Pontormo, “Deposizione di Cristo”, 1526-28, Firenze, Santa Felicita

Pontormo, Firenze, S. Felicita, “Deposizione”, 1526-28

 

Questo articolo di Roberta Scorranese è pubblicato nel Corriere della Sera del 26 luglio 2024.

 

Uno dei dipinti più straordinari di tutta la storia dell’arte si trova in una piccola chiesa fiorentina, appena dopo Ponte Vecchio direzione Palazzo Pitti, quasi sovrastata dal traffico di un incrocio difficile: è Santa Felicita in Oltrarno, dove in una cappella laterale, si staglia una tavola dipinta a tempera a uovo, colori acidi, una Deposizione di Cristo la cui tragedia storica sembra alleggerirsi nelle figure quasi aeree. Al centro c’è la Madonna e intorno gli angeli che sorreggono il corpo di Gesù. Un gruppo di figure che sembra muoversi come in un video, in sincrono, con gli abiti svolazzanti e le posture inusuali, corpi allungati e colori che spaziano dalla biacca al cinabro in una visione quasi psichedelica. E in effetti la vita di Pontormo (nato nel 1494 e morto nel 1557) doveva apparire, a molti suoi contemporanei, quella di un eccentrico, per non dire di un deragliato: sia nelle “Vite” degli artisti scritte da Giorgio Vasari che nei dettagli che possiamo trarre dal suo strepitoso diario pervenuto fino a noi, ci si srotola davanti una quotidianità atipica, quella di uno che tendeva all’isolamento, che seguiva una dieta poverissima e monotona, che coltivava un totale disinteresse per l’etichetta sociale, tanto che preferì lavorare per un anonimo muratore che gli aveva sistemato la casa che a una commissione della famiglia dei Medici.

Ma tutta l’aneddotica fiorita intorno alla vita di Pontormo non è tanto interessante quanto lo sono le sue opere, veri embrioni di una modernità che ancora oggi sentiamo nostra, faro intellettuale di intere generazioni, molto al di là del confine della Maniera, come vennero etichettati quelli come lui, nati dopo la grande stagione di Michelangelo e di Raffaello. Che cosa avrebbe potuto esserci dopo lo stato di grazia, l’equilibrio tra pittura e scultura raggiunto dal Buonarroti? Una pedissequa imitazione oppure, al contrario, un’evoluzione originale, una specie di strada nuova che prendeva le mosse da Michelangelo, che partiva dalle sue inquietudini in germe per farle esplodere in una pittura dai volti quasi grotteschi, dalle figure allungate (in parte mutuate dal tedesco Durer), da un generale senso di smarrimento e di tensione spirituale. Fu questa la strada di Pontormo ma anche di un altro grande fiorentino, Rosso, tanto è vero che qualche anno fa Palazzo Strozzi li accostò in una mostra memorabile.

Tornando alla Deposizione, c’è tutto Pontormo in questo gruppo così leggero eppure così drammatico: il Cristo, i discepoli, la Madonna e le pie donne non sono più figure isolate che dialogano, ma –proprio come avviene nella Sacra Visitazione di Carmignano, dove si incontrano Maria ed Elisabetta- sembrano un tutt’uno, non già attraverso la psicologia, ma attraverso la pittura. I colori, ecco il cuore dell’arte di Pontormo: ogni colore viene accostato all’altro come una sorta di esplosione. E’, in sintesi, una rara combinazione di naturale e artificioso, di sublime e di grottesco. Per dirla in breve, il carattere del Novecento, dove in artisti come Pasolini (grande studioso di Pontormo) convivevano, appunto, queste categorie contrastanti. Pontormo non è moderno, ma è contemporaneo, perché senza storia. In una raffigurazione così potente come questa Deposizione, l’artista sceglie di elevarsi al di sopra della storia, sceglie la narrazione atemporale. E per farlo alleggerisce, sfuma, leviga. Permette ai suoi personaggi di fluttuare in un tempo che potrebbe essere anche il nostro, fatto di pixel e ritocchi fotografici. O di video da condividere sui social. Ecco la contemporaneità di questo artista, così slegato sia dalle convenzioni che dal resoconto temporale. Se guardiamo il suo “San Girolamo penitente”, che oggi si trova ad Hannover, potremmo benissimo scambiarlo per un dipinto del ’900 europeo: volumi solidi, una citazione espressionista nella torsione del corpo, una testa calva.

Pontormo era stato allievo di Andrea del Sarto, Leonardo da Vinci, Mariotto Albertinelli e Piero di Cosimo. In particolare da quest’ultimo, uno degli artisti più originali vissuto tra il Quattro e il Cinquecento, aveva preso il gusto del bizzarro e del grottesco, ma la palette dei colori, specialmente quella della Deposizione, rimandano di certo al Tondo Doni di Michelangelo. Una Sacra Famiglia che il Buonarroti dipinse per il prestigioso mercante fiorentino Agnolo Doni nel 1505 circa. Michelangelo fa un uso sapiente dei colori, perché l’azzurro, il rosa tenue e il blu gli servono per accentuare il movimento, la torsione. Però l’intento del Buonarroti non era quello di astrarre la figura dalla storia, anzi: la realtà mondana in questo caso era il fine ultimo del dipinto, che doveva incastonare la vicenda umana della famiglia Doni in una cornice impermanente. Pontormo opera invece in senso opposto: la più grande tragedia del mondo cristiano, la morte di Gesù, sfuma in una gamma di colori morbidi e lucenti, una gamma di colori che trasfigura la caducità e la trasforma in uno spettacolo.

E proprio questa duplice qualità del sacro, l’eternità e la fragilità, viene ripresa da Pasolini che, nella “Ricotta” del 1963 –citando anche Rosso Fiorentino- mette in scena una rovinosa e comica caduta del gruppo dei personaggi a ridosso della croce. Una desacralizzazione di un episodio evangelico che costò al regista una denuncia per vilipendio della religione. Così è proprio grazie a Pasolini che si svela la natura dissacrante di Pontormo, quel suo stare fuori dalle regole e dalle norme sociali che personaggi conformisti come Vasari non potevano capire: “Fu nel vivere e vestire suo più tosto misero che assegnato”, scrisse, notando che dalle sue pitture “si vede apertamente che quel cervello andava sempre investigando nuovi concetti e stravaganti modi di fare”. Persino la sua casa aveva più tosto cera di casamento da uomo fantastico e soletario che di ben considerata abitura”. “Ma quello che più in lui dispiaceva agl’uomini si era che non voleva lavorare se non quando et a chi gli piaceva, et a suo capriccio”.

 

                                               Roberta Scorranese

 

Fin qui la nostra scrittrice. Io vorrei aggiungere qualche altra considerazione.

Su consiglio di Niccolò Vespucci Lodovico Capponi gli commissiona la decorazione pittorica della cappella che aveva da poco acquistato per destinarla alla propria sepoltura. La cappella deve anzitutto essere considerata nel suo complesso, con la pala d’altare quale punto focale del programma decorativo. Trattandosi d’una cappella funeraria, la funzione principale del ciclo pittorico era quella di sottolineare l’aspirazione del defunto alla resurrezione dell’anima, rivelata dalla morte di Cristo sulla croce. L’ultimo elemento del ciclo è la vetrata di Giullaume de Marcillat, attualmente custodita in palazzo Capponi di via de’ Bardi, in cui sono rappresentate la Deposizione dalla croce e il Trasporto al sepolcro, preludi alla resurrezione. E’ pertanto impensabile che la pala rappresenti una Deposizione. Si tratta infatti d’una Pietà, rappresentazione mistica del mistero eucaristico, che costituisce la chiave di volta della decorazione e corrisponde altresì alla devozione dei Teatini per il Santissimo Sacramento. Qui la cifra di Michelangelo è tale da far apparire l’opera del Pontormo come una trasposizione in pittura del pensiero del Buonarroti. L’aspetto più michelangiolesco risiede probabilmente nella scelta cromatica, che ha già fatto scorrere fiumi d’inchiostro, al punto che certuni non hanno esitato ad argomentare che i colori acidulati sono il risultato d’un restauro effettuato nel 1722; in realtà, Pontormo non fece che adottare la tavolozza di Michelangelo. Questi colori sono in effetti gli stessi che Michelangelo aveva creato nel Tondo Doni e riutilizzato in maniera ancor più sofisticata nella volta della Cappella Sistina. Di fatto, l’ultimo spettacolare restauro di questi affreschi ha ripristinato l’autentica gamma cromatica utilizzata dal Buonarroti. Questo restauro è all’origine d’una vera rivoluzione nel campo della storia dell’arte: i colori del Pontormo –queste diverse sfumature di blu, questi rossi vivi, questi verdi teneri, questi arancioni o grigi malva, questi rosa radiosi- sono quelli della Sistina riadattati, secondo i dettami del maestro, per conferire alla Pietà una serenità che associ all’idea della morte quella della resurrezione. Comunque sia, l’invenzione dell’opera è senz’altro di Pontormo: l’incontestabile posto specifico che occupa nella cultura fiorentina non potrebbe corrispondere all’aspetto atemporale e universale di Michelangelo. La pala viene a collocarsi sulla scia del Compianto sul Cristo morto (Milano, Pezzoli) che Botticelli aveva dipinto verso il 1495 secondo i precetti savonaroliani.

 

Qui il corpo di Cristo, esangue, viene portato da due giovani e sembra non pesare per il modo con cui i due camminano. Quello a sinistra si appoggia per terra per rialzarsi, quello a destra fa pensare che non ci sia assolutamente alcun ingombro sulle loro spalle o che si tratti di cosa molto lieve. Le figure si scalano l’una dietro all’altra in modo del tutto antirealistico e i colori sono quasi appiattiti, a volta con le ombre ridotte al minimo. Tutto l’insieme si svolge poi con una successione quasi fantomatica che fa pensare più a delle idee che a dei fatti veri e propri, fa pensare più allo svolgersi di un sogno che alla rappresentazione di un evento. Il pittore Pontormo è quanto mai tormentato; carattere introverso, misogino (omosessuale), chiuso nelle sue fobie e angosce; descrizioni minute dei propri escrementi, persona che vive in modo delirante, il suo Diario è un documento psicopatologico. Ma anche Firenze vive un periodo quanto mai problematico. Dopo la teocrazia rigidissima del Savonarola, dopo la prima restaurazione medicea c’è l’episodio della Repubblica in cui la città esprime tutta la rosa delle ideologie immaginabili. In pittura abbiamo da una parte il purismo sacro della scuola di S. Marco –fra Bartolomeo e Albertinelli-, dall’altro l’accademia sublime di Andrea del Sarto; poi ci sono i neo-quattrocenteschi come il Bachiacca e l’Ubertini; e infine i tentativi di spezzare con la tradizione come il Pontormo e il Rosso. E’ un periodo di crisi, manifesto anche in politica perché la città è il teatro delle fazioni più opposte, dai Palleschi che vogliono la restaurazione medicea ai Piagnoni che piangono il Savonarola. Poi ci sono degli estremisti, tutta una rosa politica molto varia e interessante. Ci sono anche Machiavelli e Guicciardini. E non dimentichiamo Michelangelo. Intellettualmente Firenze è un vivaio senza precedenti. Tutto questo terminerà con l’assedio da parte delle truppe imperiali di Carlo V, con la caduta della città e poi col sinistro congresso di Bologna che impone la signoria dei Medici con un personaggio discutibile, il duca Alessandro che si diceva fosse figlio del papa Clemente VII e di una negra.

Sheerman suggerisce di leggere la sequenza dell’azione pittorica in questo modo: in un momento immediatamente precedente Maria aveva stretto quella mano che ora lascia libera, e che è invece afferrata dalla donna che accompagna Cristo al sepolcro. Come Maria fa cadere la mano, il suo gesto si trasforma in quello dell’addio. Il tema quindi della separazione, pur ispirato in un primo momento da Raffaello, è realizzato attraverso una rielaborazione fantastica e interpretazione delle fonti antiche. Si può cogliere inoltre un nesso tra il trasporto di Cristo al sepolcro e la tomba del committente, Ludovico Capponi, posta proprio sotto la tavola. Infatti il corpo della pala è portato in avanti e abbassato in direzione della tomba: il significato della redenzione consiste nel fatto che attraverso il sacrificio di Cristo è assicurata la nostra salvezza. D’altra parte, il corpo di Cristo è in primo luogo abbassato in direzione dell’altare: il vino e il pane posti dal prete su quell’altare durante ogni messa in ripetizione del sacrificio (5 volte la settimana aveva chiesto Capponi); inoltre l’altare cristiano è, fra le altre cose, un simbolo della tomba di Cristo. L’asse verticale serve quindi ad abbassare il corpo di Cristo verso l’altare-tomba dove in ogni messa sarà presente nell’ostia e nel vino. Sulla base di tali considerazioni lo stile astratto del dipinto, tipico del linguaggio della prima fase del manierismo toscano, assume un significato assolutamente chiaro nel suo messaggio: esso serve a esprimere un’affermazione libera da qualunque fattore contingente di luogo tempo o caratterizzazione, perché il pathos che Pontormo descrive non è quello di un fatto contingente, ma quello dell’eterno mistero della Redenzione, della Morte e Resurrezione. Di conseguenza le forme e il loro ambiente sono purificati, astratti dal particolare verso l’universale, fino al punto che non vi sia neppure una pietra né un filo d’erba sul terreno; e solo una nuvola passeggera è sufficiente a descrivere l’ambiente, né vi è un modo per identificare una figura importante come quella della Maddalena. Anche i colori, brillanti e metallici, non descrivono la realtà ma accentuano l’oscurità della cappella con un’improvvisa apertura di luce, che allude al significato trascendente della morte di Cristo.

Concludo: è il suo capolavoro assoluto: il dipinto che, più di ogni altro, ha fatto innamorare gli storici dell’arte tra fine Ottocento e primo Novecento, inducendoli a una clamorosa rivalutazione del Manierismo, rimasto sepolto per tre secoli sotto una coltre di oblio e di disprezzo. Immergendo la rappresentazione nella luce irreale di un’apparizione onirica, Jacopo imprime alla scena sacra le cadenze musicali di un trasognato balletto: gesti sospesi, passi accennati, mani che si sfiorano disegnando intrecci di botticelliana memoria, corpi diafani e trascoloranti, come consunti dalla fiamma di un muto deliquio, quasi vedessimo la scena attraverso gli occhi della Vergine in procinto di svenire.

 

                                                        Gennaro Cucciniello