Perché i rifiuti a Napoli non sono un’emergenza ma un sistema.
Questo è un articolo che un valoroso e coraggioso giornalista, Giuseppe D’Avanzo, morto alcuni mesi fa, aveva scritto nell’estate del 2007 per commentare l’ennesima crisi dei rifiuti nella città partenopea e nella sua provincia. L’articolo uscì sulla prima pagina del quotidiano “la Repubblica”. Sono passati quasi cinque anni, la situazione si è evoluta con passaggi ancora più drammatici e sensazionali e non sembra ancora aver trovato una soluzione seria e definitiva. C’è da riflettere sugli insegnamenti che si possono trarre da questa negativissima esperienza. Tra gli altri vorrei sottolinearne uno. Antonio Bassolino è stato, dal 1993, per due mandati sindaco di Napoli e poi, per altri dieci anni, governatore della regione Campania. Si è trovato così nell’occhio del ciclone, per di più anche con la responsabilità di Commissario straordinario ai rifiuti. Cosa ci si sarebbe dovuto aspettare, in questa situazione, da un politico della Sinistra, militante e funzionario del PCI in anni lontani, vicino allora addirittura al gruppo de “Il Manifesto”? Egli avrebbe dovuto fare un discorso chiaro e preciso ai cittadini campani, spiegare loro la portata del problema, delineare contenuti –modi e tempi della sua possibile soluzione, invitarli al senso di responsabilità, adottare i metodi delle regioni italiane più virtuose, insistere con ripetuti e pubblici ammonimenti, insomma fare un’opera di pedagogia politica democratica Dopo alcuni anni, verificati i fallimenti evidenti della gestione, avrebbe dovuto puntualizzare le ragioni di un tale esito disastroso (anche alla luce di comportamenti più efficaci verificatisi in altre province campane), indicare i responsabili e doverosamente dimettersi. Così si sarebbero salvaguardate la serietà delle istituzioni, l’onestà intellettuale degli amministratori corretti, la moralità del buon governo, la fiducia dei cittadini nel potere pubblico. Ma così non è stato.
Gennaro Cucciniello
30 dicembre 2011
“L’ennesimo ultimatum dell’Unione Europea (o risolvere una volta per tutte a Napoli il problema dei rifiuti o sarete giudicati e sanzionati) ci costringerà a liquidare una finzione durata troppo a lungo. E anche le parole usate per indicare la catastrofe ambientale, sanitaria, sociale che va, oggi, sotto la formula truffaldina di “emergenza rifiuti in Campania”. Non si può definire emergenza un ordigno politico e istituzionale che ha ingoiato negli ultimi dieci anni, dal 1997 al 2007, 780 milioni di euro all’anno, quindi 15mila miliardi di vecchie lire in dieci anni, senza avvicinarsi di un millimetro alla soluzione del problema, anzi allontanandosene. E che, per di più, compromette in modo irreversibile il territorio. Minaccia la salute dei cittadini (aumentano i tassi di mortalità e malformazioni nei feti e dei neonati). Alimenta un meccanismo distorto che paralizza e corrompe uomini e istituzioni. “Emergenza rifiuti è soltanto un ossimoro” va dicendo il presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti, il senatore Roberto Barbieri. Ha ragione. Quella formula è ormai soltanto una figura retorica che accosta parole di significato opposto. Il fallimento del ciclo dei rifiuti a Napoli non è una disgrazia imprevista né imprevedibile. E’ un sistema, un metodo ormai collaudato.
Lasciate agli addetti e ai tecnicismi, le ragioni della catastrofe possono diventare inafferrabili. Ci si può smarrire tra “combustibile derivato dai rifiuti”, “potere calorifico inferiore”, “umidità massima”, “percolato”, “frazioni secche e frazioni umide”. E tuttavia, anche a costo di un eccesso di semplificazione, la catastrofe la si può raccontare a partire da qualche paradosso e con l’aiuto della più recente relazione della commissione parlamentare d’inchiesta, approvata il 13 giugno.
Il primo paradosso è: non esiste alcun ciclo dei rifiuti in Campania. Un ciclo industriale integrato dei rifiuti prevede, anzi per la legislazione comunitaria obbliga ad azioni di prevenzione nella produzione (riduzione del volume dei rifiuti e raccolta differenziata), al riutilizzo e al riciclaggio del materiale, al recupero tecnologico di energia e allo smaltimento privo di effetti negativi per la salute dei cittadini e dell’ambiente. Ci sono comuni in Italia, come Brescia, che da questo metodo ricavano energia elettrica per la città e denaro per le casse comunali. Bene, in Campania non c’è alcuna traccia di tutto questo, se non un termovalorizzatore ancora in costruzione come una cattedrale nel deserto. La commissione d’inchiesta parla così di “non-ciclo”. In sostanza, l’unico modo per smaltire i rifiuti è la discarica. Si raccolgono i rifiuti, si fa un buco da qualche parte, si getta dentro tutto. Quando la discarica è colma, la si richiude e si fa un buco da qualche altra parte. Il “non-ciclo” ha bisogno costantemente di discariche e in breve lasso di tempo. Se il tempo non è sufficiente, la monnezza si spedisce all’estero in attesa di trovare la soluzione, il buco in casa. Il “non-ciclo” si alimenta così con siti provvisori e abusivi e con la disponibilità di un sistema di trasporto informale. E’ la porta che viene lasciata aperta alla criminalità organizzata che “in taluni casi e senza connotazioni di sistematicità”, come forse troppo prudentemente scrive la commissione d’inchiesta, “si è presentata come uno dei soggetti in grado di offrire risposte immediate”. Una sorta di mediatore sociale non istituzionale che può mettere a disposizione terreni, trasporto e, quel che più conta in questi casi, il controllo e il consenso delle comunità che ospitano il nuovo buco. Il “non-ciclo” è una corsa verso il nulla. Non risolve nessun problema per il futuro, nutre e amplifica l’emergenza in un circolo perverso e senza speranza. Per spezzarlo è stato creato dal 1996 (scadrà il 31 dicembre 2007) un commissario straordinario.
Il secondo paradosso è: il commissario straordinario non conta nulla. In teoria, il commissario (oggi è Guido Bertolaso, il capo della protezione civile) avrebbe dovuto raccogliere i poteri di decisione e di gestione utili a creare e a governare con mano ferma tutte le fasi del ciclo dei rifiuti. Nella realtà, è prigioniero di un ingorgo istituzionale che lo paralizza. Alle sue competenze si sovrappongono quelle del ministero dell’Ambiente (Pecoraro Scanio) e del presidente della Regione Campania (Bassolino). A livello esecutivo-gestionale, i consorzi tra comuni, i poteri di regione, province e comuni. Peggiorano il groviglio le norme nazionali e regionali che correggono funzioni e compiti. Così oggi nessuno è in grado di dire “chi fa o deve fare che cosa” per uscire dall’emergenza. E’ un’opacità di competenze e poteri –avverte la commissione d’inchiesta- che determina un vuoto decisionale sul come, sul chi e perché deve avviare quel benedetto “ciclo integrato”. E’ un ingorgo che crea le condizioni per l’uso clientelare delle funzioni pubbliche. E che può gettare al vento le risorse cospicue disponibili.
E’ il terzo paradosso: ci sono circa dodici miliardi di euro a disposizione per venir fuori dalla crisi. In particolare, 3,4 miliardi di euro destinati alla Campania dal bilancio europeo, a cui si aggiungono le risorse nazionali e quelle del FAS, “il Fondo aree sottoutilizzate”. Una bella sommetta che può giovarsi fin da ora di un piano normativo, di procedure e strumenti, di un programma di interventi concreti già individuati dalla “commissione Barbieri” che elimina commissario, enti intermedi e l’emergenza. Nonostante l’opportunità di un futuro a portata di mano, la Campania preferisce restare assediata da un presente di miasmi, pericoloso per la salute, nefasto per l’ambiente.
E’ il quarto paradosso: l’emergenza conviene. Il prossimo 9 luglio chiuderà il “buco” ora aperto ad Ariano Irpino (Difesa Grande). Dal giorno dopo dovrebbe aprirne un altro a Terzigno, ma è stato deciso che ospiterà soltanto un tipo di rifiuto, la “frazione organica stabilizzata (Fos)”, che è inutile spiegare che cos’è perché in Campania non si seleziona e prepara così il rifiuto durante la raccolta (salvo alcuni mirabili esempi nel Salernitano). Come dire che a Terzigno non arriverà neppure un chilo delle ottomila tonnellate di rifiuti quotidiani che o emigreranno all’estero (Albania?) o resteranno in strada in attesa di un altro buco. L’imbarazzante verità è che, in 14 anni, è nata un’industria dell’emergenza rifiuti che, come sta dimostrando la magistratura con molte troppe timidezze, distribuisce parcelle, contratti, licenze, reddito, profitti abusivi, finanziamenti nascosti. Crea un magma sociale (dal grande professionista al lavoratore socialmente utile all’ex detenuto) vittima e carnefice del meccanismo che sostiene. Dispensa consenso e utili politici secondo un metodo di governo distruttivo e irresponsabile non inedito, addirittura storico per la Campania.
Sembra di rivedere in azione quel “partito unico della spesa pubblica” che, venticinque anni fa, costruì le sue fortune politiche ed economiche con l’invenzione di emergenze e occasioni, sollecitando una gestione incontrollata delle risorse pubbliche, allargando un blocco di potere verticale e socialmente differenziato che ospitò, ieri come oggi, la mediazione sociale della camorra. Il terremoto e la ricostruzione, ieri; l’emergenza dei rifiuti, oggi. Ai livelli infimi, il tempo non passa”.
Giuseppe D’Avanzo
Il 2 dicembre 2011 il giornale “La Repubblica” ha ospitato un’inchiesta di Ettore Livini e Conchita Sannino, pp. 36-7, che ritorna su questo tema. Il titolo è “Sprechi, ritardi e malaffare. Ecco perché a Napoli è tornato l’incubo rifiuti”.
“Cosa c’è dietro questa eterna emergenza? Eccola, l’unica industria pubblica del Sud, un’attività fiorente che da diciotto anni non chiude nemmeno di notte. Che, anzi, proprio al calare del buio riprende i suoi viaggi, fagocita chilometri e mari, in cerca di nuove discariche e buchi fuori regione. E’ la fabbrica efficientissima ed opaca dei rifiuti campani, unica area in Europa dove si spendono, anche oggi, dai 170 ai 190 € a tonnellata per spedire la roba fuori regione. Dove smaltire i cassonetti bruciati costa mille euro a tonnellata, 8 volte il prezzo normale. E dove le passate crisi e le storiche clientele hanno gonfiato gli organici delle società pubbliche, che si ritrovano oggi con un lavoratore su tre in esubero. Una Caporetto occupazionale e finanziaria non meno grave delle ricorrenti ondate di sacchetti. A cinque anni e mezzo dal j’accuse del presidente Giorgio Napolitano, la crisi è sempre dietro l’angolo. Era il giugno 2006 quando il capo dello Stato, alla prima uscita pubblica a Napoli, affrontò “l’annosa questione dei rifiuti ancora penosamente irrisolta”. Usò parole dure, molto attuali: “Occorre un’azione risoluta, contro cieche resistenze e contro palesi illegalismi”. A che cosa si riferiva il presidente? Con quali sistemi, vantaggi personali e criminali, è stato tirato su il carrozzone che ora rischia di implodere?
I conti di Rifiutopoli. Due miliardi di euro bruciati e altri due di debiti lasciati in eredità. Gli addetti del settore, tra diretti e indiretti, sono circa 30mila. Una bomba sociale che rischia di esplodere visto che gli esuberi potenziali –tutti dipendenti a carico dei conti pubblici con ridottissime capacità lavorative- sono stimati in 10mila unità. Come si sono gonfiati a dismisura gli organici delle aziende municipalizzate? E’ utile ricordare la testimonianza in Procura di Salvatore Fiorito, ex presidente della coop Davideco legata da una catena di subappalti all’Asìa, l’azienda comunale di Napoli per la raccolta. E’ il 27 aprile scorso. “C’era un giro di denaro in termini di assunzioni fantasma. Versavo 24mila euro al mese a un avvocato e 6mila a Corrado Cigliano (capocantiere di quell’Enerambiente che gli aveva girato l’appalto e fratello dell’ex consigliere comunale PDL Dario). Ricevevo di volta in volta , ad ogni convenzione della cooperativa, le liste di persone. Anche per assunzioni fittizie, sì, gente che non lavorava”.Non è un caso isolato. Sull’emergenza è fiorito nel corso degli anni un welfare degenerato. In Campania ci sono 3 lavoratori nel ciclo dei rifiuti ogni mille abitanti, contro l’1,7 d. media nazionale. Quanto costa questa anomalia? I calcoli li ha fatti la Corte dei Conti: se la regione lavorasse nel campo con la stessa eccellenza di Salerno (che viaggia al 70% di raccolta differenziata, contro il quasi 20 di Napoli) si risparmierebbero 200 milioni l’anno.
Ma chi gestisce davvero il servizio di nettezza urbana in Campania? A mandare avanti l’intero ciclo della monnezza è da sempre –commissari o no- un arcipelago di sigle e società tutte in perdita, fatto di ex consorzi e di megastrutture fantasma, appalti e subappalti. Molte di queste realtà sono figlie delle ingerenze dei clan e del patto tra politica e camorra. Basti su tutto la vicenda di Nicola Cosentino, ex sottosegretario e attuale coordinatore campano del Pdl: oggi imputato per concorso in associazione mafiosa con i camorristi casalesi, specie nel settore del sistema rifiuti. Si parte da Asìa, azienda municipale per i rifiuti di Napoli guidata dal neopresidente Raphael Rossi, affiancato come Ad dal presidente di Federambiente Daniele Fortini. I due hanno davanti scelte non facili e un organico ipertrofico: l’azienda ha assorbito nel 2009 i 279 dipendenti dell’ex bacino Napoli 5. Un carrozzone nato per raccogliere il cartone a Napoli e che per anni ha pagato i suoi impiegati senza che nessuno di loro lavorasse davvero. Con il risultato scontato di registrare 65 milioni l’anno di costi a fronte a 3 di entrate. Quest’anno per eliminare i subappalti Asìa ha assorbito anche i 500 dipendenti di Docks e Lavajet. Quanto pesa questa situazione sui conti della società? Molto. Nel 2003 Asìa raccoglieva 549mila tonnellate di rifiuti pagando, in tutto, 58 milioni di stipendi. Nel 2010 ne ha trattati 120 tonnellate in meno ma garantendo buste paga per 94 milioni, quasi il doppio. Raccogliere un chilo di rifiuti a Napoli costava otto anni fa 25 centesimi. Oggi il prezzo è salito a 35 centesimi. La media nazionale è stata nel 2010 attorno ai 27 centesimi. Risultato: il Comune ha dovuto versare lo scorso anno 170 milioni nelle casse dell’Asìa, 45 in più di quelli che pagava nel 2004 e Napoli ha la Tarsu più alta d’Italia: 453 € l’anno per famiglia media, il doppio del resto d’Italia.
La Astir è la macchina dei rifiuti gestita dalla Regione Campania: su di essa la Procura di Napoli ha appena aperto un’inchiesta su 38 assunzioni politiche ad personam disposte dalla precedente gestione bassoliniana con l’assenso della Destra. La Astir conta 700 dipendenti e versa in una situazione drammatica: ci si appresta alla cassa integrazione per 300 di loro che al momento non lavorano ma vengono pagati. L’assurdo è che la regione ha affidato lavori milionari nel settore delle bonifiche ambientali ad aziende esterne (tipo Jacorossi e Idrojet) senza utilizzare Astir. La Sapna, società della Provincia di Napoli, è al centro di molti interrogativi per i trasferimenti fuori regione. Ovvero: 100mila tonnellate di rifiuti a un prezzo medio di 171 € alla tonnellata, mentre la media in Italia è intorno agli 80; a Treviso se ne spendono 89 per mandarli all’estero. Solo negli ultimi mesi sono stati spesi 20 milioni per i trasporti verso discariche private. Nel 2010, quando Sapna era ancora una scatola vuota, la società è riuscita a pagare 2,4 milioni di stipendi e 222mila € di consulenze”.
Da altre fonti (l’Ires campano) si apprende: “Da fine anni Novanta a oggi i clan della camorra hanno sversato nei 30 km del litorale domizio 341mila tonnellate di rifiuti speciali pericolosi, 160mila di rifiuti speciali non pericolosi e altre 305mila di immondizia solida urbana. Una lordura che ha finora generato oltre cinquemila discariche illegali, senza considerare quelle rimaste occulte. In questo inferno il lusso non è vivere ma sopravvivere. Chi vive accanto a una discarica abusiva tra Caserta e Napoli è esposto a un rischio di eccessi di mortalità per tumori al polmone, fegato e stomaco, ma anche al pericolo per alcune malformazioni alla nascita superiore dell’80% rispetto alla media regionale”.