Paul Eluard (1895-1952), “Ode a Gala”, 1928
La terra è blu come un’arancia
Mai un errore le parole
non mentono
Non vi danno più da cantare
Tocca ai baci di intendersi
I pazzi e gli amori
Lei la sua bocca di fede
Tutti i segreti tutti i sorrisi
E quali abiti di indulgenza
A crederla tutta nuda.
Le vespe fioriscono verde
L’alba si passa intorno al collo
Un collier di finestre
Ali coprono le foglie
Tu hai tutte le gioie solari
Tutto il sole sulla terra
Sulle strade della tua bellezza.
La terre est bleue comme une orange
Jamais une erreur les mots
ne mentent pas
Ils ne vous donnent plus à chanter
Au tour des baisers de s’entendre
Les fous et les amours
Elle sa bouche d’alliance
Tous les secrets tous les sourires
Et quels vetements d’indulgence
A la croire toute nue.
Les guepes fleurissent vert
L’aube se passé autour du cou
Un collier de fenetres
Des ailes couvrent les feuilles
Tu as toutes les joies solaires
Tout le soleil sur la terre
Sur les chemins de ta beauté.
da “L’amour la poésie”, 1928
Il primo verso è autocontraddittorio, le arance non sono blu; eppure il secondo verso ci assicura che le parole non mentono. Se Eluard avesse scritto “la terra è un’arancia blu” avrebbe fatto una normale metafora ma si sarebbe visto solo il blu, non l’arancione; la normalità è il nemico, l’assurdità è il traguardo. Se le parole sono considerate come regno autonomo e non al servizio del referente, allora con le parole non si possono fare errori; fin che resta nel giro delle parole, il poeta è un re. Il blu è il colore dell’infinito e l’arancia è un frutto solido, denso, buono da mangiare. Il poeta può mangiare i corpi celesti e l’infinito –il poeta è un cantore ma le parole non danno più da cantare nel senso che non bastano (nel momento in cui si svincolano dalla referenza, si trasformano nell’analogo dell’ossessione erotica ma arrivati a quel punto il corpo conta molto più della tradizione poetica). Bisogna passare dalle parole ai fatti, l’infallibilità può estendersi dalla semantica all’esistenza solo se si cede il comando ai baci; tocca ai baci intendersi, e gli interpreti dei baci sono i pazzi e gli innamorati (anzi gli “amori” perché la forza generalizzante di eros è più importante dei singoli individui).
Ma non si capiscono davvero i primi cinque versi se non si sa chi è la “elle” del v. 6. E’ Gala, al secolo Helena Dimitrievna, una ragazza russa che Eluard ha incontrato nel 1912 al sanatorio di Davos, dove entrambi si stavano curando la tubercolosi. La sposa nel 1917 e da quel momento ne è dominato: “i tuoi capelli d’arance nel vuoto del mondo” scrive in una poesia, e in un’altra parla di lei come di “una stella chiamata azzurro / e la cui forma è terrestre”. Eccola, l’immagine contraddittoria eppure concretissima: la terra è blu come un’arancia perché Gala è così, gli occhi blu e i capelli d’arance, e una bocca capace di “attestare l’impossibile”. Dedicandole la raccolta in cui è contenuto il nostro testo le scrive “tutto quello che ho detto era perché tu lo ascoltassi, la mia bocca non ha mai lasciato i tuoi occhi” –“senza di te non ho le mie lenti colorate, le mie lenti di smeraldo e di fuoco”. L’amore lo ha reso insensato al punto che vede tutto con gli occhi di lei.
La “bouche d’alliance” ricorda “l’arche d’alliance”, l’Arca in cui gli Ebrei conservavano le tavole della Legge, pegno del patto tra terra e cielo; ma in francese la “alliance” è anche la fede nuziale –la bocca di Gala è il sigillo mistico delle nozze tra quotidianità e paradiso. Lei è la donna che vale tutte le donne, in cui si inverano e si concentrano le cose splendenti squadernate nel mondo. Tutti i segreti, tutti i sorrisi, tutte le gioie solari; il suo corpo nudo non è tanto un oggetto quanto un percorso (“les chemins de ta beauté”, ultimo verso) che conduce chi l’ama a viaggiare tra le stelle. Per lei le vespe sono come fiori nel verde della freschezza e l’alba fa brillare le finestre come una collana di diamanti; delle ali coprono le foglie confondendosi con esse in unanimità di voli. Strana energia di questa donna dal volto smunto e nasuto, audace inventrice di giochi amorosi per uomini dalla sessualità incerta; amata da Eluard e Max Ernst, odiata da Breton, divenne ufficialmente la “musa del surrealismo” quando sedusse l’ancor vergine Salvador Dalì e ne divenne l’idolo, la madre, la custode inflessibile. Strano destino il suo, d’esser riuscita a far sragionare d’amore artisti che volevano sragionare per programma.
Poeta con un dono naturale di immediatezza e di grazia, Eluard trovò nel surrealismo soprattutto un veicolo di libertà: libertà dalla sintassi, dalla pesantezza dei nessi logici, dal rigore della metrica. Ogni verso è come il versetto d’una litania, che irraggia innocenza e sogna d’essere il primo mai scritto, o una goccia che cade sul foglio bianco per comporre un disegno di luce. Il suo temperamento però non era gioioso (“la felicità rimane un postulato ma il pessimismo un vizio”); la sua frenesia di positività era piuttosto eccitazione febbrile e lo sapeva: “tutto quello che io giro al bene viene dal male e dalla sofferenza”. Nel nostro testo, così impregnato di speranza cosmica, c’è una spia d’ombra in quella “indulgence” del v. 8; i “vestiti d’indulgenza” che aiutano a immaginarla nuda sono i costosi e bizzarri tessuti che lui regalava a Gala –e gioielli, e cose d’arte, dopo che un’eredità l’aveva reso ricco. Indulgenza che diventa masochismo quando favorisce le “partite a tre” che Gala impone, per esempio con Max Ernst –e continua a mantenerla quando lei sta già con Dalì, e si lamenta di non poter “assistere” e si abbandona a orge immaginarie in cui la libertà è ridotta a libertinismo.
Libertà è il titolo della sua più nota poesia impegnata, di quando diventerà il poeta-vate della Resistenza: ma lui stesso confesserà che fino all’ultimo quella poesia l’aveva pensata per una donna. L’amore per Eluard è un anticipo della rivoluzione, e chiama la rivoluzione coi nomi del proprio amore. Lentamente e tristemente, nel corso degli anni ’40, il ritmo mistico-erotico diventerà esortativo e il sogno rivoluzionario di “cambiare la vita” si spegnerà come si erano spente le illusioni di un erotismo astorico e onnipotente.
Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 9 novembre 2014, p. 52