Quasi un altro Caravaggio: è Cecco

Quasi un altro Caravaggio: è Cecco

E’ Francesco Boneri, discepolo, forse amante del Merisi.

 

Lo scambiavano per il pittore Louis Finson. Dicevano fosse francese, anzi no: spagnolo. E’ stato un fiammingo fino a prova contraria. Era lui, non era lui? Esisteva davvero? Il suo vero nome è rimasto sepolto per secoli, fino a spuntare in una lettera contabile: il committente che gli aveva ordinato una pala d’altare non era soddisfatto e la rivendeva rimettendoci 40 scudi.

Di Francesco Boneri si è sempre conosciuto poco. Tranne una cosa, certa almeno quella: il volto. E’ lui l’eroe affranto che Michelangelo Merisi dipinge in un capolavoro destinato a gloria mondiale, il Davide con la testa di Golia.  Sono i mesi tormentati del 1606, in cui Caravaggio fugge da Roma: reo dell’omicidio di Ranuccio Tomassoni, braccato dai parenti del morto, condannato alla pena capitale, ricercato dalla giustizia, il Merisi prepara un quadro in cui l’ansia ha la forma plastica di una testa mozzata. La sua. Golia decapitato è un autoritratto, mentre l’altro sulla tela, un Davide tutt’altro che trionfante, ha le fattezze di Boneri: apprendista, garzone del maestro e forse suo amante, lui stesso artista. Il più misterioso tra gli allievi della schola.

Francesco, detto Cecco.Tracciarne la vera storia per Gianni Papi è una sfida che dura da oltre trenta anni. Grande studioso del Merisi e della sua cerchia, curatore di mostre e autore di innumerevoli saggi, a Papi si deve il match che ha collocato Boneri in Lombardia. “Il seguace di Caravaggio capace di sfuggire alle cronache non era uno straniero: con il genio condivide le origini territoriali”, mi spiega.

Il primo a parlare di questo ragazzo di bottega è Giulio Mancini, il medico papale con una sconfinata passione per l’arte che nei suoi carteggi secenteschi raccontava il Merisi e la sua schola: ne facevano parte Bartolomeo Manfredi, Jusepe de Ribera, Spadarino e, appunto, un tal Cecco del Caravaggio. Le note si erano a lungo fermate qui. Finché, nel 1943, Roberto Longhi individua sulla base dello stile un primo nucleo di quadri del fantomatico Cecco. Un nucleo che, man mano, si amplia: il bianco, quasi fluorescente, i panneggi iperrealistici, la definizione estrema dei corpi che sconfina in una sensualità scabrosa per l’epoca, l’anticonformismo delle scene (nella Resurrezione, oggi all’Art Institute di Chicago, non si fa alcun problema a lasciare una porta in vista) sono le tracce da seguire. Boneri non firma mai ma oggi gli vengono attribuiti circa 25 dipinti. Spesso spettacolari. Per Longhi è “una delle più notevoli figure del caravaggismo nordico”, poiché, ricorda Papi, “si pensava che Cecco citato dal medico collezionista fosse il fiammingo Louis Finson. Lo stile è affine”. Eppure no. Non era Finson. Scavando nei documenti Papi devia la traiettoria e aggiorna gli studi: possiamo dire “che Cecco è lombardo, bergamasco, e che il “nordico” citato da Longhi vada inteso come del Nord d’Italia, e non più del Nord Europa”.

E’ proprio la sua (restituita) città a rendere omaggio a Boneri: delle 25 opere note e conservate nei più grandi musei del mondo, 19 stanno per essere raccolte a Bergamo, nella prima monografica mai dedicata a questo autore sfuggente. L’Accademia Carrara con l’evento riapre al pubblico dopo un riallestimento, accompagnando il capoluogo orobico e Brescia nel percorso di capitali della Cultura 2023. In un titolo che è anche un gioco di parole –Cecco del Caravaggio, l’Allievo modello, curata da Papi e da Maria Cristina Rodeschini- il museo esporrà dal 28 gennaio al 4 giugno dipinti dell’artista, di firma a cui lui si è ispirato o che da lui si sono fatti ispirare. Soprattutto, ci saranno due capolavori nei quali Caravaggio lo ritrae: Davide con la testa di Golia, in arrivo dalla Galleria Borghese di Roma, e San Giovanni Battista dalla Pinacoteca Capitolina. In tutto 42 pezzi mai esposti insieme, per un tributo a un autore rimasto nell’ombra ma con una storia affascinante.

Prima di tutto, le origini. Gianni Papi giunge alla Lombardia, e a Bergamo, in diversi passaggi. La scoperta chiave è di inizio anni Novanta: nel fondo che conserva i carteggi di Piero Guicciardini, ambasciatore dei Medici a Roma, lo studioso ritrova i rendiconti di pagamento di una pala per la cappella di famiglia nella chiesa di Santa Felicita a Firenze. Guicciardini cita esplicitamente (in un unico appunto) il vero nome del pittore, che dallo stile si sa essere l’enigmatico allievo della schola: nessun Finson, bensì tal Francesco Boneri. Nella lettera l’ambasciatore racconta dei 200 scudi pagati per la Resurrezione e del fatto che non se la sente di esporla a Firenze, forse perché troppo anticonformista: la rivenderà per 160 a Scipione Borghese. Dal nome messo nero su bianco sono scaturite altre indagini e Papi arriva a collocare Cecco basandosi anche sulle affinità con le creazioni del bresciano Giovanni Gerolamo Savoldo (1480-1548). “Nel 1793, in “Vite de’ pittori, scultori e architetti bergamaschi”, Francesco Maria Tassi cita i Boneri come famiglia di artisti”. Da qui si risale seguendo le parentele: “In un atto di matrimonio del 1601 individuato a Bergamo una Boneri sposa un Vacchi (Vacchi è la famiglia allargata di Caravaggio) con un Merisi a fare da testimone. Il resto è logica: il giovane, talentuoso amico di famiglia può essere stato affidato al grande pittore lombardo chiamato a Roma”.

Cecco sarebbe nato “fra 1585 e 1586, ha 14-15 anni meno di Michelangelo: da adolescente entra a bottega”. Lì, oltre a intrecciare un legame particolarissimo con il Merisi, ne impara l’arte. I censimenti pasquali del 1605 parlano del ragazzo che condivide la casa del pittore come di Francesco garzone, ma è per altre fonti il suo Caravaggino, ed esplicitamente his boy per il viaggiatore britannico Richard Symonds. Il legame era sicuramente speciale. “Vediamo Francesco diventare adulto nei lavori, almeno sei, in cui Caravaggio lo ritrae: è un bambino nell’Amor vincitore” (ancora Symonds, nel 1650, scrive in un diario che il modello è Francesco e da qui si scopre il suo volto), è il chierichetto del “Martirio di San Matteo”, è Isacco urlante nel “Sacrificio di Isacco” degli Uffizi, è l’angelo nella “Conversione di San Paolo” della collezione Odescalchi, è Davide nel dipinto della Galleria Borghese, probabilmente eseguito a Napoli”. Città in cui entrambi fuggono nel 1606, “perché i parenti di Ranuccio avrebbero potuto vendicarsi con il garzone”. Poi l’immagine di Cecco sparisce: “Forse lui rimane a Napoli mentre il suo maestro parte per Malta”. Nel 1613 risulta a Roma. Nel 1620 lavora per Guicciardini. Poi è come inghiottito dal nulla. Di Boneri –“il pittore che più di altri porta la lezione di Caravaggio a conseguenze estreme, libere, anticonformiste” – restano i quadri.

La Carrara esporrà anche “La cacciata dei mercanti dal tempio” (1613-15, dalla Gemaldegalerie di Berlino), ritenuta la pietra miliare del linguaggio pittorico di Cecco. “Si ritrovano l’influenza del Merisi, nella composizione movimentata e nelle espressioni di terrore, e quella di Savoldo nell’atmosfera nitida”. Ancora Papi, qui, ha scovato un dettaglio: “Nel giovane che osserva la scena all’estrema sinistra, un dandy con cappello rosso dal fare distaccato, Francesco dipinge se stesso”. Un autoritratto che, forse, vale più di una firma.

 

                                                                  Anna Gandolfi

 

L’articolo è pubblicato ne “La Lettura” del 22 gennaio 2023, supplemento culturale del Corriere della Sera, a pag. 25.