Non so niente e credo di sapere tutto. Elogio dell’incompetenza.

Non so niente e credo di sapere tutto

Scienza, medicina, politica. La mancanza di preparazione oggi viene teorizzata. E diventa strumento di facile consenso.

 

Nel settimanale ”L’Espresso” del 4 febbraio 2018, alle pagine 76-82, la giornalista Denise Pardo scrive un articolo sul pericolo degli incompetenti al potere. Avanza una massa di persone persuase di essere più informate degli esperti e più acute dei creduloni. Portabandiera è il presidente degli Usa Donald Trump, che non sa leggere un bilancio e non capisce le leggi, ma di questo ha fatto un vanto. Nell’epoca di Internet non sta nascendo un nuovo illuminismo –come troppo ingenuamente ci si aspettava- ma un conformismo narcisistico e disinformato che pretende di dibattere con chiunque alla pari. Medici, professori, specialisti non sono più figure alle quali affidarsi ma rappresentanti odiosi di un sapere elitario e sostanzialmente inutile. Scrive Augias nella sua rubrica delle lettere: “Tu bocci mio figlio? E io, genitore, ti meno”.

Non ci si pensa: ancora oggi ci sono disposizioni di legge che garantiscono che le campagne elettorali dispongano degli stessi centimetri per le affissioni e degli stessi minuti di trasmissione alla radio e in televisione. Con Internet e le reti social tutti possono dire tutto e ripromettersi che la menzogna venga riprodotta all’infinito, senza conseguenze. Dove sono le garanzie di informazione obiettiva, quindi di dibattito, quindi di elezioni democratiche? Il Medioevo è alle porte: ci stiamo tornando con l’ottusa convinzione che chiunque appartenga a una fantomatica casta trasversale (che unirebbe politici, scienziati, tecnici e giornalisti) complotti per ingannare il “popolo”. Una situazione aberrante. Si avvererà?

                                                        Gennaro  Cucciniello

 

Pensare che un tempo era un insulto feroce, per moltissimi lo è ancora, meno male, “lei è un incompetente, come si permette, la sfido a duello, a karate, a judo, a sumo”. Poi dal fare spallucce all’offesa si è andati un passo avanti ancora o indietro, dipende dai punti di vista, e il giudizio offensivo ora si è tramutato in una qualità. E’ diventato un quoziente che sta cambiando la morfologia culturale della società occidentale, si è trasformato in una parola e una parabola chiave dell’ampio raggio che da Donald Trump arriva a Luigi Di Maio (con le dovute mega-galattiche differenze tra i due) e che contraddistingue la nuova classe politica (ma non solo quella) emergente e soprattutto vincente. Buoni a nulla, diceva Leo Longanesi, ma capaci di tutto.

Nell’Italia del disagio e dell’inquietudine, della disoccupazione giovanile e del precariato a metà del guado tra liberismo e “postofissismo”, il modello dell’incompetente di successo rassicura più delle lotte sindacali. Non c’è da stupirsi se la carenza di preparazione, assurta però a dogma dottrina e teoria politica, cuore del grillismo di ritorno, goda di un plauso sempre maggiore. Che liberazione aver fatto gli asini, i vitelloni, gli sfaccendati, non essere minimamente preparati, professare zero esperienza e competenza senza essere bollati come paria, avendo sconfitto finalmente –di fronte agli intellettuali e agli esperti arroganti (i gufi professori già disprezzati da Matteo Renzi)- il senso d’inferiorità. Ovvero il complesso di non aver conquistato uno straccio di diploma, un brandello di laurea, un master-borsa di studio, marchio di potenziale corruzione. O, anatema degli anatemi, non aver vinto un PhD massimo grado di istruzione universitaria, in genere sventolato nei curricula di clan contaminati dal potere, affiliati a lobby europee fellone, con posto al calduccio in una banca centrale dell’Unione.

Così il dolce far niente è diventato viatico per seggi in Parlamento, e forse in futuro per scranni ancora più alti nonostante briciole di studi e mozziconi d’impiego e dunque è meglio affermarlo nei salotti tv come il più orgoglioso dei manifesti. “In quarant’anni di vita ho lavorato solo sette mesi”, ha fatto la ruota il grillino Alessandro Di Battista ma il “solo” è suonato quasi come un “ben sette mesi”. Non è arrivato al punto di spacciare i cinque anni di legislatura come un duro periodo lavorativo perché spulciando i resoconti del suo impegno parlamentare spesso il lustro appare una vacanza ben remunerata, in giro per l’Italia in scooter o in bici o al centro di comizi esagitati ad arringare folle di qua e di là.

Ma per Dibba grillino ridens sembra che anche il ruolo di onorevole sia stato assai usurante, tanto che –diventato papà- si è preso una pausa per godersi il suo pargoletto (o per osservare che fine farà il rivale candidato premier Di Maio o se prima del tempo la sindaca Raggi libererà il Campidoglio, si chiedono i linguacciuti retroscenisti politici). Lavorare stanca, si sa, soprattutto per chi non ha l’arte, la parte nel senso di partito Dibba ce l’ha.

La neo-scienza sociale dell’incompetenza è studiata con foga nei laboratori più accreditati dell’intellighenzia e dei cervelloni nella consapevolezza culturale che si tratti di uno scontro di sopravvivenza, di un mondo che può saltare per aria o uscirne con un potere molto ridimensionato. Sull’argomento si sommano articoli, titoli, pubblicazioni, simposi, soprattutto nel mondo accademico anglo-sassone dopo la Brexit e l’elezione di Trump, un presidente che non sa leggere un bilancio, non conosce le leggi ma di questo ha fatto un vanto e una bandiera che lo hanno portato dritto dritto alla Casa Bianca e a un anno di distanza non è mai stato messo in castigo da Wall Street e inizia persino a incassare qualche apprezzamento.

Le fabbriche di teste d’uovo, Harvard e Oxford, monitorano il fenomeno e da noi anche l’università Luiss di Roma benemerita dà il suo contributo pubblicando un saggio al centro di un clamore internazionale. Titolo, “La conoscenza e i suoi nemici”, sottotitolo L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia”, è scritto da Tom Nichols, professore di National Security Affairs all’US Naval College di Newport e cattedra alla Harvard Extension School. “Tutti dovrebbero leggere questo libro”, ha consigliato il premier Paolo Gentiloni al Forum Ambrosetti a Cernobbio, consacrando la sua uscita. La tesi è che l’enorme accesso alle porte della conoscenza offerto da Internet non ha creato l’alba di un nuovo illuminismo ma “il sorgere di un’età dell’incompetenza in cui una sorta di egualitarismo narcisistico e disinformato sembra avere la meglio sul tradizionale sapere consolidato”. Nichols ricorda il tweet del fumettista e scrittore Scott Adams durante la campagna elettorale di Trump: “Se per diventare presidente è necessaria l’esperienza, ditemi un tema politico che io non potrei padroneggiare in un’ora sotto la guida di superesperti”, purché beninteso con l’aiuto di Google, Wikipedia e il tam-tam di Facebook e Twitter. Una teoria confortante quanto un tete-à-tete con Kim Jong-un. “La nostra vita culturale e letteraria è piena di funerali prematuri”, scrive nella prefazione il professore di Harvard. “Se le competenze di settore non sono morte, sono però nei guai. Qualcosa è andato terribilmente storto”.

Di sicuro in Italia è andato storto il rapporto pieno di aspettative tra opinione pubblica e approdo dei tecnici, i competenti, al governo. La pietra tombale di quello che all’inizio sembrava un idillio fiducioso (l’esperto aveva qualcosa di divino rispetto ai politici di professione grazie a preparazione, studi, conoscenza delle varie materie) è stata poggiata dal governo di Mario Monti. Nell’immaginario collettivo di buona parte degli italiani il senatore a vita e il suo ministro del Lavoro Elsa Fornero sono tuttora vissuti come vampiri assetati di tasse e di pensioni. In un affettuoso videogioco lui, bloody Mario, veste i panni di Dracula, lei quelli di un pipistrello.

Non che il governo che li ha preceduti, quello di Silvio Berlusconi, non abbia la sua grande parte di responsabilità nella chiamata alle armi degli incompetenti. L’uomo del fare ha spalancato i cancelli dell’Eden politico-mediatico-acrobatico a un allegro bailamme di attrici, veline, letterine, igieniste dentali, soubrette, promotori di pubblicità. Ed è stato il suo alleato Umberto Bossi nel 1994 a ringalluzzire lo steward (d’aereo) Francesco Speroni preferendo lui al ministero delle Riforme al posto del professore-ideologo Gianfranco Miglio. Oggi nella casella dei simil Speroni troneggia Di Maio, trentenne poco yè-yè ma molto preso di sé, una breve esperienza di steward (è il karma allora) allo stadio di Napoli, tribuna autorità però mica in curva, poi altri lavoretti non di concetto, insomma la competenza ideale per il governo di un Paese come il nostro così pacioso con le carte in ordine e le anime in riga.

Naturalmente non tutti hanno fortuna e possibilità di trovare la propria strada con lungimiranza e costanza, ma quel che non torna è la presunzione dell’incompetenza, quel saper tutto di tutto: “persone qualsiasi persuase di essere depositarie di un patrimonio di sapere, di essere più informati degli esperti, dei professori e di essere molto più acuti della massa di creduloni”, descrive Nichols nel libro. Li chiama “spiegatori” entusiasti di illuminare, in conversazioni estenuanti, dalla storia dell’imperialismo ai pericoli connessi ai vaccini. E’ la comunità dei No Tav e dei No Tap, che si battono contro un’opera pubblica, e dei No Vax, avversa all’obbligatorietà dei vaccini, spesso non così erudita nei confronti della crociata da combattere.

A Harvard un chirurgo di Napoli, con 13 anni di studi di medicina in Usa, ha domandato a Di Maio –ospite dell’università americana- come potesse pensare di conciliare le buone idee con la mancanza di strumenti e di governare senza preparazione, aggiungendo di essere stupefatto che Paola Taverna –senatrice grillina- dissertasse di vaccini avendo alle spalle solo l’esperienza da segretaria amministrativa in un laboratorio di analisi. Il caro estinto Robert Heinlein, famoso scrittore di fantascienza, avrebbe confutato il principio, secondo la sua storica frase, “la specializzazione va bene per gli insetti”.

Per tornare ai terreni nostrani la tendenza a straparlare senza cognizione di causa non è ovviamente patrimonio esclusivo del grillismo rampante, ignifugo alle critiche sulla questione. Anche la stagione della rottamazione renziana portava con sé il seme della diffidenza verso una classe dirigente che tra le sue migliori qualità aveva almeno quella di avere esperienza. Quel che ora rende la faccenda più complicata è il fatto che l’incompetenza punti sull’incompetenza degli altri.

Pare sia l’effetto Dunning-Kruger, dal nome dei due psicologi della Cornell University, che hanno studiato quanto sia altamente improbabile che persone disinformate o incompetenti riconoscano la propria o l’altrui ignoranza o incompetenza. Secondo altri analisti questa dinamica spiegherebbe il trionfo di Trump il cui elettorato non era in grado di valutare a fondo le sue sparate.

Come in Gran Bretagna. Quando i Brexiter vittoriosi hanno dovuto ammettere di aver influenzato gli elettori con autentiche baggianate sono stati sommersi da critiche e proteste. Ma nessuno ha fatto ammenda. Anzi, Daniel Hannan, politico e scrittore conservatore, si è persino imbufalito: “Ci sono persone che non si accontentano proprio mai”.

In vista delle elezioni i 5S sembrano tentare una mediazione presentando liste gonfie di candidati con un passato da professionisti e Di Maio, in una sorta di “guarda come gongolo”, ha esultato: “Provate ora a chiamarci incompetenti”. In effetti a esserlo sono rimasti solo i leader. Ma il gongolare del capo non è una gran notizia. Secondo Albert Einstein, assai esperto in affari di relatività, c’è qualcosa di peggio dell’incompetenza. La vera crisi, sosteneva, è la crisi dell’incompetenza e ora forse non ci viene risparmiata nemmeno questa.

 

                                                                  Denise Pardo