Siamo bianchi per caso. Discendiamo da una tribù africana e abbiamo la pelle chiara grazie a un gene mutato. Utile in Europa.
Colloquio di Daniela Minerva con Luca e Francesco Cavalli Sforza.
L’articolo è stato pubblicato nell’Espresso del 10 novembre 2011
Provate a voltarvi indietro. Di qualche migliaio d’anni appena. Uno sguardo a quelle quattro specie di uomini che vivevano accanto a noi, illusi oggi di essere unici e irripetibili. A quella lingua antica che, in pochi secoli, è diventata la Babele di oggi. A quella tribù africana che sapeva parlare e ha colonizzato il mondo evolvendo, poi per caso, la pelle bianca. Eccola in un percorso, tanto formidabile quanto casuale quella che il cliché chiama “la straordinaria avventura dell’uomo”. Ricostruirla è stata un’impresa titanica che ha impegnato per un paio di secoli naturalisti, biologi, antropologi, archeologi, linguisti e mille altri scienziati; ma che oggi si cristallizza in uno scenario condiviso. Anche perché la genetica può dimostrare che è andata davvero così.
Così come, ce lo racconta una mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma col titolo “Homo sapiens. La grande storia della diversità umana” curata, insieme a Telmo Pievani, da Luca Luigi Cavalli Sforza. E che si costruisce proprio attorno al progetto del grande genetista italiano, professore emerito alla Stanford University, che da più di trent’anni lavora a ricostruire la storia della diversità umana mettendo in sintonia l’evoluzione delle caratteristiche biologiche e di quelle culturali della nostra specie. Perché, ci dice, “il Dna ha dato all’uomo le possibilità. Ma nell’evoluzione la genetica è diventata meno importante da quando il cervello ha gli strumenti per affiancare trasformazioni culturali e trasformazioni biologiche”. E questo è stato l’insostituibile contributo di Cavalli Sforza alla scienza dell’evoluzione umana: intuire che la cultura non è solo la qualità che più ci distingue dal mondo animale, ma che essa si evolve con meccanismi analoghi a quelli che regolano l’evoluzione biologica. E diventa il motore dell’evoluzione, anche genetica.
Cavalli Sforza compirà 90 anni il prossimo 25 gennaio 2012. Ha scritto montagne di articoli scientifici e libri; e ci accoglie nella sua casa milanese col sorriso di chi è disposto, per pura cortesia, a raccontare di nuovo la “sua” storia dell’uomo. Ma poi posa uno sguardo complice sul figlio Francesco, da anni collaboratore del padre nella scrittura di libri e conferenze, e professore di Genetica e Antropologia all’università del San Raffaele di Milano. E il colloquio diventa uno strano discorso a due voci, con Francesco che sciorina dettagli e l’illustre genitore che chiosa, sottolinea, commenta. Con frasi fulminee capaci con poche parole di mostrare quale impresa sia definire l’uomo.
Ed è Francesco che centra il racconto: “Parliamo dell’uomo. Già, ma di quale uomo? Cominciamo col dire che siamo soli su questa terra da pochissimo tempo. E che per migliaia di anni abbiamo camminato accanto ad altre specie del tutto simili a noi”. La verità scientifica è che una specie umana si è evoluta in Africa circa due milioni di anni fa: uomini forti, camminatori. Ma non solo. Al centro della scena c’è una tribù che aveva evoluto due tratti culturali che fecero la differenza: il fuoco e il linguaggio, grezzo e rudimentale ma pur sempre capace di comunicare le innovazioni. Che permisero loro di crescere e moltiplicarsi. Fino a sentire la necessità di lasciare l’Africa orientale andando verso nord, lungo le rive dell’oceano, e poi a est lontano fino in Asia alcuni, e ancora a nord fino all’Europa altri; e a ovest fino al Maghreb. E’ quella che gli scienziati chiamano la prima Diaspora e che ha portato un solo gruppo umano a colonizzare il mondo, a differenziarsi e a restare in tribù separate abbastanza a lungo da diventare, addirittura, molte specie differenti. “I Sapiens diffusi in tutto il mondo e i robusti neandertaliani in Europa, uomini asiatici diversi in Siberia e a Giava, e gli indonesiani Floresiensis, piccoli come Pigmei e col cervello piccolo ma capaci di maneggiare la stessa tecnologia degli altri uomini”, dettaglia Francesco.
E’ una storia antichissima questa dei tanti uomini così diversi da essere diventati specie diverse. Ma serve a delineare un tratto umano e solo umano: i nostri predecessori aumentano di numero e viaggiano, si espandono, prosperano grazie a innovazioni culturali che vanno a braccetto con mutazioni biologiche. Questo era accaduto circa due milioni di anni fa. E questo sarebbe accaduto di nuovo moltissimi secoli dopo. Quando una manciata di uomini neri e probabilmente non più pelosi che viveva nell’Africa orientale lasciarono il continente a più riprese, tra i 100 e 50 mila anni fa, inviando colonie in tutto il mondo, fino in nuova Guinea e in Oceania. Noi tutti, sul pianeta, discendiamo da quel manipolo di africani che aveva una marcia in più: prosperavano e si espandevano parlando tutti la stessa lingua. Come ha dimostrato il lavoro di Luca Cavalli Sforza, che sintetizza, “tutte le lingue esistenti oggi derivano da un unico idioma molto elaborato. E io penso che gli uomini che mossero dall’Africa lo parlassero e l’abbiano diffuso in tutto il mondo. Come aveva ben detto già Darwin: l’evoluzione dell’uomo moderno e del linguaggio sono andate di pari passo; e per entrambi l’origine è africana”. A dimostrare la sua ipotesi Cavalli chiama un lavoro scientifico pubblicato qualche anno fa che studia la diffusione di 650 mila geni e dimostra che le seimila popolazioni esistenti oggi e definite in base alle lingue si sono sviluppate a partire da un’unica popolazione negli ultimi 55 mila anni. E quella popolazione di neri, insediata nei quattro angoli della terra, ha evoluto migliaia di innovazioni culturali diverse, capaci di adattarla alle diverse condizioni dell’ambiente circostante. Caratteristiche le più svariate come lo sono le abitudini degli umani. Ma una in comune, di nuovo, ha fatto la differenza: un modo diverso di produrre il cibo, la caccia, l’agricoltura e la pastorizia, nate in diversi focolai più o meno contemporanei.
Più ricchi, più sicuri della risorsa economica, gli agricoltori e i pastori hanno presto, e ovunque, avuto la meglio sui gruppi umani che vivevano di caccia e di raccolta estemporanea di vegetali. E la storia subisce all’improvviso una formidabile accelerazione: in poche migliaia di anni gli agricoltori costruiscono villaggi per stare vicino ai campi, accumulano innovazioni culturali feconde economicamente (dalla divisione del lavoro alla famiglia mononucleare). L’umanità esplode, e già 8mila anni fa vive in città. In una manciata di secoli, di innovazione culturale in innovazione culturale, l’uomo si trasforma nell’uomo storico. “Ma non è che non subisca trasformazioni genetiche” dice Luca Cavalli Sforza. Cioè? “La pelle bianca. Non penserà mica che gli agricoltori del Medio Oriente 10mila anni fa avessero la pelle bianca?”.
Già, erano neri, come tutti i moderni colonizzatori. Poi è successo qualcosa. Come spiega nel dettaglio Francesco Cavalli Sforza: “Gli agricoltori cominciarono a colonizzare territori, anche verso nord, fino ad arrivare in Europa. Ma nel grano non c’è vitamina D. E chi si nutre prevalentemente di questo cereale, come loro facevano, rischia di sviluppare rachitismo e fragilità ossea. A salvarlo c’è soltanto il sole che trasforma un precursore della D (l’ergosperolo), presente nel grano, nella preziosa vitamina. Quindi, gli uomini che vivono dove sempre splende il sole riescono a sintetizzare vitamina anche se la loro pelle scura scherma i raggi. Ma se si spostano al nord, le cose cambiano”. Gli scienziati hanno seguito le tracce dei geni delle popolazioni europee e hanno visto che coincidono con quelle dell’espansione del frumento. Quindi hanno concluso che gli agricoltori medio-orientali hanno viaggiato con la loro preziosa risorsa economica fino a insediarsi in tutta Europa, fino su al nord. Dove di sole ce n’è poco. Ecco allora, conclude Sforza, “che si è dimostrata davvero utile una mutazione genetica che, inibendo la produzione di melanina, rende la pelle bianca. Gli individui che ne erano portatori sviluppano buone ossa e ne avevano un indubbio vantaggio evolutivo”. Insomma, il caso ha voluto che ci fossero dei bambini con la pelle bianca e che questo si dimostrasse essenziale nel lungo inverno europeo. “La cultura influenza la genetica”, riassume Luca Cavalli Sforza. “I cacciatori raccoglitori che avevano abitato l’Europa fino all’arrivo degli agricoltori si nutrivano di molte cose, e si garantivano in altro modo la vitamina D. Erano scuri di pelle e non avevano problemi. Mangiare frumento ha obbligato la strada dell’evoluzione dell’uomo bianco”.
E’ un messaggio potente, e sempre supportato da robuste prove scientifiche: è nella diversità genetica e culturale la chiave per la sopravvivenza. Più una popolazione è differenziata più probabilità ha di superare gli ostacoli che le condizioni ambientali mettono sul cammino. Più ancora: è dall’accumulo di milioni e milioni di accadimenti spesso casuali che prende forma il mosaico umano, sia nelle sue forme morfologiche che in quelle culturali. Che si evolvono. “Per caso, sa” conclude l’anziano genetista: “Qualcuno ha un’idea. Che piace. Tutti cominciano a fare in quel modo. E in poche generazioni diventa un tratto culturale”. Si pensi all’effetto sul nostro corpo di un’innovazione tutta culturale come il controllo del fuoco: abbiamo perso il pelo, perché per un animale coperto di pelliccia il fuoco è pericolosissimo. Così il caso genera la diversità delle genti. E sarà poi la selezione naturale a far morire le lingue, le espressioni culturali e le usanze che non funzionano. Così come spazza via le specie. E’ accaduto a molti uomini che hanno abitato il pianeta prima di noi. E accadrà anche a noi.
Chissà perché allora siamo convinti di essere creature uniche? Sarà stata la Bibbia a illuderci con quella storia della somiglianza con Dio. Eppure, se c’è andata così bene, è stato proprio perché siamo stati sempre capaci di differenziarci, biologicamente e poi culturalmente. Con buona pace di quelli che vorrebbero chiudere le frontiere e separare i territori. Si perde varietà genetica quando tutti continuano a sposarsi tra gente molto simile, come succede nelle isole molto piccole o in certi villaggi montani sperduti, che infatti sono più a rischio di problemi genetici. Il meticciato invece aumenta la ricchezza dei corredi genetici degli individui. Poi, tra tutte le varianti che si generano, la selezione naturale farà propagare quelle più utili, con una rapidità proporzionale alla loro utilità. “Un esempio: qualche anno fa si è scoperta in Lituania una variante genetica, estesa al 15% della popolazione, che rende immuni all’Aids. Si ritiene che risalga a un’epidemia di peste di quattro secoli fa. Chi ha un gene che lo favorisce lascia più discendenti, e questa superdotazione immunitaria, per essersi estesa al 15% della popolazione in 400 anni, deve avere portato un vantaggio notevolissimo. Aumentando la mescolanza genetica tra i popoli potremo avere più chance di trovare varianti utili come questa. E’ il cosiddetto vigore degli ibridi. Se si incrociano due piante o due animali di razze diverse, di solito si ottengono individui vigorosi. Ora è ormai assodato che le differenze genetiche tra gli uomini di continenti diversi sono così piccole da rendere infondato il concetto di razza”.
Daniela Minerva