Per un istante o per sempre il doppio gioco della felicità
Da Ovidio a Stendhal e fino ai nostri giorni, riflessioni sull’emozione più misteriosa che ci sia. Tra letteratura e teorie del comportamento.
Nel quotidiano “La Repubblica” di venerdì 10 novembre 2017, in “Cultura R2” a p. 43, è stato pubblicato questo testo, estratto da un capitolo del saggio “Momenti di felicità” di Marc Augé, Cortina editore.
Don Giovanni è l’eroe dell’incontro e dell’istante. Sotto questo aspetto, egli è il personaggio chiave di un racconto d’avventura nel quale le peripezie più rocambolesche e le più stupefacenti coincidenze si susseguono incrociandosi a ritmo serrato fino all’epilogo, che è in parte racconto del terrore e in parte fantascienza. Il “Dom Juan” di Molière potrebbe essere l’eroe di una storia a fumetti. Riesce a catturare il lettore e lo spettatore anche per l’illimitata capacità di incontri sempre nuovi, dalle ragazze che seduce al fantasma cui lancia la sfida –senza trascurare la scena del mendicante, in cui, quasi fosse stanco, lui per primo, di mettere alla prova l’ottusa fiducia dell’interlocutore, gli getta il luigi d’oro che gli aveva fatto balenare in forma di tentazione, senza più nulla esigere in contropartita, “per amore dell’umanità”. Momento mirabile, che la dice lunga sul coraggio, o l’incoscienza, di Molière…
All’opposto di Don Giovanni, seduttore infaticabile e impenitente, incontriamo in Ovidio la coppia che rappresenta al tempo stesso fedeltà e felicità, Filemone e Bauci, a incarnare la serenità che soltanto il timore della separazione potrebbe turbare: non tanto la paura della morte, bensì il terrore di dover sopravvivere all’essere amato. Così Zeus ricompensò la coppia frigia, che aveva onorato le leggi dell’ospitalità, riunendo i due –al momento della morte- a formare il tronco di un albero doppio, quercia e tiglio insieme. Va detta che Zeus, durante l’impresa compiuta sotto sembianze umane, era accompagnato da Hermes, dio degli incroci, degli scambi, dei commerci e… dei ladri. Viaggiando insieme, sotto le apparenze di due vagabondi straccioni, mettevano alla prova le qualità umane di coloro che incontravano e rifiutavano di accoglierli. Lezione da imparare, che ricorre peraltro in molti racconti d’origine folklorica: fate attenzione a chi si presenta sotto la copertura della mendicità! Potrebbe essere un dio! Ma una seconda lezione, molto sottile, si può trarre dal poema di Ovidio: solamente coloro che si amano l’un l’altro sanno aprirsi agli altri.
Per quanto tempo? Una frazione di secondo o un’eternità? Don Giovanni o Filemone? Ogni momento di felicità legato a un incontro inizia con l’esplosione di sensazioni, con il risveglio dei sensi, che possono peraltro essere oggetto di una metodica preparazione. Stendhal dipinge l’incomparabile felicità del suo eroe, Lucien Leuwen, nel momento in cui si percepisce “un’inclinazione nascente” nei confronti di Madame de Chasteller: per due volte i due protagonisti passeggeranno nei giardini del Chasseur Vert, locanda nei pressi di Nancy, dove li raggiunge l’eco dei corni che suonano alcuni valzer di Mozart mentre i raggi del sole al tramonto penetrano nel sottobosco illuminandolo. Lucien avverte che il braccio di Madame de Chasteller si appoggia al suo. Al termine della seconda passeggiata, convincerà il loro piccolo gruppo a farsi servire un punch. In quel momento eccezionale, tutti i sensi sono esaltati. Leuwen si unisce alla converszione degli amici, ma con Madame de Chasteller, che lo ha nuovamente pregato di porgerle il braccio, non scambiano una sola parola, appagati nel silenzio che li unisce.
Su un diverso registro, Rousseau redige il minuzioso computo degli elementi naturali che contribuiscono alla sua estasi sull’isola che lo ospita, presso la riva del lago di Bienne. Vero è che Rousseau ricorda e, di lì a qualche anno, cerca di analizzare la sensazione di felicità da lui provata sull’isola di Saint-Pierre. Dapprima evoca la bellezza del luogo in generale, il panorama di cui aveva ammirato la magnificenza da un’altura, prima di scendere al lago. Abbandonandosi al ritmo regolare dei flutti, egli si libera poco per volta di tutte le riflessioni che quella condizione gli ispira, fino a percepire esclusivamente la pura sensazione di esistere: “Seguendo il flusso e riflusso dell’acqua, il rumore continuo ma a tratti più forte dell’onda che s’infrangeva, i miei occhi e le mie orecchie supplivano ai moti interni che la fantasticheria spegneva e bastavano a farmi sentire con piacere di esistere, senza preoccuparmi di doverlo pensare”. Tuttavia, la fuga dalla vita sociale, fino ad avvertire la mera sensazione fisica dell’esistere, è relativa ed è legata anch’essa alla felicità dell’incontro: dal 1765 Rousseau vive sull’isola di Saint-Pierre in un ambiente amicale, nell’unico edificio che vi sorge, proprietà dell’ospedale di Berna, in cui risiede il fattore Engel, al quale egli si accompagna per essere iniziato alla botanica dell’isola. Per essere felice, Rousseau sente il bisogno di momenti di semplice, franca, amicizia. Per gli eroi di Stendhal è invece la felicità amorosa, quando c’è, a far sì che lo sguardo si posi su quanti li circondano: acquietato, benevolo e, se è il caso, indulgente. Sempre, la sensazione di felicità si traduce comunque in sensazione fisica: il benessere percepito da Jean-Jacques o dagli eroi di Stendhal è legato all’armonia, che essi avvertono in quell’istante, tra la pace interiore e ciò da cui sono circondati –armonia fragile per definizione, effimera, eppure già consegnata al ricordo.
Sappiamo che Stendhal, nonostante le critiche che muove a Rousseau, nutriva per lui una così grande ammirazione da indurlo talvolta a confondere le due identità. Poco importa: molte differenze esistono tra Rousseau –più vicino alla saggezza stoica e che, pur condannato ad una vita instabile ed errabonda, non smette mai di agognare la quiete dello spirito in un gradevole rifugio- e gli eroi di Stendhal, sempre pronti a partire, attratti dall’avventura che li porterà verso gli altri, verso l’amore o la morte. Vero è che gli eroi di Stendhal trovano i momenti di felicità amorosa soltanto quando il tempo si ferma, eppure sono sempre in movimento. Nulla a che vedere, peraltro, con la rincorsa all’emozione effimera di Don Giovanni, che colleziona le donne come, altri, farfalle e per il quale le seduzioni della conquista cancellano quasi istantaneamente l’emozione dell’incontro.
La storia della letteratura offre, così, una riserva illimitata di atteggiamenti possibili nei confronti del tempo e della felicità. La scrittura crea distanza rispetto all’emozione grezza e al tempo stesso si sforza di renderla intelligibile agli altri, divenendo oggetto di ricerca e insieme strumento d’indagine. E talvolta compie il miracolo: induce l’anonimo lettore a percepire ciò che essa si è ingegnata ad analizzare e che riesce improvvisamente a rappresentare, suscitando in lui un moto di allegria e di riconoscenza –nella duplice accezione del termine- non appena costui scopre e, letteralmente, si ritrova nell’incontro con una “felicità di scrittura” cui fa immediatamente eco la sua felicità di lettore.
Marc Augé