Le donne reinventano i ruoli del Sacro
C’è una questione femminile in campo religioso. Un tema aperto.
La Chiesa cattolica è a disagio quando le si chiede di ammettere le donne non soltanto al sacerdozio comune proprio di tutti i fedeli, ma al sacerdozio ministeriale cui si accede mediante il sacramento dell’Ordine, riservato ai battezzati maschi dal magistero e dal diritto canonico. E’ cruciale, la questione, nel sistema ecclesiastico romano. Detiene il potere solo chi è ordinato e dunque le donne escluse dal ministero sono automaticamente escluse dal governo. Nell’Occidente della parità uomo-donna, della fluidità di genere e delle vescove protestanti, il nodo sembra tra i più decisivi per il futuro della Chiesa di Roma, anche se il problema pare avvertito non tanto da chi sta dentro, ma di chi sta ai margini o addirittura fuori (…)
Il 15 ottobre 1976 Paolo VI ha approvato una Dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede (Inter insigniores), esplicitamente dedicata alla questione dell’ammissione delle donne al sacerdozio ministeriale che stabilisce il tracciato sul quale si muoveranno in seguito anche i suoi successori: nonostante le istanze del tempo siano ormai pressanti e nonostante le Chiese cristiane nate dalla Riforma abbiano accettato di conferire il ministero pastorale anche alle donne, la Chiesa cattolica “per fedeltà all’esempio del suo Signore, non si considera autorizzata ad ammettere le donne all’Ordinazione sacerdotale”.
Gli argomenti, che resteranno gli stessi anche in seguito, sono: Gesù e gli apostoli non hanno ordinato nessuna donna; se alcune comunità dei primi secoli lo hanno fatto, sono state ritenute eretiche e la tradizione della Chiesa è rimasta stabile al riguardo anche per le Chiese d’Oriente. Il combinato disposto di Scrittura e Tradizione, insomma, impedisce alla Chiesa di apportare modifiche a una prassi secolare.
Non è possibile qui addentrarsi nelle singole argomentazioni per rilevarne la fragilità. Anche perché dal punto di vista storico è ormai chiaro che solo motivi apologetici e missionari hanno spinto le prime Chiese che si andavano formando e strutturando all’interno dell’Impero romano ad accettare il codice androcentrico di quel mondo. Gesù aveva rifiutato per la sua comunità discepolare qualunque forma di gerarchia, anche quella fondata sulla differenza dei sessi, ma il patriarcato giudaico, prima, e in seguito quello greco-romano hanno invece improntato la struttura delle Chiese nascenti anche sul fondamento della gerarchia tra i sessi. Non c’è dubbio che duemila e più anni di patriarcato non si cancellano in un batter d’occhio, ma è ben possibile ritenere che, se le Chiese dei primi secoli hanno deciso di assumere una forma istituzionale che niente aveva a che vedere con il gruppo discepolare del Nazareno, possano fare altrettanto anche quelle del terzo millennio, come mostra l’esperienza delle Chiese nate dalla Riforma,, o quella della Chiesa Veterocattolica formata in reazione alla proclamazione del dogma dell’infallibilità papale al Concilio Vaticano I (1870) (…)
Fa da sfondo al reiterato rifiuto del sacerdozio alle donne una concezione della differenza sessuale e di genere divenuta convenzionale nell’immaginario clericale. In gergo si chiama “il principio mariano-petrino” e altro non è che la trasposizione teologica del bipolarismo maschile-femminile. Paolo VI lo riprende nella Marialis cultus, Giovanni Paolo II lo assume e lo rilancia nella Mulieris dignitatem, Benedetto XVI se ne serve addirittura per spiegare senso e valore della porpora cardinalizia e Francesco lo ha immediatamente utilizzato per chiarire cosa debba significare una Chiesa composta di donne e uomini.
Come tutti i bipolarismi, anche quello maschile-femminile ha facile presa perché ingabbia la complessità dentro uno schema e genera stereotipi: a una lettura simbolica, le figure evangeliche di Pietro e Maria possono trasformarsi in princìpi a cui la Chiesa deve la sua stessa costituzione unitaria perché nella sua essenza la Chiesa è insieme mistico-mariana ed apostolico-petrina. Il principio mariano rimanda infatti alla caratterizzazione materna e domestica del femminile, conseguente a una comprensione antropologica e sociale della sessuazione femminile in termini di interiorità, accoglienza e nascondimento; mentre il principio petrino richiama quanto, nel sistema simbolico patriarcale, caratterizza il maschile, cioè forza, autorità, potere. Tra loro ben distinti, i due princìpi garantiscono che la Chiesa sia in grado di assicurare a donne e uomini l’esercizio di ruoli e funzioni conformi alla loro essenziale differenza. All’apice di una tale costruzione simbolica c’è però un inatteso ribaltamento di prospettiva che mira di nuovo all’esaltazione del femminile: ogni istituzione e ministero, anche quello di Pietro e dei suoi successori, è compreso sotto il manto della Vergine, la struttura ecclesiastica apostolico-petrina è ordinata alla santità di cui Maria è figura esemplare, la mistica mariana precede e include la ministerialità petrina. Per dirla con Papa Francesco: le donne non devono ambire a ministeri ecclesiastici perché Maria è comunque più importante di qualsiasi cardinale.
Inutile dire che da più di un secolo, da quando cioè le scienze umane hanno messo a nudo la fragilità definitoria di quanto va ritenuto maschile o femminile e da quando il pensiero femminista ha smascherato come androcentrica e patriarcale la subordinazione tra i sessi, tanto la visione antropologica cattolica che le sue ricadute sul piano dell’organizzazione ecclesiastica sono oggetto di riflessione e di discussione. Ben sapendo che una millenaria tradizione intellettuale, se viene assunta con rispetto, ma anche con lucidità, porta sempre già in se stessa germi di futuro.
Marinella Perroni
Ne “La Lettura”, supplemento culturale del Corriere della Sera del 6 marzo 2022, è pubblicato questo testo alle pp. 2-5. Marinella Perroni (Roma, 1947) è docente emerita di Nuovo Testamento al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma e docente invitato alla Pontificia Facoltà teologica Marianum.