“Pinocchio”, un capolavoro allegoria di noi italiani.
L’autore Carlo Lorenzini, alias Collodi, era un tipo concreto come l’ambiente da cui proveniva. Ma il suo libro può essere letto come un raffinato racconto su un Paese-Italia mai adulto.
Nel “Venerdì di Repubblica” del 22 novembre 2019, alle pp. 26-27, è pubblicato un articolo dello scrittore e insegnante Eraldo Affinati sul “Pinocchio” di Carlo Collodi. Un libro che, è stato scritto da Asor Rosa, ci offrirebbe di scorcio un’immagine della realtà nazionale italiana molto complessa e profonda: “il suo burattino-popolo-Italia, che matura attraverso il dolore e la sventura, pur senza mai rinunciare a contemplare nostalgicamente quella fase di passaggio tra ingenuità e coscienza, che nessun individuo e nessun popolo vorrebbero mai varcare, anche se lo debbono”. Collodi toglie alla vicenda raccontata un’immediata connotazione realistica e documentaria e recupera così tutta la carica inventiva connessa al tema antichissimo del passaggio dallo stato ingenuo dell’infanzia alla relativa maturità dell’adolescenza. “Il burattino, in questo modo, con la sua legnosità semiumana, esprime perfettamente quello stato aurorale, ancora incerto e rigido, della coscienza del bambino, il cui rapporto di adattamento con il mondo comporta sempre un elemento di rifiuto e di antagonismo, una volontà di rinchiudersi nel proprio guscio fibroso che l’educazione tende appunto progressivamente ad ammorbidire e a cancellare”. E’, al meglio, e con il “Cuore” di De Amicis il più bel ritratto dell’Italia appena unita.
Gennaro Cucciniello
“Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino”, uscite per la prima volta a puntate nel 1881 sul “Giornale per i bambini”, e poi integralmente a Firenze nel 1883, dicono di conoscerle tutti, ma in realtà a leggere davvero questo libro, mettendolo in prospettiva anche rispetto alla tradizione da cui deriva (novellistica toscana, la maschera di Stenterello, il giornalismo umoristico post-unitario), non sono poi così tanti. I più piccoli lo amano d’istinto, gli adolescenti nemmeno lo considerano –una volta cercai di introdurlo in un istituto professionale per l’industria e l’artigianato, ma i ragazzi mi sbeffeggiarono: “Non siamo mica pupetti!”, dissero. Quanto agli adulti, beh, lì bisogna distinguere. Sul burattino ne sono state dette di ogni risma: per citare gli estremi, Giorgio Manganelli ne scoprì la tensione metamorfica, occulta e multiforme; il cardinale Giacomo Biffi lo interpretò come una fiaba cristiana. Aleksej Nikolaevic Tolstoj lo riscrisse. Luigi Compagnone, Gianni Rodari, Luigi Malerba, Vittorino Andreoli, insieme a innumerevoli altri, si sono occupati di lui.
Sia come sia, questo romanzo è un capo d’opera: affronti la prima pagina e non ti stacchi più. L’inizio strepitoso ci trascina dentro la storia del pezzo di legno parlante che Mastro Ciliegia, stupefatto e inorridito, regala ben volentieri a Mastro Geppetto. E subito sentiamo risuonare, come in un tambureggiare lontano, i Grandi Temi del padre, della colpa e della redenzione, della creazione e del libero arbitrio. Ma non astrattamente. Proprio in concreto. Chi ha detto che bisogna resistere alle tentazioni? L’inconfondibile discolo appena nato, che schiaccia al muro il Grillo Parlante respingendo i suoi buoni consigli, non esita un istante a vendere l’Abbecedario –costato la giacchetta al povero Geppetto, che muore di freddo- per pagarsi il biglietto del teatro di Mangiafoco.
Ne scaturisce una straordinaria catena d’eventi che, data la dimensione picaresca, ha giustamente fatto pensare al “Lazarillo de Tormes”, l’anonimo capolavoro cinquecentesco all’origine della letteratura spagnola: dall’impiccagione di Pinocchio alla salvezza che gli dispensa la Fata dai capelli turchini, dalla tagliola del contadino –che obbliga il burattino a diventare un cane da guardia- al rischio di finire fritto in padella, dalla falsa lusinga del Paese dei Balocchi alla pancia del pescecane dove Pinocchio finalmente ritrova Geppetto, è tutta una corsa. Fondamentale resta la velocità esecutiva di Collodi –un prodigio stilistico con pochi uguali nella letteratura italiana- che passa da una scena all’altra senza soluzione di continuità, usando un linguaggio tutto cose: “ascia, pialla, sacco, sporta”.
Siamo di fronte a un’essenza del Bel Paese Italia, peraltro ormai diffusa in ogni parte del mondo: e noi italiani, quando metteremo giudizio? Diventeremo mai grandi o resteremo sempre incompiuti?
L’autore, Carlo Lorenzini (Collodi era il paese della madre, Angiolina Orzali), nato a Firenze, in via Taddea, nel 1826, era il primo di dieci figli; fece il giornalista e l’impiegato, fondò un paio di riviste, partecipò da soldato alle guerre risorgimentali (alcune sue lettere hanno guizzi premonitori). Morì a 64 anni, nel 1890.
Prima di Pinocchio, aveva pubblicato alcune guide storico-umoristiche e un paio di cartoni preparatori al libro maggiore: “Giannettino” (1877) e l’anno dopo “Minuzzolo”. Tutti si sono chiesti quale fosse il suo segreto. Cresciuto dietro al mercato di San Lorenzo, s’imbevve di certi suoni e di certe modulazioni che poi, come ammise lui stesso, non si scordano più per tutta la vita. A contare nel testo è infatti la musica interna del parlato popolare, certe espressioni che ti restano in testa anche dopo averle lette: il mascherone da fontana di Mastro Ciliegia, Geppetto impermalito, le gambe aggrinchite di Pinocchio e la sua uggiolina allo stomaco.
I genitori di Lorenzini erano al servizio dei conti Ginori. Il futuro scrittore utilizzò come meglio non avrebbe potuto questo sguardo dal basso: pensiamo soltanto al cavolfiore condito con olio e aceto che la buona donnina offre al burattino quale ricompensa per essere stata aiutata a portare in casa la brocca. Lui piange perché nei lineamenti della sua benefattrice riconosce quelli della Fatina: che all’inizio, quando dice di vivere in una casa di morti e di esserlo lei stessa, sembra una gemellina di Shining; poi, nel momento in cui assegna i compiti e trasforma Pinocchio in un ragazzino perbene, assume i contorni della Madre Celeste. Quarantacinque anni dopo Vladimir Propp, nella “Morfologia della fiaba”, ci spiegherà tutto.
La forza espressiva dell’opera sembra essere legata al doppio registro realistico-fantastico. In fondo “Pinocchio” è un libro d’animali: come dimenticare i quattro conigli neri e i bambini trasformati in ciuchini da quell’infame dell’Omino di burro? E poi ci sono il serpente, il colombo, il corvo, la civetta, gli uccellini, il pappagallo, i cani: il mastino Alidoro e lo scomparso e corrotto Melampo (cui andò l’omaggio affettuoso di Ennio Flaiano).
Eppure ciò che resta nella memoria è il mattonato grigio e polveroso delle metropoli inventate (dalla città degli Acchiappacitrulli all’isola delle Api Industriose). La crudeltà del vecchino che ti rovescia in testa il secchio d’acqua non te la puoi inventare: devi aver letto Giovanni Boccaccio. Il Campo dei Miracoli, dove il Gatto e la Volpe inducono l’ingenuo burattino a seppellire le sue monete d’oro, appartiene alla dimensione campestre: come l’angolo triste e desolato coi carabinieri sempre in agguato a guastare la festa.
Pinocchio non è un cyborg. Non appartiene alla famiglia delle marionette di Heinrich von Kleist. Non è lo scarafaggio di Franz Kafka. Salta da un fossato all’altro con una corsa sghemba, non come quella del Renzo manzoniano, diretta verso uno scopo. L’unico che gli assomiglia è Arlecchino, che non a caso lui difende dalla morte facendo commuovere Mangiafoco. Ma forse il suo vero amico segreto, amo crederlo, è Pulcinella. E su questo ci sarebbe da scrivere un altro libro.
Eraldo Affinati