Quante radici ha la felicità
Marco Balzano in un saggio costruito su una parola e su quattro narrazioni riflette su un concetto chiave, “felicità”, attraverso la ricerca etimologica.
Se ci fossero più insegnanti come Marco Balzano, forse nelle classi italiane avremmo studenti più curiosi. Come si fa a non rimanere affascinati da un prof che dice: “Lo scopo della ricerca etimologica non è l’erudizione, come per troppo tempo abbiamo pensato, e come spesso anche la scuola e l’università ci hanno fatto credere, ma è piuttosto la militanza, ossia la sua capacità di intervenire e reagire ricordando la lunga storia che ogni parola si porta dietro, esigendo quindi attenzione e tutela da appropriazioni indebite e utilitaristiche”. Sono le frasi di un educatore che, mentre spiega (anzi e-duca perché conduce da uno stato di non conoscenza a uno di consapevolezza), spalanca un mondo di immagini e di storie. Letterario e politico. Per fortuna Balzano fa lo scrittore –oltre che il prof di liceo- e così le sue lezioni di etimologia possono diventare libri. E’ successo nel 2019 con “Le parole sono importanti” (Einaudi), succede ora con il nuovo “Cosa c’entra la felicità?” (Feltrinelli), che è un saggio costruito su una parola, felicità, e quattro storie: eudaimonìa, felicitas, ashrè, happiness.
Greco, latino, ebraico, inglese. Balzano entra nel territorio misterioso della felicità usando le chiavi della lingua. Il suo è un viaggio che ha origine da un episodio privato, un amico che compra un cellulare e lui che gli chiede: “Sei felice del tuo acquisto?”. Risposta destabilizzante quanto legittima: “Cosa c’entra la felicità”. Vero. “Aveva ragione. L’avevo ridotta a un bisogno di possesso”. Da qui ha inizio la riflessione dell’autore. Con un racconto che attraversa i secoli, i popoli e le religioni. Si comincia dai Greci, ovviamente, che avevano molte parole perché avevano molte idee e che perfezionano il loro pensiero al punto tale che da un concetto esterno di felicità, determinato dal caso, passano alla definizione di eudaimonìa che ribalta la prospettiva: da vittime della sorte, gli umani diventano parte di un percorso attivo di risveglio della coscienza che li porta a far fiorire –sbocciare- la loro parte più autentica.
Legati visceralmente al concetto di madre terra, ecco i Romani, con la loro sequenza di “f” –felix, fecunda, fertilis, femina, filius, fetus– e un’idea alla base della felicità: il dono agli altri, il nutrimento, il consegnare parte della propria fortuna, l’apertura alla vita, che ci chiede di trasformarci da in-dividui a dividui, persone che spartiscono ciò di cui dispongono.
Campi semantici diversi. Interpretazioni che esprimono la profondità di un popolo. Come quello ebraico, in movimento, proprio come indica la parola ashré. Un cammino verso la felicità che torna nei Vangeli, che arriva fino a noi. Cita i Salmi, Balzano: “Beato il popolo che ti sa acclamare, o Signore, e che cammina alla luce del tuo volto” (89,16). Scava nei testi, cita studi e fonti, da Emmanuel Lévinas a Salvatore Natoli, da Sant’Agostino a San Tommaso. E li alterna a ricordi personali, le vacanze dai nonni in Puglia quando era bambino, un tentativo (non proprio riuscito) di fare il clown per i piccoli malati oncologici, una cara amica che non c’è più e che gli ha insegnato tanto, anche sulla felicità. Perché questo libro non è un corso di grammatica, e nemmeno di cultura ebraica o religione. In queste 102 pagine –note escluse- ci sono Shakespeare (pare che sia sua la definizione di cultura come “only connect”: collegarsi, mettersi in ascolto), Philip Roth, Socrate, Montale, Newton, che diventa protagonista dell’ultima parte del libro, dedicata a happiness (che ha a che fare con il verbo cadere, come la mela che portò lo scienziato inglese a formulare la teoria della gravitazione universale, perché il caso a quel punto diventa occasione, entrambi dal latino cadere). Balzano si diverte perfino a contestare a Tolstoj l’incipit di “Anna Karenina”, provando a sostenere che “forse, invece, ogni famiglia è sempre felice, oltre che infelice, a modo suo”. E c’è il Pasolini degli Scritti corsari. Attualissimo e denso.
“La felicità è una parola di cristallo, splende di luce diversa a seconda dell’angolazione da cui la guardiamo e della distanza da cui l’ammiriamo”. Nelle quattro storie che Balzano racconta c’è proprio questo, uno sguardo sull’umanità che cambia di continuo forma e immagine. Per questo il suo libro è (anche) un inno alla gioia di sapere, perché chi conosce ha gli strumenti per definire il proprio orizzonte di valori e aspirazioni, di accettare la casualità e l’insondabilità degli eventi –la felicità ha sempre a che fare con il mistero-, di guardare se stesso in relazione agli altri senza essere schiavo dei propri pregiudizi. Di essere, sopra ogni cosa, libero.
Annachiara Sacchi
Questo articolo è stato pubblicato alla pagina 43 del “Corriere della Sera” di domenica 25 settembre 2022.