Piazzale Loreto, agosto 1944: le bombe dei Gap
Nuova luce sull’attentato che provocò la rappresaglia con la fucilazione di 15 antifascisti. Furono i partigiani comunisti a compiere l’azione in cui rimasero uccisi 10 civili.
Ora ne sappiamo di più su piazzale Loreto. Non tanto sull’esposizione dei cadaveri di Mussolini, della sua amante Clara Petacci e di altre figure di gerarchi fascisti il 29 aprile 1945, ma soprattutto sul precedente che motivò la scelta del luogo, cioè la fucilazione per rappresaglia nello stesso piazzale di 15 antifascisti il 10 agosto 1944. Entrambe le vicende sono state trattate lo scorso anno da Massimo Castoldi in un saggio approfondito e appassionato edito da Donzelli. Un ulteriore passo avanti viene da un libro, “Il nostro silenzio avrà una voce” (il Mulino), contenente saggi di Elisabetta Colombo, Anna Modena e Giovanni Scirocco, con una prefazione di Paolo Pezzino.
Si diceva della strage compiuta nel piazzale di Milano dai fascisti della Repubblica Sociale Italiana. A provocarla furono due episodi: un attentato dinamitardo con diverse vittime civili in viale Abruzzi l’8 agosto e l’uccisione di un capitano della milizia ferroviaria il giorno 9. Questa seconda azione venne identificata senza dubbio come opera dei Gap (Gruppi di azione patriottica), i nuclei armati comunisti che agivano nelle città, guidati in quel periodo a Milano dal leggendario comandante Giovanni Pesce, poi insignito della medaglia d’oro al valor militare. Il precedente eccidio invece è rimasto finora avvolto nel mistero. Alcuni lo attribuivano agli stessi Gap, ma Pesce aveva sempre negato una responsabilità dei suoi uomini. Si era anche avanzata l’ipotesi di una provocazione nazifascista.
Ora Elisabetta Colombo ha trovato la cosiddetta pistola fumante nelle carte della Fondazione Istituto Gramsci: un inedito bollettino partigiano che contiene un resoconto dell’azione compiuta in viale Abruzzi e la attribuisce al distaccamento dei Gap milanesi intitolato a Walter Perotti, un resistente delle Brigate Garibaldi (comuniste) caduto nella lotta. Che cosa avvenne esattamente non è del tutto chiaro, ma a questo punto sappiamo chi mise la bomba. Anzi le bombe, perché furono due.
Veniamo ai fatti: la mattina dell’8 agosto un ordigno esplose su un camion tedesco parcheggiato in viale Abruzzi. Parecchia gente si avvicinò al veicolo per osservare l’accaduto e soccorrere i feriti. E a quel punto ci fu una seconda deflagrazione, che seminò la morte tutt’attorno. Morirono, sul colpo o successivamente, dieci persone dai 12 ai 59 anni, due donne e otto uomini, tutti civili tranne un aderente alla Rsi, Enrico Masnata. Nessun tedesco tra le vittime: l’autista del camion, Heinz Kuhn, riportò solo un graffio alla guancia. Il bollettino del Gap parla di due militari della Wehrmacht uccisi, ma nella restante documentazione, vagliata da Elisabetta Colombo, non ve n’è traccia. Difficile poi giudicare l’attendibilità della versione, contenuta nel bollettino stesso, secondo cui sarebbe stato l’autista a gettare il secondo ordigno in mezzo alla folla.
Comunque sia andata, l’autrice nota che gli eventi “intaccano la narrazione dell’eroismo senza macchia dei Gap, mostrando un’azione in cui gravissime leggerezze portano a conseguenze tragiche”. E si può capire il tentativo compiuto dai vertici dell’organizzazione comunista di negare la responsabilità dei propri combattenti per un attentato così sanguinoso, costato la vita a persone innocenti. D’altronde spesso i membri dei Gap erano giovani inesperti e reclutati sul campo, portati ad agire in maniera avventata.
Va aggiunto che la ricerca di Elisabetta Colombo riguarda anche il lato opposto della barricata. Investiga cioè sulla catena di comando tedesca per comprendere a chi debba essere attribuita la responsabilità della rappresaglia. Non si tratta di un’indagine agevole, per la reticenza o l’inattendibilità dei testimoni e il sovrapporsi di competenze tra le SS e l’esercito regolare.
Emerge comunque che ad autorizzare la strage fu con ogni probabilità il generale delle SS Wilhelm von Tensfeld, responsabile dell’attività anti-partigiana per l’Italia nord-occidentale, mentre la pianificazione dell’eccidio di piazzale Loreto, affidato dai tedeschi ai fascisti repubblichini, venne gestita dal comandante militare della piazza di Milano, tenente colonnello Hans Klaus von Goldbeck, e dal capitano delle SS Theodor Saevecke, capo della Gestapo nella metropoli lombarda: un personaggio, quest’ultimo, destinato nel dopoguerra ad essere reclutato dai servizi segreti americani e a fare una carriera brillante nei ranghi della polizia della Germania occidentale. E’ peraltro possibile che, per il rilievo della rappresaglia milanese, una ulteriore autorizzazione sia giunta da un livello superiore, cioè dal capo delle SS in Italia Karl Wolff.
Gli altri due saggi del libro riguardano invece la memoria legata a piazzale Loreto. Anna Modena si occupa di come è stata ricordata la rappresaglia del 1944, particolarmente efferata per la scelta di lasciare i cadaveri per lunghe ore esposti e insanguinati sotto il sole di agosto.
I quindici martiri, come vennero chiamati gli antifascisti trucidati, ebbero l’omaggio artistico del pittore Aligi Sassu e quello letterario del poeta Alfonso Gatto: proprio da un verso di Gatto è tratto il titolo del libro. Importante anche il contributo alla memoria di padre David Maria Turoldo, di Emilio Tadini, del futuro premio Nobel Salvatore Quasimodo, che dedicò una poesia civile ai caduti di piazzale Loreto citando uno per uno i loro cognomi. Particolarmente suggestivo il richiamo poetico in dialetto milanese di Franco Loi, che ragazzo di 14 anni aveva assistito allo strazio dei cadaveri esposti, uno dei quali apparteneva a Libero Temolo, padre del suo caro amico Sergio.
Per finire Giovanni Scirocco analizza la forte impronta lasciata nell’immaginario collettivo dal macabro spettacolo di Mussolini e dei suoi seguaci appesi a testa in giù. Il secondo episodio ha finito inevitabilmente per soppiantare il primo per il suo fortissimo significato simbolico, rimasto vivo sia tra i neofascisti, pei quali piazzale Loreto è un luogo del trauma da riscattare, sia tra gli antifascisti, divisi tra coloro che, come Ferruccio Parri, hanno teso a prendere le distanze da quella macelleria messicana e chi invece continua a rivendicarla come un momento di liberazione e di giustizia, per quanto sommaria.
Insomma, gli eventi evocati da piazzale Loreto, che pure oggi non ne reca quasi segno alcuno, sono sovraccarichi di emotività, perché hanno rappresentato visivamente, come scrive Scirocco, una drammatica cesura nella storia del nostro Paese. Ma se le memorie opposte non possono conciliarsi, la storiografia può impegnarsi a chiarire l’andamento dei fatti in tutti i loro risvolti. Non è affatto poco, è un compito essenziale.
Antonio Carioti
L’articolo è stato pubblicato ne “La Lettura”, supplemento culturale del “Corriere della Sera” del 14 novembre 2021, alle pp. 30-31.