Ostuni (Br), 28mila anni fa. Lettera da un bambino mai nato.

Lettera da un bambino mai nato

Nel 1991 a Ostuni, in provincia di Brindisi, fu trovato lo scheletro di una donna incinta di 28mila anni fa. Oggi l’analisi dei dentini del feto: nella preistoria lo sviluppo prenatale era più veloce.

 

Ventottomila anni fa una donna moriva non lontano dall’odierna Ostuni un mese prima di dare alla luce il suo bambino. Per migliaia di anni il corpo della madre e del feto sono rimasti inviolati nella grotta di Santa Maria di Agnano, a una quarantina di chilometri da Brindisi. Poi, nel 1991, il ritrovamento, che rappresenta uno dei due soli casi noti al mondo di fossili paleolitici di una gestante e del suo feto. Ora, una nuova ricerca condotta da Alessia Nava, dottoranda del Dipartimento di Biologia ambientale della Sapienza e del Servizio di bioarcheologia del Museo della Civiltà a Roma, svela sorprendenti novità su questo fossile. Tre dentini del feto sono stati analizzati con un sistema non distruttivo grazie al sincrotrone Elettra, a Trieste.

I risultati dello studio testimoniano lo sviluppo precoce dei piccoli umani nell’era glaciale, ma raccontano anche gli ultimi, sofferti, mesi di vita della donna che i ricercatori hanno chiamato Ostuni 1. Le prime analisi condotte negli anni Novanta sullo scheletro del feto di Ostuni, identificato con la sigla Os 1b, stimavano che al momento della morte della madre fosse di circa 36 settimane. Quelle al sincrotrone parlano invece di appena 31-33 settimane. Le sezioni virtuali dei denti hanno infatti permesso di studiare la deposizione dello smalto durante il suo sviluppo. “Nel corso della vita intrauterina lo smalto forma degli strati sovrapposti che ricordano gli anelli di accrescimento degli alberi e consentono di calcolare l’età del feto in modo preciso e oggettivo”, dice Nava. “La discordanza tra l’apparente età scheletrica e quella dedotta dallo smalto dei denti conferma un dato già noto, ovvero che in passato lo sviluppo osseo dei feti era un po’ più rapido di quello odierno”. E che i bambini nascevano un po’ più maturi e robusti, dal punto di vista osseo, rispetto a oggi.

Simili risultati erano stati ottenuti dallo stesso team analizzando diciotto denti di neonati e di un feto della necropoli di Velia (la greca Elea), a sud di Salerno: lo sviluppo in età romana era più simile a quello paleolitico che a quello moderno. “Questo ci fa ipotizzare che la più recente evoluzione dell’uomo abbia portato a uno sviluppo infantile sempre più ritardato, in particolare negli ultimi secoli. Una conferma viene dal ragazzo del Turkana, un “Homo erectus” vissuto circa 1,5 milioni di anni fa. Secondo recenti studi questo ominide aveva lo sviluppo scheletrico di un adolescente sui 15 anni di età, quello dentario di un ragazzo di 11-12, ma la sua età reale, determinata ancora una volta grazie alla deposizione dello smalto, era di soli otto anni”. Lo sviluppo di Os 1b sarebbe stato probabilmente meno rapido di quello del ragazzo del Turkana, ma più veloce rispetto a quello di un bambino moderno.

Secondo diversi studi pubblicati negli ultimi anni, i motivi evolutivi di questo ritardo possono essere molteplici. Il nostro grande cervello, per esempio, ha bisogno di sempre più tempo per apprendere tutte le informazioni necessarie alla vita adulta. Un’infanzia più lunga sarebbe quindi evolutivamente più utile all’Homo sapiens moderno. Inoltre, la crescita e lo sviluppo di un grande cervello, prima e dopo la nascita, richiederebbero alti costi metabolici, che verrebbero sottratti allo sviluppo scheletrico. Anche la durata della vita naturalmente ha un peso molto elevato: se si vive più a lungo ci si può permettere un periodo di crescita e maturazione più lungo e dimensioni corporee maggiori prima dell’età riproduttiva, il che è vantaggioso, anche se una lunga infanzia aumenta la probabilità di morire prima del primo figlio (un problema in buona parte risolto dalla medicina moderna). Nel Paleolitico essere precoci alla nascita dava probabilmente un piccolo vantaggio evolutivo per arrivare all’età riproduttiva nella giusta forma fisica. Inoltre, un neonato più maturo riduceva i tempi di cure parentali per la madre.

Ma l’esame dello smalto di Os 1b ha permesso di fare anche un’altra scoperta: il feto ha avuto tre momenti di sofferenza acuta negli ultimi due mesi e mezzo, l’ultimo solo ventotto giorni prima, e forse questo è stato la causa della morte della madre, e quindi del piccolo. Non sappiamo e forse non sapremo mai cosa ha ucciuso Ostuni 1, ma secondo il neonatologo francese Pierre-Yves Robillard del Service de Néonatologie, Centre Hospitalier Universitaire Sud Réunion in Francia, le informazioni che abbiamo sono compatibili con l’eclampsia: una sindrome caratterizzata da convulsioni che, in mancanza di trattamento, può condurre alla morte. E’ tipica di donne alla prima gravidanza e comincia a manifestarsi dopo la ventesima settimana (pressione alta, gonfiore di piedi e mani). Secondo Robillard, sulla base dei dati epidemiologici si può affermare che in tutta la storia dell’umanità “tra l’uno e il tre per cento delle gravidanze sia terminato con l’eclampsia, con un tasso di mortalità del venti-trenta per cento, e questa sindrome potrebbe addirittura essere coinvolta nella scomparsa dei Neanderthal”.

La donna di Ostuni, alta 1,71 (un gigante per l’epoca) e sui vent’anni” spiega Donato Coppola, direttore del museo delle Civiltà preclassiche della Murgia meridionale di Ostuni e ricercatore dell’Università degli Studi di Bari, “aveva un’ossatura senza evidenze di denutrizione né segni di ferite e giaceva in eccellente stato di conservazione, coricata sul fianco sinistro con la mano destra poggiata sull’addome, come a proteggere il bambino. Il suo capo era decorato con canini di cervo e 650 conchiglie forate a mano, appartenenti a una specie di ciprea ora localmente estinta, incastonate nell’ocra rossa; anche ai polsi aveva braccialetti di conchiglie. L’acconciatura del capo è molto simile a quella della coeva Venere di Willendorf, una statuina trovata in Austria, con caratteri femminili accentuati, che simboleggia la dea madre”.

La grotta pugliese, secondo il paletnologo, sarebbe stata infatti un luogo sacro dedicato al culto della dea madre e la complessa sepoltura, corredata anche di ossa di uro e di cavallo, avrebbe fatto parte di un cerimoniale per ingraziarsi la divinità. “Tutt’oggi”, aggiunge il ricercatore, “in varie località della zona si regalano cipree a scopo propiziatorio”.

 

                                                        Lisa Signorile

 

Questo articolo è stato pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 20 ottobre 2017, alle pp. 86-89.