Preistoria: l’arte nelle grotte. E’ roba da sciamani.
L’archeologo Jean Clottes studia da decenni i dipinti rupestri del Paleolitico. Obiettivo: svelarne il significato. Anche con l’aiuto delle popolazioni tribali attuali.
Nel “Venerdì” di “Repubblica” dell’8 luglio 2016, alle pp. 60-63, è stato pubblicato un articolo di Alex Saragosa sulle pitture rupestri del Paleolitico Superiore e sui loro significati misteriosi. Circa 40mila anni fa l’Europa settentrionale era ricoperta dalla zona glaciale. Il vento gelido creava un clima artico, impedendo la vita. Probabilmente il Massiccio Centrale, in Francia, frenava parzialmente l’avanzata glaciale da nord e da est, formando a ovest una zona relativamente temperata e consentendo condizioni di vita più accettabili per l’uomo e per la fauna nella Francia sud-occidentale e nella penisola iberica. L’uomo preistorico trovava perciò in questi territori una ricca riserva di caccia per il proprio sostentamento. Si deve a questo il primo sorgere della pittura rupestre, dedicata prevalentemente alla rappresentazione di animali. Nell’analisi dell’archeologo Clottes, cui è dedicato questo articolo, si sottolineano i dubbi sull’interpretazione delle pitture ma l’impronta dipinta significa che l’uomo, unico fra gli esseri viventi, ha sempre sentito la necessità di lasciare il segno di se stesso, una traccia, quasi una documentazione della propria presenza, del proprio pensiero. E lo ha fatto –in maniera duratura- organizzando i segni, dando loro un senso e passando perciò dal “segno” al “di-segno”.
Gennaro Cucciniello
Anno 30.000 d. C., archeologi entrano in un edificio sepolto da millenni. “Doveva essere un centro di culto della civiltà pre-asteroide, quella di cui non sappiamo quasi nulla”, dice uno degli studiosi. “Guardate che immagini straordinarie… Cosa rappresenterà mai quella scena con tre uomini attaccati a delle croci? Forse un sacrificio umano o un rito di purificazione. Non lo sapremo mai”…
Ecco, di fronte agli straordinari dipinti delle grotte del Paleolitico, come a Lascaux e Chauvet in Francia o Altamira in Spagna, siamo nella loro stessa situazione: come interpretare quelle corse di cavalli, i segni a forma di arpione, i bellissimi uri, rinoceronti, cervi o mammut, i gruppi di puntini colorati, gli uccelli sul dorso di stambecchi che partoriscono, le linee tracciate con le dita, le teste di leone, la donna che si trasforma in bisonte, le cacce e le altre scene dipinte fra 30 e 10mila anni fa? Il loro messaggio sembra perduto per sempre.
Uno dei più grandi esperti mondiali di pittura rupestre, l’ottantatreenne archeologo francese Jean Clottes, non si è però rassegnato e, sfidando i suoi colleghi, un senso a quelle immagini ha cercato di darlo, raccogliendo le sue riflessioni in un saggio uscito prima in Francia e ora negli Usa, “What is Paleolithic Art?” (University of Chicago Press, pp. 208, $ 18). Chi avrebbe potuto farlo meglio di lui? Esperto di età del bronzo, professore di archeologia all’Università di Tolosa e a Berkeley, Clottes fu nominato nel 1975 direttore delle antichità preistoriche nella regione del Midi-Pirenei. Si trovò così al lavoro nell’area del mondo che accoglie le più spettacolari opere d’arte del Paleolitico: ne rimase tanto affascinato da dedicargli il resto della sua carriera. Una scelta premiata dalla fortuna. Durante il suo mandato ha assistito infatti alla scoperta ed esplorazione di nuove grotte dipinte: fra queste, nel 1994, quella di Chauvet –tra le più ricche di capolavori preistorici- di cui ancora dirige la ricerca scientifica. “Ed è ancora la mia preferita”, dice, “il pannello dei cavalli e quello dei leoni sono fra le vette dell’arte paleolitica”.
Un’arte che per molti si può solo descrivere, ma non cercare di capire. Perché? “Perché negli anni successivi alle prime scoperte di grotte dipinte ci sono stati anche troppi tentativi di interpretarle: alcuni vi vedevano magie per propiziare la caccia, altri arte fatta per il solo piacere di farla, altri ancora rappresentazioni dei “totem”, animali delle tribù”, spiega Clottes. “Ci fu persino chi, visti i molti disegni di genitali femminili, ipotizzò l’opera di adolescenti ribelli, un po’ come i nostri writer. A questa sarabanda di illazioni pose fine il grande etnologo e archeologo André Leroi-Gourhan negli anni Settanta, sostenendo che era inutile cercare una spiegazione: queste pitture provenivano da una cultura e una visione del mondo troppo lontane e diverse dalla nostra, il loro significato era perso per sempre. Però, secondo me, se lo studio di ossa e attrezzi ci può dire molto sul mondo fisico delle genti del Paleolitico, la loro arte ci offre una preziosa finestra sulla loro mente, e non possiamo non tentare di darle un senso, almeno generale”.
Per riuscirci Clottes da decenni gira il mondo studiando l’arte rupestre in tutti i continenti e parlando con gli ultimi rappresentanti di quelle popolazioni che usano ancora questa forma di rappresentazione per scopi culturali e religiosi: gli aborigeni australiani, le tribù fra Messico e Usa, i popoli siberiani, i San dell’Africa australe, gli indios amazzonici… “Questi popoli vivono ancora un contatto intimo con la natura, per cui il senso che danno alle loro immagini può aiutarci a capire quello che gli davano gli uomini di 30mila anni fa. Per esempio, ora sto studiando le popolazioni tribali dell’India, che usano l’arte rupestre per attrarre salute e prosperità. Nelle Americhe ho invece appreso che i graffiti sono spesso legati agli “spiriti animali” dei luoghi, che si cerca di rendersi amici con piccoli doni. In Australia poi i famosi dipinti degli aborigeni legati ai miti ancestrali vengono ridipinti e aggiornati da millenni, perché sono ancora usati per l’iniziazione dei giovani. I dipinti tribali di oggi hanno in comune con l’arte preistorica alcune caratteristiche, per esempio la continua ripetizione in certi luoghi degli stessi soggetti, oppure la presenza di impronte di mani e piedi di bambini, che fa pensare a riti di iniziazione, o i doni e i segni di dita lasciati sulle immagini, simili a quelli che lasciano i fedeli nelle chiese quando chiedono grazie”.
Con l’etnologia si può dare quindi un significato preciso alle pitture paleolitiche europee? Clottes è pronto a frenare. “No, questo non è possibile: l’abisso temporale è troppo grande e molti dettagli sono ormai perduti. In Australia, per esempio, mi hanno spiegato come certe linee sulle rocce indichino luoghi accessibili solo ai maschi o solo a iniziati. Nelle grotte del paleolitico ci sono segni simili: ma chi ce ne potrà mai spiegare il senso? O pensate a quella scena dipinta a Lascaux: un uomo con la testa di uccello e il pene eretto, disteso davanti a un bisonte sventrato da una lancia. Non potremo mai sapere a quale mito si riferisca. Credo però che potremo arrivare a intuire l’idea generale che motiva certe opere. Ed eliminare alcune ipotesi, come quella che si tratti di graffiti casuali: a realizzare opere di tecnica sopraffina dovevano esser persone selezionate e addestrate. Da scartare è anche l’ipotesi che i dipinti abbiano fini solo estetici: spesso si trovano nei recessi più oscuri e nascosti delle grotte, non certo per essere visibili a tutti. C’è una logica che ci sfugge nella scelta dei siti: alcune grotte comode e abitate per millenni non hanno dipinti, altre disabitate e quasi inaccessibili ne sono piene. Perché? I nativi americani mi hanno confermato che l’arte rupestre si realizza solo dove i luoghi parlano agli uomini”.
Ma in che modo “parlavano” Altamira o Chauvet? “In tante mitologie le cavità sono un accesso a mondi ultraterreni”, spiega l’archeologo. “Immaginiamo un uomo del Paleolitico che si spinga nell’interno di una grotta fino a luoghi bui, con strani odori e concrezioni, inquietanti figure create dalle ombre, paurosi effetti di eco, poco ossigeno. In un luogo simile non c’è da stupirsi se qualcuno aveva visioni, che forse provava poi a fissare sulle pareti. La grotta appariva un luogo a cavallo fra il mondo degli uomini e quello ultraterreno, e chi era capace di mantenere aperto il contatto, magari anche per l’abilità nel disegnare le sue visioni, diventava una figura di grande importanza, uno sciamano”.
Lo sciamanesimo è una forma di spiritualità tipica di popolazioni che vivono a stretto contatto con la natura ed è basata sull’idea di una continuità e permeabilità fra mondi: umano e animale, terreno e ultraterreno. Lo sciamano, entrando in trance grazie a danze, canti, digiuno o droghe, contatta o diventa esso stesso uno spirito animale, per ottenere guarigioni, preveggenza, buona sorte. Le figure metà uomo metà animale, presenti sia nei disegni tradizionali che nelle grotte del paleolitico, rappresenterebbero questa funzione dell’uomo sacro.
“La mia ipotesi”, spiega Clottes, “è che le grotte europee fossero le sedi di riti sciamanici, per l’iniziazione di giovani, per propiziare la salute, la caccia e forse anche la fertilità, come suggeriscono le figure di genitali femminili, spesso ricavate intorno a fessure nella roccia”.
Immaginiamo la discesa in quelle “chiese preistoriche” di giovani da iniziare o di malati da guarire, accompagnati dai loro sciamani. L’improvvisa apparizione dal buio di immagini dei grandi animali e delle storie di personaggi mitici doveva avere un effetto sconvolgente. “Abbiamo anche scoperto che certe figure, composte da tratti disegnati e ombre di concrezioni, si vedono solo tenendo la luce in certe posizioni, quindi lo sciamano poteva farle apparire e sparire a volontà, come se uscissero dalla roccia”, aggiunge Clottes.
Allora, come oggi, si tentava poi di condividere una parte del potere del luogo toccando con le dita le immagini o le pareti, lasciando su queste segni che sono ancora visibili. “Oppure si facevano offerte, come le schegge di osso incastrate nelle crepe vicino ai disegni: a me ricordano i bigliettini indirizzati a Dio lasciati nel Muro del Pianto a Gerusalemme”.
I “segni di devozione” più noti sono però le impronte di mano in negativo. “Erano forse il modo più suggestivo per attingere potenza spirituale: mettevi la mano sulla parete, su di questa veniva soffiata della polvere colorata facendola diventare uguale alla roccia, e quando sollevavi la mano era come se portassi con te un po’ del potere del luogo”.
Una cosa che colpisce nei dipinti paleolitici è che gli animali sono tanti e bellissimi, mentre gli uomini sono pochi e raffigurati in modo schematico. Anche per questo Clottes ha una spiegazione: “Nel mondo del Magdaleniano l’uomo era una piccola e debole cosa, immersa in una natura intatta, dominata da animali bellissimi, possenti, spesso pericolosi. Tutto l’immaginario, tutta la spiritualità umana dovevano ruotare intorno a loro”. Un mondo che finì con l’avvento dell’agricoltura, le foreste disboscate e gli animali sterminati o chiusi nei recinti. Gli spiriti delle grotte tacquero e gli dei divennero umani.
Alex Saragosa
L’uomo era “spiritualis” anche prima di essere “sapiens”?
L’archeologo Jrean Clottes, per definire la nostra specie, invece che di homo sapiens, preferisce parlare di homo spiritualis: saremmo infatti gli unici in grado di ragionare sull’esistenza di un altro mondo. Ma è proprio così? Due recenti scoperte fanno pensare che anche uomini non sapiens abbiano avuto una vita spirituale.
Nella grotta di Bruniquel, in Francia, l’archeologo Jacques Jaubert dell’Università di Bordeaux ha di recente datato due grandi cerchi composti da 400 pezzi di stalattite: risalirebbero a 179mila anni fa, quando homo sapiens non aveva ancora lasciato l’Africa. I cerchi, che sembrano avere funzioni cerimoniali, sarebbero quindi opera di Neanderthal. Nella grotta Rising Star, in Sudafrica, il paleontologo Lee Berger dell’Università del Witwatersrand ha scoperto invece una cavità con resti di 15 ominidi di una specie che è stata chiamata Homo Naledi, risalente a due milioni di anni fa. Lo stato delle ossa sembra escludere che siano i resti di corpi trascinati lì da belve, da una piena o da un crollo: potrebbe trattarsi di una sorta di “tomba di famiglia”, la prova di una vita spirituale, presente ben prima di Homo Sapiens, che evidentemente non è l’unico Homo Spiritualis.
Al. Sa.