’invenzione dei caratteri a stampa aveva già trovato la sua forma finale). Quei libri preziosi come reliquie contengono, in varie lingue, le storie dei cavalieri di re Artù, Lancillotto, Galvano, la maga Melusina –che Ariosto lesse con diletto e cui con disinvoltura attinse, perché in letteratura niente viene dal niente, e lui pescò le sue storie nel mare magno di quelle scritte da altri (dalle chansons de geste dei paladini di Carlo Magno al ciclo bretone della Tavola Rotonda, dai miti classici, per lo più nella variante sorridente incredula e fantastica di Ovidio, fino alle favole e al folclore popolare), combinandole tra loro in un modo, un tono e una lingua che erano solo suoi.
E perciò –tra i molti capolavori pittorici esposti (da Mantegna a Tiziano)- mi soffermerò ad ammirare la Liberazione di Andromeda di Piero di Cosimo. Dipinta a Firenze intorno al 1510, illustra il mito greco con inverosimiglianza grottesca e bizzarra tenerezza. Nel suo eroe volante, Perseo, nel mostro che minaccia la fanciulla e nella lattea nudità di costei risplende la stessa irreale, lunare poesia che bagna le contrade ariostesche e i suoi improbabili eroi. Affinità di spiriti congeniali, forse. Ma mi piace pensare che Piero di Cosimo fece in tempo, qualche anno dopo, a leggere l’Orlando furioso e a scoprire che qualcuno avrebbe potuto recuperare sulla Luna il suo senno perduto: maestro negletto, furioso e misantropo come Orlando (e infatti giudicato pazzo dai suoi contemporanei) si spense nel 1522.
Ma soprattutto mi incanterà la Carta del navecare, datata 1502: di anonimo portoghese, è uno dei tesori della Biblioteca Estense (dunque la videro i mecenati di Ariosto e Ariosto stesso). Chinatevi a leggere i nomi dei luoghi, degli oceani, dei fiumi. Anche l’universo ariostesco pullula di nomi di luoghi lontani, esotici e però reali, capaci di far sognare i lettori. Il Catai, la Soria, la selva d’Ardenna, il Barbante… Essi svolgono la stessa funzione dei toponimi indiani e malesi disseminati nei romanzi di Salgari. Nell’insieme, formano una geografia fantastica come la mappa del tesoro, inventano un mondo privo di confini –in cui tutto è lontano e insieme vicino, tutto si assomiglia e tutto è diverso, tutto è vero e insieme inesistente. I capitani e i marinai che prendevano il mare nel XVI secolo cercavano su quella carta la rotta capace di condurre la loro nave nel porto del desiderio. Mi piace pensare che la Carta diafana sarà per tutti noi visitatori un invito a cercare nel labirinto delle pagine di Ariosto la rotta capace di appagare il nostro desiderio di evasione, divertimento, sogno –e che sarà soltanto nostra.
Melania Mazzucco
Non è un poema, è magia. E sembra un film di 007
I libri non si consigliano, sono come le fidanzate, si incontrano, scatta la scintilla, ci si innamora. Non ha senso leggere oggi Orlando furioso, a meno che non capiti qualcosa che ti fa innamorare, come è capitato a me, molti anni dopo averlo sentito appena nominare a scuola. Negli anni del liceo io scappavo come un cavallo e Ariosto lo sfiorai appena, era un nome in una canzone di Venditti, lo guardai passare come Angelica in fuga nella prima scena. Pochi professori si lanciano all’inseguimento, perché è troppa la roba da fare nel programma per fermarsi a lungo nel poema che non si ferma mai, che comincia già iniziato (come un film di 007) e finisce senza finire (come un film di 007), ma di quelli di oggi, con un sacco di azione e di effetti speciali).
Così che io l’ho scoperto a quasi 40 anni, grazie a un mio amico che non finirò mai di ringraziare per avermela presentata, la lingua di Ariosto, la sua fantasia. Leggi questa, mi disse, ed era la pagina in cui Astolfo va sulla luna, “altri fiumi altri laghi altre campagne…”.
Lascio ai letterati le analisi e le informazioni, e li ringrazio da lettore, io sono qui attaccato alla transenna con la fascia in testa a fare il fan di Ludovico Ariosto e del suo innumerevole spettacolo di energia e azione, dove le parole schizzano come sangue finto in un film di Tarantino. Il ritmo, la velocità, la precisione delle scene, il montaggio, le zoomate repentine, la scenografia, la fantasia della lingua, la precisione dell’ottava rima, l’invenzione continua, la sensualità, le battaglie, il divertimento, la mancanza di giudizio. Il puro entertainment, l’elettricità, la luce. Il Poema si svolge in un adesso assoluto, in un mezzogiorno continuo di un mondo sconfinato eppure percorribile a salti come fosse un campetto di pallone in periferia, dove non cala mai la sera e il metallo delle armature lampeggia e fa socchiudere gli occhi, come in un film dei transformer, ma con la maestria poetica di un signore che ha dedicato una vita a scolpire le parole e poi a lubrificarle. Un incrocio tra Michelangelo e un ingegnere aeronautico. L’ottava rima è la madre del free style improvvisato, eppure Ariosto ci ha messo trent’anni a cesellare le rime, perché questo poema è tutto e il suo contrario, è jazz e partitura, coreografia e delirio, attrazione e cura.
Orlando furioso sta alla letteratura come la scoperta dell’America (che è contemporanea al poema) sta alla geografia (fisica e politica, risorse del sottosuolo, muschi e licheni, guerre di conquista). Colombo pensava di aver trovato una scorciatoia per le Indie, ma era appena sbarcato in un mondo nuovo, che da allora è sempre rimasto nuovo. Gli eredi di Ariosto non sono solo gli scrittori ma i registi, gli inventori, i ballerini di liscio, i programmatori di software, i disegnatori di fumetti, i viaggiatori, i cuochi, gli amanti, i pazzi, i calciatori, i maghi, le contorsioniste, le rockstar e gli astronauti.
Perché adoro Orlando furioso? Non so rispondere, è amore, è furia, attrazione irragionevole e gratitudine. Se leggo una pagina a caso e poi alzo gli occhi dal libro ed è tutto diverso, come se avessi preso una pozione magica, e succede ogni volta, non lo so perché, ditemelo voi, io continuo a leggere.
Lorenzo Jovanotti Cherubini